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Vite di bardi


Il Signore dei Sogni

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Popolo di Nai! ...Benritrovati! Prima di tutto, ringrazio tutti quelli che hanno continuato a crederci, a pigiare il tasto "aggiorna" nella speranza di trovare un nuovo articolo: ho sempre continuato a scrivere, ma una serie di motivi che si sono risolti solo a fine settembre mi hanno costretto a un lavoro ridotto; inoltre la mole di idee da trattare e la complessità di fondo dell'articolo hanno contribuito molto alla lunga pausa. Ma poco importa: sono tornato.

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Ci eravamo lasciati con un articolo vagamente autoreferenziale sulle correnti letterarie delle Toplakar Nai: partendo dal fatto che alcune cose soddisfano di più chi le progetta e scrive piuttosto che chi le legge, l'articolo aveva una doppia finalità. Per creare un'ambientazione viva è necessario pensare anche al sostrato quotidiano che costituisce solo lo sfondo delle avventure ma che le rende più vere; in tal senso un'informativa su miti, leggende e tendenze letterarie (perché la letteratura, in vari livelli e forme, è diffusa in tutti gli strati sociali) risulta comoda per descrivere certe situazioni. L'obiettivo tuttavia era anche quello di parlare dei bardi delle Terre di Nai, poiché per definirli ho visto necessario definire le forme della loro espressione (nelle Terre di Nai ha più seguito l'espressione artistica della parola che della musica, per la preminenza dell'importanza sociale dell'oratoria nella società). Per procedere sull'argomento, allo scopo di comprendere come i bardi si presentano nell'immaginario della gente trovo che sia utile descrivere le personalità che effettivamente hanno plasmato e categorizzato la figura del bardo. Questo articolo quindi è una raccolta di biografie di bardi famosi, dove ciascuno corrisponde effettivamente a un tipo di bardo diverso. Per i più raffinati, corredato a ognuna di queste figure c'è un approfondimento sulla loro importanza artistica.

 

I bardi di mondo: Elbise Langirt, alla corte del Califfo Vathek

I bardi sono creature cittadine: la città, con tutti i suoi anfratti, le sue contraddizioni, le piazze e i vicoli oscuri, sono il palcoscenico perfetto perché un bardo possa interpretare il suo ruolo, vestendo la maschera di virtualmente tutti i personaggi. I bardi che vivono dentro la città vengono chiamati "barbieri", in virtù della professione tipica, che mescola la sveltezza con le lame, fiducia del cliente, con l'affabulazione e il disvelamento di segreti. Ovviamente sono molto più di semplici parrucchieri. Il loro atteggiamento verso la legge può variare, ma in genere mostrano un minimo di rispetto per la convenzione sociale: la città è molto più di uno sfondo, è la loro ragion d'essere, possono violare la legge, ma non causarne la disgregazione. I bardi più disposti alla rettitudine e più inclini al potere possono riuscire a scalare la società molto rapidamente, come vi dimostrerà Elbise Langirt.

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La lunga saga del "Sultano Rosso" è il frutto del genio cervellotico di Elbise Langirt, letterato geometrico e "dittatore illuminato" del panorama letterario. La sua opera è stata caratterizzata da una continua opera di ricerca di genere, sperimentando ogni forma artistica, dalla satira, alla storiografia, al trattato, alla lirica. Nell’immaginario popolare Elbise Langirt è un demiurgo e il protagonista di favole e storie. Elbise Langirt è uno di quei personaggi che hanno salvato l’idealismo shi’r da sé stesso, ma per farlo ha dovuto accompagnarlo verso la senescenza e, lentamente, impercettibilmente, ucciderlo. Langirt ha cambiato marcia parecchie volte passando dall’idealismo più genuino dei primi tempi a successive elucubrazioni a volte apprezzabili, a volte forse un po' troppo pretenziose. Come tutti i geni anche Langirt ha vissuto momenti critici e grandi squilibri, con riflessi più o meno pesanti sulla produzione letterario. La grande differenza l’ha fatta il grado di sintonia di Langirt con la propria arte e con l’ambiente culturale: migliore la sintonia con il clima artistico circostante, migliore il risultato finale. Elbise non è uno di quei poeti che reputa l’ispirazione poetica immediata come elemento supremo: ogni suo componimento nasce da un preciso scopo teorico, filosofico, artistico, e infatti scrisse lavori di ogni genere e ispirazione. La sua vita si è quasi sempre accompagnata al potere e alla corte; luci e ombre non mancano nella sua carriera.

Elbise Langirt nasce nel 53 DR da una famiglia povera (lui racconta che era solito vendere pesce lungo il canale di Basra per aiutarla). Nonostante le difficoltà economiche continuò a cercare di raggiungere un buon livello di istruzione (infatti si incontrava con un gruppo di giovani presso il templio di Basra per discutere di vari argomenti scientifici e filosofici). Non riteneva che i bardi "mendicanti" e cittadini offrissero la giusta risposta alla ragion d'essere bardo, così Elbise continuò i propri studi e, a venticinque anni, poteva definirsi esperto di poesia, storia, Cammino Dorato e filosofia (Vathek nel suo califfato incentivò la cultura, quindi potè sgraffignare i trattati che gli interessavano con facilità). Mentre si trovava ancora a Basra, Elbise scrisse un testo che parlava dell'istituzione del Califfato e della fine della Frammentazione: tale testo ha rappresentato l'inizio della sua carriera di scrittore, che sarebbe poi diventata la sua professione. Attirò l’attenzione degli ambienti letterari e il Califfo, che desiderava fare della sua corte il migliore tra i circoli culturali possibili, lo chiamò a sé. Con la sorpresa di molti, il giovane Elbise entrò in confidenza in breve tempo con il Califfo plenipotenziario; le voci che circolano si sprecano ancora, a più di cinquant'anni dal Califfo Rosso (il soprannome di Vathek, poi trasmesso a Elbise).

La sua prima opera a corte è: “Il Libro della Corte del Califfo”, che per molti aspetti è il suo lavoro più memorabile. Alla corte del Califfo, dopo lo sfolgorante successo della prima opera, per un lustro si dedica a collaborazioni, alla critica letteraria, alla direzione del movimento idealista e soprattutto come scrittore di opere Adab (il suo campo di ricerca era la linguistica Midani [NdDM la lingua parlata, portata da Nailah]). Alla corte quindi negli anni successivi ha tempo di affermarsi come letterato a tutto tondo e anche discreto incantatore: parteciperà anche lui al colossale torneo magico indetto nel 89 DR, pur senza risaltare. I guadagni che ottenne, la posizione privilegiata come intellettuale e il forte ascendente sul Califfo lo resero per più di un decennio l'intellettuale più potente del mondo, e probabilmente quello con nemici più pericolosi.

Le favole non durano in eterno: il Califfo Vathek presto rimane trappola delle tentazioni del Giaurro, e scompare, non prima di aver ucciso i suoi due figli (e tante altre nefandezze). Alle prime avvisaglie delle instabilità di Vathek, la corte diventò improvvisamente ostile al poeta: molti pensarono in buona fede che le insensatezze di Vathek fossero causate da qualche suo incantamento, quelli in malafede vi vedettero l'occasione ideale per liberarsi di un personaggio così scomodo. Alla fine, quando il Califfo scomparve definitivamente il poeta decise di scomparire con lui, scappando da Ashantir e dai luoghi del potere in generale, imbarcandosi verso la città di Uqbar, il porto della Bandiera Fihr sull'Okyanus. Lontano da tutti. Ma il Fato ebbe altre sorprese per lui: il Sunbuk naufraga sulle coste dell’Arcipelago Lunare dopo una tempesta memorabile. La corte del principe Yelkovan accolse con molti onori un così importante letterato, che qui trovò un'isola di pace, pagata solo con alcuni panegirici. La Guerra di Successione tuttavia sta per scatenarsi anche sull’Arcipelago Lunare, configurandosi qui come guerra civile tra le due fazioni del Principe Yelkovan e dell’emiro Acrux (poi vincitore e futuro Sultano, dinastia Osman). Animato da un’indole principalmente libertaria, come sarà poi Al-Mawlid, Elbise offrì la sua persona (e poesia) al servizio dell’esercito del Principe contro l’emiro Acrux, che vedeva come usurpatore e distruttore di pace. La guerra civile Lunare si concluderà con la sconfitta del Principe, che verrà giustiziato, e tutti i buoni propositi poetici, filosofici e sociali di Elbise andranno in esilio insieme a lui nell’Isola Selvaggia (sarà isolato fisicamente dal mondo, ma in realtà ha scambi epistolari fittissimi con tutta l’elite poetica grazie ad alcuni suoi amici sufi e maghi). In questo periodo compone il suo primo e unico poema epico, il “Libro del Principe Yelkovan”.

Le esperienze dolorose indurirono la sua sensibilità, così che, in occasione di un’amnistia di Acrux (102 DR) che gli permise di tornare nella Bandiera Osman, presenta il poema che aveva scritto nell'esilio, che assurse a opera iconica di una nuova cultura e per questo epocale. Quasi sapesse di dover ormai abdicare a una nuova generazione di letterati il Califfo Rosso lancia il suo urlo; un canto del cigno, forse, ma anche una lezione ai posteri. Il cielo è senza stelle, gli angeli cadono e il Califfo sta per congedarsi dalla sua corte. Quest’opera è il definitivo traghettamento dell’idealismo shi’r in una nuova era. Elbise, che è stato il nume tutelare degli idealisti, dei classicisti, ora diventa il nume titolare degli espressionisti. Langirt critica apertamente la nuova vecchia letteratura “dinosauro”, che degenerava in grandi circoli manieristici e dall’intelligenza molto ridotta, mentre esalta i piccoli poeti indipendenti e intelligenti dell’espressionismo. Dopo il successivo ritorno ad Ashantir e la presentazione de “Il Libro della Disciplina” la vita di Elbise Langirt smette di essere fortemente legata al potere, e da allora si occupa dell’organizzazione del movimento della Disciplina; significativa importanza per la sua produzione ha avuto l’incontro con “Il Cane” [vedi sotto], uno di quelli che vengono chiamati "corrieri cosmici". Riappacificatosi con Ashantir, da un decennio lavora all’Università di Ashantir, insegnando e presiedendo a svariati circoli, le cui fasi della produzione poetica sono tutte condivise e tutte assolutamente top secret. Ha smesso di occupare i posti di potere, ma è un'eminenza grigia in città. Ad alimentare segreti sulla sua vita e su quello che fanno lì dentro è l’invecchiamento assai rallentato. Chissà cose bolle in pentola (le indiscrezioni vogliono che stia cercando di raccogliere e rielaborare tutto il materiale di un’oscura tradizione poetica, nonché di ritrovare il vecchio amico canino)...

 

La rinascita letteraria delle Toplakar Nai

Strano personaggio Elbise Langirt. Strano e unico personaggio in un mondo letterario che, almeno all'epoca dei suoi esordi, derivava da un humus culturale e di costume legato indissolubilmente alla letteratura religiosa (il Cammino Dorato e le sue esegesi, agiografie, hadith di Nailah e degli Imam…), all’epica mitica (i tempi immediatamente successivi alla creazione del mondo, quando gli uomini ancora non dominavano ed erano in conflitto con molte altre creature; questa parte è una vestigia dei miti pre-nailiani), eroica (l’epica delle guerre di Nailah e degli Imami e degli Askerler valorosi; questa parte si è formata nel periodo dell’Imamato e nei primi anni della Frammentazione) e storica (le stelle e le cadute degli Stati nella Frammentazione, ma anche le storie avventurose di singoli personaggi come l’odissea di Antar, i viaggi di Sindibad, la tragedia di Rostam...). Il problema intrinseco della poetica era il legame troppo forte con l’epica: la rinascita di un Regno unitario e universale necessita di una letteratura nuova, che si staccasse dalla letteratura legata a un interregno “dannato”, come si voleva far passare all’epoca la Frammentazione. Il primo lavoro di Langirt ragiona a partire dalla differenza con il passato: l’unificazione c’è stata grazie alle nuove capacità della mente, che si è aperta alla magia, quindi la letteratura dei nuovi tempi doveva necessariamente partire dalla mente.

Spoiler

“Il Libro della Corte del Califfo” si presenta come una mostra dei personaggi, delle storie, dei costumi della corte del Califfo Rosso, ma ad una lettura approfondita si tratta di una visione critica di ogni singolo aspetto della società, reso possibile dal largo uso di allegorie, simboli e associazioni mentali immediate, nonché vera enciclopedia del sapere filosofico di allora. Ma i contenuti contano fino a un certo punto, la rivoluzione è nello svolgimento dei singoli passaggi. Il poco più che ventenne Elbise Langirt crea un approccio mentale e ideale (prima che compositivo) che esce dalle vecchie traiettorie della poesia come forma viscerale, emotiva, popolare, funzionale allo svolgersi di stanchi rituali di stupefacente conformismo artistico; la poesia prima di Elbise era la poesia delle saghe epiche, degli eroi del popolo, delle storie tradizionali e della campagna, lui fonda l’idealismo shi’r (vedi qui), e dopo di lui la poesia sarà una commistione di elementi classici, filosofici, religiosi ed espressionisti. Tutti i pezzi nascono da idee iniziali, che vengono enormemente sovraccaricate di impatto filosofico con divagazioni simboliche (ovvero che partono dalla rappresentazione dell’oggetto che, senza la minima modificazione, al tempo stesso diventa la rappresentazione di un oggetto assolutamente diverso al quale poi si passa, e così via), e di tensione drammatica (di grande impatto visivo è la descrizione dell’evocazione della Strega del Fuoco).

Lavoro epocale, tra grandeur, enfasi e inquietudine del profondo, poema di saldissima struttura, potente, delicato, iper-razionale ma anche di impeto e tempesta, questa opera è il passaggio preparato, studiato e consapevole verso un nuovo genere, e lo è non tanto e non solo per quello che verrà scritto in futuro, ma anche per quello che codifica, per il pensiero estetico, culturale e per le ambizioni che manifesta, e per la sua influenza: con questa opera inventa l’idealismo shi’r. Il primo lavoro presenta delle ingenuità letterarie, ma era un rapporto artistico ancora vergine, sostenuto dall’euforia del momento e dal favore di vento. Nei lavori successivi è però percepibile il graduale deterioramento nei rapporti tra poeta e amici, e il conseguente sgretolamento di quella poesia idealista che Elbise aveva inventato, compensato da una maturazione artistica invidiabile. La vita movimentata ha influito sullo stile e sull’ispirazione, ed ha contribuito al mutamento dell’ambiente a lui circostante che tanto ha influenzato la sua produzione.

Dopo il primo lavoro, come già detto, Elbise Langirt si dedica alla letteratura dell’adab e allo scambio epistolare con altri letterati, curando lo sviluppo del neonato movimento. Da questo periodo provengono trattati linguistici, di eloquenza, favole per ogni età, bestiari e un trattatello sulla superiorità dei Corvi [NdDM: termine con cui sono conosciuti i neri] sui bianchi.

Successivamente al naufragio, entra nella corte del Principe Yelkovan, dove si cimenta nei panegirici (azione che poi disprezzerà: “Perché unire l’oro della verità con il rame della menzogna?”) e in un poema didascalico. Vale la pena spenderci due parole: “Ragazze di Entipari”, dove Entipari è il nome di una località balneare rinomata, popolata da Emiri, Sceicchi, Geni, maghi e ricchi mercanti, segna la fine del poema didascalico: è dedicato ormai all’argomento più basso possibile (l’amore per nulla idealizzato), il genere è stato portato al minimo possibile delle sue potenzialità. Il buon successo dell’opera ha significato che ormai il poema didascalico, in passato mezzo privilegiato di divulgazione filosofica, ha esaurito la funzione di veicolo delle idee filosofiche per diventare un semplice esercizio di stile e a suo modo commerciale e senza più contenuti. Tale era il significato dell’azione di Elbise: un altro cadavere da aggiungere alle forme letterarie uccise.

E’ l’opera successiva, il poema epico “Il Libro del Re e della Lucertola” (e già qua si osserva il suo eclettismo letterario: oltre alla poesia “totale” della prima opera, ovvero pluristilistica e surreale, trattatistica, favolistica, panegirici e lodi, un poema didascalico e ora si cimenta col genere epico), a consacrarne ulteriormente la fama. Senza dubbio uno dei testi più elaborato ed ermetici di Elbise, il Re e la Lucertola si presta a più livelli di lettura.

Il poema inizia con un prologo sospeso fra sacro e profano, antico e moderno. Dopo esser mitologicamente venuto alla luce, generato dalla Natura, il Principe Yelkovan si trova proiettato sul palcoscenico della vita, rappresentato da un delirante circo in cui l’occulta forza persuasiva dell’insegnamento e l’incessante roteare di uno specchio ipnotizzante nascondono quello che invece è visibile agli occhi vergini del protagonista: il “caos organizzato” di un circo, che rappresenta un mondo alla rovescia in cui gli elefanti, noti per la lunga memoria, hanno dimenticato, i forzuti hanno perso la loro forza e i leoni sono liberi di azzannare. Questa parte satireggia gli svogliati ed ipocriti riti della vita “borghese”, tutte quelle attività inutili e senza senso che, come i piatti roteanti del circo, distraggono, nascondono la fastidiosa sensazione di incompletezza (la marionetta con un sol filo, gli scacchi senza pezzi) ed impediscono alle persone di vivere una vita reale. Nel circo si ritrovano cortigiani, emiri, sceicchi, geni, Nasnas: nessuno sfugge all'incantamento della vita falsa.

Poi, la narrazione. Ad un primo livello tratta del principe che si prepara ad una grande battaglia; la struttura segue la struttura “preparativi-scontro-epilogo” formalizzata durante la Frammentazione. Il Principe Yelkovan, generale e ammiraglio Lunare (oltre che uomo di interessi vari ed eclettici), figlio del Sultano Rumi Yelkovan della dinastia Fe, come i suoi genitori era appassionato di Filosofia Mistica e Ermetica (vedi qui a proposito dei filosofi mistici dell’ermetismo). Loro maggior ambizione, in un percorso di rigenerazione individuale e collettiva, era quella di realizzare una radicale riforma politica e religiosa della società: in sintesi portare un governo unificato politicamente e spiritualmente, dove avrebbero imperato in concerto Fede e Scienza e dove il potere legislativo sarebbe stato affidato a menti sagge, ragionevoli e illuminate (cioè auspicava i Filosofi Mistici al potere). Ma il cambiamento dei poteri sullo scacchiere internazionale (la scomparsa di Vathek) favorì il ritorno sulla scena della Dinastia Osman, da mezzo secolo scacciata dai suoi territori storici, costretta ad arrangiarsi sull’Isola Selvaggia.

Dopo il prologo si mostra il principe abbandonato nei pensieri, desideroso di raggiungere l’illuminazione, il modo per uscire dalla spirale di noia e illusione della vita. Il problema è che dovrebbe prima uscire dall’ottica nailiana, un’esperienza dolorosa, per la quale non si ritiene ancora pronto.

L’arrivo di un messaggero che comunica l’avanzata delle Lucertole introduce alla fase dei preparativi. Questa fase di sconvolgimento viene alla fine accettata dal Principe: l'uomo deve accettare la dissoluzione della vecchia natura e deve essere capace di trovare la verità da solo. Ma, cambio di scena, la mesta voce di un fantaccino introduce la feroce battaglia finale in cui i soldati "Bruciati dai sogni e tesi per la paura" si preparano ad affrontare il pericolo venuto dal continente. Il testo in questo caso è una metafora della battaglia interiore del protagonista, il quale, anche se nell'incertezza e nel timore per un esito non scontato, ormai non può più tornare indietro. Tra l’altro si cita un torrione distrutta da un fulmine: un ulteriore rimando al fatto che Yelkovan per proseguire debba distruggere il proprio ego.

La battaglia descritta è la Battaglia di al-Naseby: l'esercito Osman, nettamente superiore e meglio organizzato, grazie anche a task force di Carnichi, ebbe la meglio sui realisti; ivi morì Yelkovan, e con esso la dinastia Fe. La sconfitta di Yelkovan è allora richiamata nell’ultimo libro del poema (“Il Lamento del Principe Yelkovan”).

Ibn Zakkai, un poeta mistico, aveva concluso il suo armageddon con l'efebica voce di un angelo, e Pis Fahis, un barbiere, si era affidato al desolato urlo di un ascaro morente; Langirt sembra prima far morire il tutto in un sepolcrale silenzio, ma nell’epilogo a sorpresa si leva l’anima di Yelkovan sul mondo e ritorna il tema del circo, che oltre a chiudere il cerchio rappresenta l'acquisizione di una nuova consapevolezza: il Principe ora è finalmente libero dalle frenetiche illusioni del circo che, viste da una nuova prospettiva, con una veloce carrellata dall'alto, perdono il loro aspetto minaccioso mostrando tutta la loro futilità.

La sconfitta fisica di Yelkovan diventa occasione di rinnovamento spirituale. Questa nuova consapevolezza sarà quella condivisa da tutte le genti che sono rimaste sconfitte nella Guerra di Vathek, e darà inizio al declino dell’idealismo. La definizione di “più grande opera di tutti i tempi” firmata Al-Mawlid suona per “Il libro del Re e della Lucertola” come un suggello d’immortalità: è il compendio di un'intera stagione ormai al crepuscolo, ma anche un vademecum imprescindibile per la poesia del futuro.

Particolare in tutto il poema è l’utilizzo degli animali simbolici come la lucertola (anche simbolo araldico degli Osman, ed è possibile intenderla come un drago, animale simbolo degli Dei Falsi), l’orso, il cigno, il pavone. D’altronde Elbise Langirt si era distinto anche per un bestiario di pregevole fattura.

Il percorso di rinnovamento poetico viene perseguito anche nel successiva “Il Libro della Disciplina”, dove, servendosi stavolta della poesia mistica, analizza più nel dettaglio la questione filosofica e stilistica, tratteggiando un mondo che confluisce naturalmente nella disciplina (intesa non come rigore etico-comportamentale, ma come perfezionamento dell’uomo): passando per un inizio di non-disciplina e caos, che portano l’animo umano allo scetticismo e alla passività, e per poi crescere fino all’etereo e sorprendentemente pacato punto d’arrivo. Se “Il Libro del Re e della Lucertola” era l’opera di transizione tra i due mondi, Idealismo e Espressionismo, questa è il primo capolavoro del secondo (i poeti che seguiranno la sua idea saranno chiamati infatti "Seguaci della Disciplina").

Riquadro: La maschera del Califfo Rosso.

La figura di Elbise Langirt è sempre stata accompagnata da una maschera di seta gialla dai richiami rossi. In quasi ogni apparizione pubblica, da quando è arrivato alla Corte di Vathek fino alla pubblicazione del Libro del Re e della Lucertola, ha sempre avuto i lineamenti celati da questo morbido schermo, che veniva retto sul viso da qualche incantesimo di adesione. Anche durante l’esilio la ha portata con sé, ma durante gli anni la tinse completamente di rosso. La prima volta in cui si presentò senza la maschera fu appunto l'arrivo nella Bandiera Osman, dove sorprese la folla venuta a salutarne il ritorno.

Varie sono le speculazioni: chi dice che servisse per nascondere una malattia della pelle alla quale ha trovato il rimedio solo nell’esilio (dove si dice abbia incontrato la Signora delle Acque Danzanti, che gli ha donato una vita più lunga di quanto Nai avesse voluto), chi invece ipotizza che servisse per potenziare gli incantamenti o per vedere tra le illusioni; le malelingue raccontano invece che conferisce a chiunque la indossi il potere ammaliatore di un Peri.

La maschera forse ha solo un significato psicologico: lui la chiama di un “la maschera dell’uomo schizzato”, probabilmente, nata all’inizio come un espediente per vincere l’imbarazzo del pubblico, è diventata per lui la rappresentazione del velo che separava il regnante dalle Toplakar Nai (argomento sul quale ha insistito nel Libro del Re). Non è un caso che la prima volta in cui si è palesato senza maschera è stata la prima recitazione pubblica del Libro del Re e della Lucertola.

 

 

I Rawun: i miti del deserto

All'opposto dei barbieri, di ogni livello, stanno i rawun, cantastorie e memoria sociale delle tribù del deserto. Specchio fedele della vita della Desolazione, parlano di amori, di guerre, di diatribe tra tribù, di caccia, a volte in stile gnomico. La civilizzazione ha scacciato queste figure dalla Grande Penisola e dall'Arcipelago Lunare (qui invero non hanno mai attecchito), ma nella Desolazione sono i  bardi più comuni. Definirli cantastorie è una riduzione: portano con sè i segreti più intimi della terra e delle tribù, combattono in prima fila in battaglia e nella vita sociale, scherniscono e bandiscono nemici e persone ostili, proteggono dai geni. Sono i padroni delle tribù, e spesso finiscono per assomigliare alle figure dei Ranger. Presso gli Akiri invece non v'è grande abbondanza di tali figure: il compito di conoscere i segreti è assegnato a figure più sacrali, e tutto il gruppo sociale padroneggia il territorio. Inoltre l'organizzazione sociale, ferrea per necessità, non permette la formazione di figure così distruttive.

Antar

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Nato da un emiro della famosa tribù degli Abs di nome Shaddàd, e dalla schiava Akiri Zabìba catturata in una razzìa, Antar dovette vincere tutti i pregiudizi dovuti alla nascita disonorevole e alla bassa statura [NdDM: i figli di un umano con un'Akiri sono semplicemente umani dalla bassa statura; quelli originati da un Akiri e da un'umana sono Akiri alti e possenti]. Fin dall'infanzia egli diede prova di grande forza, coraggio e generosità entrando per questo nelle grazie del re Zuhayr prima ancora che in quelle del padre. Dopo aver ripetutamente salvato la tribù dal pericolo, il padre Shaddàd lo riconobbe come figlio e Antar venne sollevato dalla condizione di schiavo a quella di nobile cavaliere. Innamorato della cugina Abla, egli riuscì a sposarla solo dopo aver adempiuto a pericolose missioni impostegli dallo zio, padre di Abla, per acconsentire alle nozze (ma non riuscì mai ad ottenere l'amore della donna). Divenne il protettore della tribù e sottomise i più forti eroi dell'epoca, spesso divenendone poi amico. Vinse pure una tenzone poetica contro i più valenti cantori e il suo poema, la "muallaqa", venne appesa sul tempio di Nai a Rasul. Si sposta successivamente ad Hifra [NdDM: regione adiacente ai Peri] per ottenere mille cammelle di specie pregiata promesse in dono al padre di Abla e divenne buon amico della comunità di Peri. Lo stesso accade con dei geni vicino a Serendib, dopo averli per qualche tempo combattuti. Passò quindi nel beilicato dei Candarlì ad uccidere l'avversario di un suo amico e, divenendo per una serie di fatti tutore del re minorenne, regnò per qualche tempo sul paese. Entrò in contatto, sia d'incontro che di scontro, con gli Estranei. Su invito del Sultano Hajjah si recò a Sabitlik [NdDM: allora capital], ammirato e festeggiato. Ma era una trappola: il Re degli Estranei aveva preteso la consegna di Antar prigioniero in cambio della libertà per il Sultanato. Riuscì a evadere, trovando rifugio in un’isola deserta, dove misteriosamente trovò un modo per rientrare nelle Terre di Nai (le ipotesi leggendarie si sprecano); tornato nel Sultanato guidò la controffensiva nailiana contro gli Estranei, ricacciandoli in parte tra le montagne Jabal. Poi passò tra le pianure della Penisola di Saros per sconfiggere gruppi di oppressori e percorre da vincitore le province dell'Arcipelago Lunare, e di ritorno ibera Rasul da un assedio. Ritornando nelle Terre Desertiche dopo tanto penare, per punire i Nasnas, egli arriva nel regno del Visir che scopre essere il nonno della madre Zabìba. Antar muore infine, ucciso da una freccia avvelenata che gli trafisse la colonna vertebrale, scagliata dal suo nemico Wizr, che egli aveva fatto accecare: questi, dopo essersi allenato a colpire le gazzelle seguendone i rumori, coglie l'eroe, ma muore immediatamente dopo per il timore di averlo mancato. Antar morente, sul suo fido destriero Abjar, riesce ancora ad allontanare i nemici da sé e morì insepolto ma non profanato.

I temi principali che si intrecciano nei suoi versi sono l'amore per Abla, l’erotismo, la vita nel deserto, la descrizione della natura e degli animali; i suoi testi, di natura autobiografica o oratoria, sono impregnati di tono epico. Celebre nelle Toplakar Nai fin dalla sua apparizione, le sue gesta sono ancora declamate nei caffè dell'Egitto e della Siria.

 

Tarafa

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Tarafa “che porta il male sotto il braccio” fu personaggio dotato di sprezzante coraggio e di rude quanto raffinata poesia, caratterizzata da una vivida e inusuale capacità espressiva. E' annoverato anche fra i corvi a causa del colorito scuro della pelle che, nel caso di Tarafa, era dovuta al fatto che sua madre, della tribù Banū Kayn, era di pelle nera. 

Appartenente alla trbù degli Azd, quindi delle tribù che girano intorno al "Dente del Genio", una regione pericolosissima a causa dell'alta concentrazione di geni malevoli, fu dalla sua stessa tribù messo al bando (di solito ciò avveniva per gravi colpe, come un omidicio) e successivamente preso prigioniero dai Banū Shabāba per essere poi riscattato non dalla sua tribù ma da quella dei Banū Salāmān, tribù cugina degli al-Azd.

Tarafa poi condusse un'esistenza solitaria nell'inospitale deserto dell’Hijaz, pur facendo parte dei Salaman. All’interno della tribù che lo aveva riscattato si innamorò della figlia di uno dei sayyd, dei capi, ma il matrimonio gli venne impedito. Tanfara morì di morte violenta, epilogo logico e forse ambìto dal poeta, inadatto a vivere una vita placida nell'impegnativo mondo della Desolazione dei primi anni della Frammentazione: dopo un’esperienza solitaria nel deserto, allontanato dalla tribù di nascita e emarginato da quella di adozione, volle vendicarsi di entrambi riuscendo, manipolando il territorio, del quale aveva una padronanza unica, a innescare una spirale di sospetti e sgarbi reciproci che sfociarono in una guerra distruttiva per entrambi i gruppi. Tra vecchi e nuovi familiari ne rimasero cento, che a loro volta giurarono di ucciderlo: egli ebbe così la possibilità tanto agognata di obnubilare tutti i suoi nemici. Sarebbe però morto dopo averne uccisi solo novantanove, anche se il suo teschio, insepolto e sporgente dal suolo, avrebbe causato la caduta e la morte del centesimo, permettendo così al poeta di compiere, postuma, la propria vendetta.

Circa il suo soprannome esistono diverse spiegazioni. Senza considerare le leggende, una prima spiegazione fa riferimento alla sua spada, apportatrice di morte, che il poeta usava portare nel suo fodero, sotto il suo braccio, ma la spiegazione più conosciuta e fascinosa parla invece di un incontro di Tarafa con una ghūl che viveva nel deserto, pronta ad uccidere i malcapitati viandanti. In un luogo chiamato Rahā Biṭān, nel deserto di Hijaz, Tarafa si imbatté dunque in questo genio antropofago al femminile, e l'avrebbe uccisa malgrado le tentazioni quando essa aveva tentato di sbarrargli la via. Messosi poi il corpo sotto braccio, Tarafa tornò tra la sua gente e per ciò si guadagnoò il suo soprannome.

 

I Su'luk: Al mawlid, cantore delle stelle e della solitudine

I rawun sono un modello ad oggi superato: i bardi si sono sviluppati  nelle società nomadi e rurali, ma poi sono migrati nella città, e i loro ruoli tipici sono mutati. Con la Riunificazione si perse insomma questa figura, ma il recupero e la reinvenzione di questa tradizione ha nome e cognome: Raùn al-Mawlid. Al-Mawlid non è da considerare un Su'luk in senso stretto: visse poco nel deserto e i temi erano radicalmente diversi. Più che altro unì la figura del bardo cittadino/curtense con quello nomade.

Spoiler

"Un’allucinazione, la più sfuggente e controversa dei Disciplinati" disse di lui Elbise Langirt. Chi lo ha conosciuto lo descrive come uno schizofrenico e ossuto signore, gentile e dallo sguardo che ogni tanto si blocca come a fissare chissà quale oscura premonizione nel vuoto. Al-Mawlid è un crocevia di antitesi ben espressa in ogni aspetto della sua arte.

I bardi veri sono capaci in tutto, e lui ne è stata la  dimostrazione perfetta. Nato nel 79 DR (Dalla Rifondazione) nella Bandiera Hajjah da una famiglia di calligrafi e, a tempo perso, attori (da questi al-Mawlid imparò la teatralità dei gesti, che conserverà sempre), al-Mawlid mostrò subito un intelletto vivace, che gli permise di controllare, pure con buoni risultati, musica, poesia e magia elementale ancor prima di compiere vent’anni. La prima sliding door della sua vita si aprì nei mesi finali della Guerra di Successione. Arruolatosi per la gloria della Bandiera, fu inserito nelle operazioni militari che portarono a liberare la Cintura Nord [NdDM la parte settentrionale dei Monti Jabal, che separa la Bandiera Hajjah dalla Bandiera Sheliak] dalle popolazioni stanziali di Carnichi (supportati dalla Bandiera Candarlì). Era arruolato come mago invocatore, quindi aveva il ruolo di artigliere, ma compì il grave errore che accomuna molti giovani maghi troppo ambiziosi o incoscienti: usare troppa magia in una volta sola (vedi qui alla voce “Effetti della magia sul mago”). Durante un’azione la magia prese il sopravvento sulla sua anima così che, dopo aver fatto saltare in aria la postazione presa di mira, vagò idiota per giorni nelle pianure salate della Bandiera. Fu difficile reclutare soldati con sufficiente coraggio per catturare e recuperare quel mago. Alla fine fu ricondotto nella civiltà e riabilitò la propria salute mentale presso una delle speciali case di cura per maghi impazziti (che lui, nelle sue poesie, definirà “Casa senza porte”). L’esperienza portò con sé importanti mutamenti: il rifiuto categorico di utilizzare la magia (un paio di volte sgarrò solo perché un suo sfidante voleva a tutti costi lo scontro magico); la conseguente dedizione alla letteratura, in particolare fu uno dei fondatori del nucleo originario dei “Seguaci della Disciplina” (con Elbise Langirt [vedi sopra] e Pis Fahish, il grande poeta della città). D’ora in avanti sarà sempre guidato da una forte tendenza alle nevrosi e soprattutto dalla consapevolezza dell’interiorità sofferta e malata delle Terre di Nai.

La sedentarietà non si addiceva ad un personaggio come al-Mawlid, sicché ben presto scelse (e in un certo senso reinventò) la via del sa’luk, del poeta che vaga di città in città, di corte in corte per cantare la follia della magia e dell’insanità che essa porta con sé. Diventò sempre più irrisorio verso la società, più in pubblico che in privato, così che i suoi scherni e le sue idee lo resero un personaggio sempre più politicamente scomodo. La società nailiana di allora e di adesso cerca di glissare sugli aspetti negativi del progresso e sulle contraddizioni; al-Mawlid, che sguazzava in entrambe, fu presto preso di mira.

Il successo presto ottenuto gli garantì la sicurezza: d’ora in avanti  Emiri e Sceicchi, estasiati dalle sue liriche, faranno a gara per assicurargli protezione fisica e politica (e dare aiuto ad al-Mawlid divenne sempre più il simbolo di ribellione politica; LUI divenne il simbolo del rivoluzionario). Condannava il nailismo (e questo già da solo basterebbe per essere accompagnato al patibolo), componeva liriche tanto belle quanto raggelanti, criticava aspramente lo sviluppo della società: tutto questo lo portò a scontrarsi con numerosi potenti e ad essere ricercato in varie Bandiere, malgrado le protezioni di una frangia della nobiltà (fu incarcerato due volte per eresia nella Bandiera Nailah, una volta per lesa maestà nella Bandiera Sheliak, gli lanciarono pure una Fatwa ma la spezzò). Nel 108 DR una fuga dalla legge particolarmente rocambolesca lo portò a perdersi nelle foreste di Alssahria: dai Peri passò tre anni, che mitigarono la sua vena iconoclasta (ma si accentuò quella pessimistica, probabilmente dopo aver osservato la maestosità e la lunga vita dei Peri in confronto a quella degli umani; si dice che il cambiamento in lui avvenuto sia dovuto anche a un incontro con il Sogno Tangibile [vedi sotto]). Nel 111 DR tornò nel mondo conosciuto, ma restrinse le peregrinazioni ai territori delle Terre Desertiche, in particolare assurse a capopopolo dei nomadi Laji (“fuggitivi” in Midani), ai quali si dedicò a tempo pieno (questi lo soprannominarono “il Vate”). I Laji erano una popolazione composta da popoli diversi che nel corso della Guerra di Successione sono stati cacciati dai loro territori storici della Bandiera Candarlì (tra i quali i Lisergi di cui ho parlato qui), la regione di Madain, che tuttavia vennero generosamente ospitati dai Sultani Nailah e Fihr. Il sogno di tornare nelle loro amate terre non si era mai assopito, così che Al-Mawlid, da sempre sensibile ai problemi della libertà e dell’identità dei popoli, si mise a capo del movimento dei “rientranti”. Aggiunse così alla lista dei mestieri esercitati quello del diplomatico, riuscendo bene: la Bandiera Candarlì si oppose al progetto di far rientrare le popolazioni, ma al-Mawlid riuscì a far riconoscere gli obiettivi e la legittimità dei Laji tra i diversi sovrani, ottenne il supporto dei Nailah e la non ingerenza da parte del Califfo (allora c’era il predecessore di Kaitos, Ve Kemiren) e delle altre potenze esterne. Il contrasto tuttavia si configurò presto come un conflitto tra le Bandiere “progressiste” (Candarlì, Osman) e “conservatrici” (Nailah, Fihr, Hajjah, che prendevano le parti dei Fuggitivi). Il Vate partecipò lo stesso in qualità di comandante; contro tutti i pronostici i Laji ottennero diversi successi contro le milizie dei Candarlì (grazie anche alla forza dei barbari Lisergi), e il Califfo, consigliato da Kaitos (allora un emiro Sheliak), temendo la sconfitta dei Candarlì e la fine del controllo Sheliak nella Hayal, decise di prender parte alla guerra inviando i Janisser califfali. I giannizzeri non risolsero immediatamente la soluzione, ma giunsero alla vittoria solo dopo mesi di combattimenti serrati e perdite relativamente numerose; la vigliaccheria della mossa e il prolungarsi della guerra portò Ve Kemiren a un tracollo di popolarità. Provò a ritirarsi, a dimettersi: non sufficiente per al-Mawlid, che aveva messo tutto sé stesso nei Faji. Persa la guerra, si unì ad un gruppo di ex-ribelli della Guerra dei Fuggitivi e insieme organizzarono una punizione esemplare per il Califfo emerito; niente parve meglio loro della morte. Il Vate volle sferrare personalmente il colpo fatale. Fu acciuffato e processato dal tribunale Nailah (il tribunale più importante e prestigioso), e venne condannato alla decapitazione. Ma l’epopea di al-Mawlid non finisce qui: al-Akhba, il mago di corte Nailah, e Segin, l’Educatore di corte Nailah, un Peri pure lui bardo, lo fecero evadere dal carcere in cui era rinchiuso in attesa dell’esecuzione (questa è la verità; nessuno o quasi venne a saperla, e quelli che la sanno la tengono ben stretta), con il benestare del neo Califfo Kaitos (da sempre un grande ammiratore del Vate; si racconta che conserva gelosamente nei suoi appartamenti un ghazal [equivalente di un sonetto] inedito scritto da al-Mawlid in persona). Per salvargli la vita lo iscrissero sotto falso nome a una spedizione navale che avrebbe dovuto raggiungere le isole Wak Wak (un arcipelago quasi mitico molto a Nord). Il Fato ormai si doveva esser stancato di questo poeta così irriverente, così che la spedizione fu perseguitata dalla sfortuna. Una tempesta distrusse due navi su tre, ma il vate si salvò; il naviglio superstite approdò quindi ad un’isola, ad Ovest dell’Arcipelago Lunare, apparentemente sicura, in realtà pericolosissima a causa dell’esalazione di alcuni gas tossici. Metà equipaggio (dodici uomini) venne lasciato sull’isola, gli altri ripresero la via del mare. Gli effetti psichici del gas si manifestarono presto, strani eventi iniziarono ad accadere: ogni alba una persona veniva assassinata in modo sempre diverso (chi soffocato, chi gettato in mare, chi strangolato con una corda…). Quando rimasero in due, al-Mawlid iniziò a scrivere una delle sue opere più ispirate, che diventerà uno dei suoi capolavori: il poemetto in due libri La piaga dei navigatori, un resoconto degli ultimi giorni di questa avventura. Quando una mattina il Vate trovò il suo pugnale conficcato nel corpo esanime del capitano, iniziò a essere tormentato da incubi, illusioni, fantasmi, follia (il secondo libro infatti è molto più nervoso del primo). Una settimana dopo la sua nave venne trovata da alcuni pescatori alla deriva nell’Uwshan Wasat, vicino all’Isola Maggiore dell’Arcipelago Lunare. Al-Mawlid venne trovato morto (ma il corpo era intatto) nella cabina mentre stringeva una penna nella mano e alcuni fogli nell’altra. Aveva un’espressione felice. Le ultime parole che ha scritto erano:

“Campi di battaglia e maestà, cos'è la Libertà di Scelta?
Qual è il mio posto nello spettacolo...? Di chi è la mia voce?
Non mi sento troppo male ora: credo che la fine sia l'inizio
Inizio a sentirmi molto contento ora:
Tutte le cose sono una parte
Tutte le cose sono separate”

Era il 119 DR.

 

 

L'idealismo esistenziale del Vate

Autobiografia, pessimismo e volontà didattica si mescolano nei suoi lavori. Gli psicodrammi di Al-Mawlid hanno rappresentato alcuni dei vertici dell'intero movimento letterario dei Disciplinati. Nelle liriche del Vate non ci sono fiabe, Peri e storie d’amore, ma l'angoscia del vivere, espressa attraverso parole liriche ed epiche. Questo grondante pessimismo deriva dall’esperienza della Guerra di Vathek e dalla sua instabilità mentale.

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Al-Mawlid è stato un poeta seminale: con lui nacque la poesia di matrice pessimista (in opposizione all’ottimismo degli Idealisti), quella etnologica e nostalgica, la poesia decadente. Con lui nasce lo spirito di far poesia indipendente, nichilista e eversiva, che sarà sempre più patrimonio dei “poeti nuovi”. Il limite della distruttività di al-Mawlid (e che lo differenzia invece da altri come Pis Fahish, veri e propri poeti della metropoli) è l’attenzione focalizzata unicamente sulla follia e sul disagio spirituale e mentale. Al-Mawlid ha sempre guadagnato bene dalla vendita delle sue opere, così che non si è mai trovato in situazioni disagiate; ha vagabondato molto, ma veniva ospitato di continuo da sceicchi e emiri e non ha mai incontrato il vero degrado delle città e delle campagne: era una sorta di aristocratico nomade. La sua vita lo ha portato quindi a focalizzarsi sulle malattie mentale, che invece conosceva bene, piuttosto che ad abbracciare il disagio tutto, sia fisico che spirituale.

Il diwan di al-Mawlid è vasto, avendo egli iniziato a scrivere in adolescenza e fermandosi solo in concomitanza con la morte. La sua produzione abbraccia esclusivamente il campo della poesia lirica.

Le liriche di al-Mawlid si allontanano stilisticamente dai capisaldi della poesia artistica di allora,  quelle di Jabril, di Langirt: tutti questi allora avevano tutto sommato tematiche ottimiste, atmosfere fantastiche, e le eccezioni si contavano sulle dita di una mano. I testi di al-Mawlid, invece, erano tutto fuorché ottimistici: vi è un' inquietudine di fondo, nei suoi componimenti, un sub-strato di dolore perenne e continuo che sembra affliggere l' uomo in tutto il suo arco di vita; anche nelle rarissime poesie d’amore è chiaramente percepibile, nelle frasi serene o nelle parole melodiose, uno stato di ansia basilare e fondamentale, una paura primordiale per la fine imminente; una serenità "desertica", che sa che presto deve finire. Come se non bastasse, le immagini evocate richiamano temi ultraterreni, occulti, esoterici; i soggetti preferiti erano assassini che la bipolarità rendeva contemporaneamente angeli e criminali, tiranni potenti e crudeli, creature amorfe che strisciavano limacciose nell’oscurità. I testi di al-Mawlid sono tutti incentrata sul dramma della sua persona, che nelle sue liriche diventa il dramma condiviso di tutta l’umanità, al quale solo la morte pone fine: solitudine (in particolare), incomprensione, paura, pazzia... le angosce che regnavano nel suo animo e che potevano riflettersi nella vita di ogni uomo. L’evoluzione stilistica lo porterà ad assumere un’atmosfera sempre più drammatica e angosciosa. Le tematiche principali di al-Mawlid sono tre: il pessimismo che abbraccia tutta l’umanità (che poi andrà identificandosi sempre di più con la solitudine), il criticismo verso la religione di Nai e la libertà dei popoli antichi.

Le sue prime liriche sono spesso qaside dallo sviluppo breve e dall’andamento rapido; i temi sono quelli suoi tipici, ma immersi in un’atmosfera più pastorale e meno violenti degli sviluppi futuri. La critica verso la religione qui è ancora assente. In breve iniziò a farsi un nome negli ambienti letterari e non: nella lirica Lo squalo paragona il mago ad uno squalo degli abissi che uccide tutti i pesci che gli capitano a tiro, ma che alla fine rimane solo, evitato da tutti, compresa sua madre (Lo squalo è stato uno dei suoi successi maggiori, tanto che ancora oggi i maghi vengono sprezzantemente chiamati “Squali”); la qasida Dopo l’inondazione racconta del viaggio del sopravvissuto ad una specie di diluvio universale che ha annichilito tutte le vestigia umane e di altre creature; il ghazal Perso recupera la popolare metafora dell’amore come danza, ma in questo caso sono i ricordi della vita di coppia a stimolare nell’ennesimo tormentato personaggio atroci sofferenze, paragonando la negatività della solitudine del presente al felice passato con l’amata. Perso è la prima opera della fase più matura, dove il tema della libertà e della critica al nailismo cresceranno d’importanza. Era un profondo rivendicatore della libertà, che intende anche come libertà metafisica: la vita di nessun uomo deve essere regolata da un altro uomo, così come non deve essere regolata da un’entità inconoscibile e astratta (forse ignorava il fatto che gli incantesimi dei sufi procedono direttamente da Nai). La rappresentazione più immediata del suo pensiero sulla Chiesa di Nai è l’incipit dell’inno La grande piovra, dove rimaneggia il testo del famosissimo inno La grande gioia: per esempio, l’inno originale inizia con: “Ave a Lui che è l’unico”, mentre al-Mawlid scrive: “Ave a Lui che sono l’unico”.

Dopo il viaggio dai Peri (dal quale ritorna con una personalità cupa, ma meno sferzante) e durante il periodo come capopopolo tra i Faji, al-Mawlid recupera un po’ di stabilità mentale; preso dagli impegni scrive pochi lavori, tra i quali spicca la “mosaddas” (tipo di poesia strofica) Fuggitivi, una ballata curiosamente romantica e equilibrata, permeata di una dolce tristezza, dove descrive la storia dei Faji. Qui si dedica anche al recupero delle poesie popolari e in alcuni componimenti utilizza il dialetto e le lingue autoctone (anche se successivamente Jabril il Grande farà molto meglio). Ma questa breve parentesi, romantica e vagamente felice, termina bruscamente: dal tradimento di Ve Kemiren alla morte, al-Mawlid torna bruscamente per terra, più malato di prima; in questi anni completa il suo percorso filosofico. Una lettera spiega la sua tarda poetica: “Posto di fronte all’infinito nulla, possa esso rappresentare il mare o l’abisso della psiche umana, l’Io inizia a mettere in discussione la consistenza e addirittura l’esistenza di tutti i punti di riferimento tradizionali: il conoscere, il pensare, l’essere. Totalmente smarrito in questo “nulla”, l’uomo inizia a dubitare di aver mai conosciuto altro, pregiudicandosi non solo il futuro ma anche il presente, arrivando a cancellare anche il passato e con questo eliminando definitivamente ogni traccia della propria esistenza.

 

I corrieri cosmici: i poeti pazzi

Il rinnovamento dei rawun passa per la fusione con i barbieri, con i bardi di città, generando i Su'luk, ma ha generato anche una particolarissima corte delle meraviglie. Un gruppo che rifugge tutte le catalogazioni, e che forse non è nemmeno da considerarsi totalmente letterario, è il gruppo dei cosiddetti “poeti pazzi”. Sono poeti particolari: misconosciuti, vivono poco (solitamente non raggiungono i trent’anni di vita) e spesso trovano la morte in circostanze particolari o inquietanti, il loro diwan (ovvero opera omnia) è costituito da pochi versi, tutti criptici e malevoli. Sono solitamente su’luk, ovvero poeti girovaghi che inneggiano contro la civiltà sempre più cittadina, ma nei loro viaggi spesso visitano Malaun a lungo (e a quanto pare, intrattengono buoni rapporti con i Kheri). Non si sa se si conoscano l’un l’altro, ma tutti adottano pseudonimi altrettanto sinistri, come “il Nuovo”, “il Cane”, “il Nefasto”, “il Sogno Tangibile”, “il Tempio”. Per fare un paragone con gli altri poeti, gli shi’r vogliono condurti, lettore, in paesaggi mentali spettacolari, mentre i pazzi ti prendono per mano e ti portano in un paesaggio desolato e desertico per farti osservare le stelle. Qualcuno li chiama corrieri cosmici proprio per questo. Alcuni, come il Sogno Tangibile o il Cane, parlano molto del cielo e del cosmo, mentre altri sono più demoniaci, il Nefasto su tutti.

Le loro liriche parlano di mostri, di grandi Div che osservano il mondo (più raramente di Feveres) oppure veri e proprio viaggi cosmici allucinati e allucinanti provocati da non si capisce bene che esperienze. Da un punto di vista formale l’aspetto è così vario che non si può neanche dire che non ci sia una forma ben definita. Il genere preferito da questi autori qua è il poemetto, o carme nel caso di quelli più brevi, che si presenta come un collage di diverse situazioni, solitamente slegate tra di loro e accostate seguendo una logica assurda. Il linguaggio solitamente è oscuro, e spesso presenta lunghe serie di termini onomatopeici, senza senso oppure di lingue sconosciute. La poesia cosmica è un genere largamente sconosciuto: esistono solo pochissime decine di persone in tutte le Terre di Nai esperte di poesia cosmica all’esterno del movimento, e tra queste due terzi sono Filosofi Mistici.

 

Il Nefasto

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E’ stato l’uomo più importante per le Toplakar Nai dopo Nailah, ma poco importa, nessuno sa quello che è realmente successo. Si ignora dove è nato, dove ha vissuto, chi ha conosciuto, cosa ha fatto; si conoscono solo gli ultimi giorni di vita. Nella città di Tabriz infatti venne aggredito dai due cani di un mercante di passaggio. Ne scaturì una lite che fu sedata solo dall’intervento degli ascari, sicché i due vennero portati davanti al qadì per essere giudicati. Al poeta toccò la prigione, tuttavia nottetempo evase e entrò nella dimora del mercante con l'intenzione di vendicarsi; ma si sbagliò e fu sbranato dai suoi cani, che lo attaccarono con un’aggressività inaudita, tanto che il mercante a fatica li allontanò dal cadavere che continuavano a straziare malgrado fosse diventato ormai una massa sanguinolenta informe. L’uomo comunque gettò il resto del Nefasto nella strada con le sue poche cose. I dieci fogli con i suoi componimenti invece li affidò ad un suo amico, che li portò nella biblioteca di Iskandria. Un passante caritatevole, sempre durante la notte, lo seppellì fuori città con le sue cose, segnalando la tomba con una grossa pietra; quando il sole sorse si scoprì che qualcuno, non visto, dopo la buona azione del passante, aveva inciso sulla pietra alcuni dei versi che portava con sé, ovvero: “Il Fato disse: “Sii libero!” / E tu gli hai / Ubbidito” e “Immaginiamo noi di esistere / o di non esistere?”, e "Dobbiamo decidere cosa è più importante: / Una guerra che non possiamo vedere / o una strada dove neri muoiono i bambini? / Un sistema e una teoria / o il nostro desiderio di essere liberi?") 

I suoi pochissimi componimenti sono criptici, ma non insondabili: il tema ricorrente è quello degli uomini che, dinanzi allo spettacolo immane dell'universo, si domandano dubbiosi e spauriti se esistono o no; questa è la visione più commovente tramandata da tutti i poeti pazzi.

 

Il Cane

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Nel panorama dei “pazzi”, popolato di cosmici e apocalittici, il Cane figura un po' come l’asceta. E’ il poeta cosmico del quale si conoscono più cose, e tutto unicamente per una casualità. Un pomeriggio infatti, Elbise Langirt, mentre era intento a sorseggiare un caffé in un locale all’aperto in piena crisi artistica, notò per strada una persona dai tratti sud-orientali [NdDM cioè delle persone dei Monti Jabal] che salmodiava strane nenie rivolte al cielo, che parlavano di una “Madre Cielo”, incurante delle persone e dell’ambiente circostante. Incuriosito da questo personaggio bizzarro, Elbise volle conoscerlo, perché sentì che gli risvegliava la vena artistica sopita. Poche volte aveva visto un tipo così, sinistro e innocente, viscerale e istintivo. Elbise continuò a incontrarlo fino a diventare una specie di amico, e l’apporto del Cane risultò fondamentale nel ciclo di componimenti del Mago Bir (del quale non vi ho parlato perché minore). Tuttavia la sua natura aberrante presto rese impossibile mantenere il buon rapporto instauratosi, sicché dopo una serie di litigate, i due si lasciarono male. Ad Elbise importava relativamente: con le sue movenze spastiche e urla beduine aveva ormai riacceso la scintilla creativa. Abbandonato il suo pigmalione, il Cane incontrò serie difficoltà economiche, e come tutti i cani che si rispettano, provò a tornare dal suo padrone; probabilmente non riuscì a incontrare più il Califfo Rosso. Dopo varie peripezie divenni il capitano di una nave, forse di corsari, ma dopo una decina d’anni decise di accasarsi; tuttora è un vecchio maligno che vive davanti al mare, nella costa settentrionale della Bandiera Fihr, isolato dall’aura di paura che emana. Si racconta che abbia gli occhi gialli e che intrattenga fitti scambi epistolari (anche con Elbise Langirt) e che conservi nella sua abitazione diverse bottiglie con dentro pendoli di piombo ai quali piace parlare.

Nella poetica del Cane, tutto è per definizione casuale, e legarsi all’ubriachezza del momento passionale: i suoi (pochi) pezzi non hanno inizio né termine, è lo “sgorgare continuo di un punto verso l’infinito”. I suoi brani sono sommessi, frammentati, ritualistici, e presenta atmosfere visionarie e occulte; assurge a maestro indiscusso della destrutturazione (quella che Langirt inseguì in tutta la sua carriera) e il trattamento iper-cinetico della lingua non mancò di influenzare alcuni shi’r. Pur non arrivando ai livelli del Sogno Tangibile [vedi sotto], la lingua impiegata è tesa verso la massima espressione del divenire: non esistono sostantivi, esistono invece verbi impersonali, qualificati da suffissi (o prefissi) monosillabici con valore avverbiale. Per esempio, non c'è una parola che corrisponda alla nostra parola luna, ma c'è un verbo che sarebbe luneggiare o allunare. “Sorse la luna sul fiume” la rende con: “verso su dietro semprefluire luneggiò”, o “hop, dietro perscorrere lunò”.

 

Il Sogno Tangibile

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Il Sogno Tangibile è stato un rampollo della nobiltà Fihr e fu compagno di giochi (e di bravate) del principe Theemim. Quando il futuro Sultano fu condannato all’esilio, assegnatogli per l’uccisione di un Akiri, il Sogno Tangibile lo volle accompagnare nel viaggio. Theemim venne mandato in un monastero quasi isolato dal resto del mondo. Quello che non avevano saputo i reali genitori era che nei dintorni agiva una sadica setta adoratrice del Dio del Fuoco [NdDM: il culto del fuoco era una delle credenze religiose più forti tra quelle antecedenti il nailismo, e in alcuni posti del Sud-Est è ancora diffuso, sia sotto forma di sincretismo che in forma integra]; non appena il Sogno la scoprì si unì ad essa con entusiasmo, e provò a convincere il principe di fare lo stesso. Stufo dei suoi reiterati rifiuti, e irritato dalla minaccia di contattare i Vigilanti (la milizia para-militare che agisce, nel territorio Fihr, a difesa dell’ortodossia nailiana e a protezione dei credenti dalle varie sette pseudo pagane, diretto dall’energica Morgiana, consorte del Sultano Fihr e madre di Theemim), il Sogno Tangibile rapì il principe per usarlo come vittima sacrificale per una delle cerimonie. Il rito fu celebrato, ma quando il giovane principe stava per essere arso vivo, i Vigilanti fecero irruzione e Theemim venne tratto in salto. Nella lotta il Sogno Tangibile sembrò essere stato ucciso; in realtà aveva solo simulato la morte, mentre fece perdere le tracce nelle foreste di Alssahria. Qui visse per un decennio tra Peri e Si’lat, dopodiché le sue peregrinazioni si spinsero più a Nord, nella Bandiera Candarlì, dove ebbe modo di riallacciare contatti con gli umani.

Ai testimoni si presentava come un alto signore che tradiva i suoi nobili natali nella cura della persona e nella scelta dei vestiti. Sulla faccia presentava un tatuaggio blu un po’ scolorito sulla parte sinistra, ma soprattutto aveva sempre le occhiaie, come se cercasse di continuo di sfuggire al sonno. Da sveglio assumeva sostanze per prolungare oltre tempo la veglia. Tutti i testimoni concordano che ciò che lo spaventava di più era l’incapacità di vedere; disgraziatamente per lui la sua vista peggiorava di continuo (da una prima forma di noctalupia, ovvero di cecità notturno, passò a una perdita della vista sempre maggiore), e quando sentiva il crollo imminente beveva una pozione che garantiva un sonno senza sogni. Un osservatore avrebbe potuto dire che qualcosa gli stesse consumando l’anima.

Una notte, un pescatore raccontò di essere stato tenuto sveglio fino all’alba dalle escandescenze del vicino, che pareva ubriaco e alternava bestemmie inestricabili con frammenti di canzoni lamentose: o meglio, con frammenti d'una sola canzone lamentosa. Aveva attribuito quell'insistente baccano all'amicizia di un passante per il proprio vino... Ma all'alba, trovò l'uomo morto nella sua casa. Nel delirio, gli erano cadute dalla cintura alcune monete e un cono di metallo lucente, del diametro di un dado. Un bambino, che volle raccogliere questo cono, non ci riuscì. Un uomo lo sollevò, ma con gran fatica. Un contadino propose di gettarlo nel fiume tumultuoso, ma alla fine fu venduto a uno straniero per pochi dinar. Nessuno sapeva nulla del morto, tranne che “veniva dalla frontiera”. Questi coni piccoli e pesantissimi (fatti d'un metallo che non è di questo mondo) erano l’immagine della divinità presso certi Si’Lat. In una mano ghermiva una fiaschetta (tanto che anche da morto fu necessario l’uso della forza per strappargliela dalle dita): era ancora tappata. Il Sogno aveva ceduto prima di riuscire ad aprirla.

Il Sogno Tangibile è stato uno dei più importanti poeti pazzi. Tutta la sua produzione è un’esasperazione dell’idealismo, shi’r e filosofico. Per il Sogno Tangibile l’universo visibile è illusione, sofisma; tanto per capire il tipo, sosteneva che specchi e paternità sono abominevoli perché moltiplicavano l’uomo. Il mondo per il Sogno è una serie eterogenea di atti indipendenti e consequenziali, ovvero: lo sviluppo della realtà non avviene nello spazio, a cui attribuiva scarsa importanza, ma nel tempo, che è l’unica vera dimensione della realtà (alcuni studiosi vedono in questa somiglianza tra il Sogno e Al-Mawlid la prova che il Vate conosceva la poesia cosmica). In altre parole l’universo del Sogno è una serie eterogenea di atti indipendenti; è successivo, temporale, non spaziale. La ricerca linguistica operata per seguire le idee filosofiche nella poetica rasenta il folle: dal momento che niente realmente esiste, e dal momento che tutto quanto non è altro che una percezione delle illusioni, il Sogno elaborò una variante del Midani priva di sostantivi. La cellula primordiale non è il verbo o il nome, ma l'aggettivo monosillabico. Il sostantivo si forma per accumulazione di aggettivi; per esempio non si dice mare, ma agitato-blu-cedevole (posizionato) accanto a calpestabile-duro-abitato, o azzurro-tenue del basso-terreno, o qualsiasi altro aggregato. Questo sistema è faticosissimo per descrivere gli oggetti reali, ma per certi intenti poetici è fulminante nella sua immediatezza impressionista-surreale. Nella sua letteratura abbondano gli oggetti ideali, convocati e disciolti in un istante secondo le necessità poetiche. Determina questi oggetti, a volte, la mera simultaneità; alcuni si compongono di due termini, uno di carattere visivo e uno di carattere uditivo: il colore del giorno nascente e il grido remoto d'un uccello; altri di più termini: il sole e l'acqua contro il petto del nuotatore, il vago rosa tremulo che si vede con gli occhi chiusi, la sensazione di chi si lascia portare da un fiume e, nello stesso tempo, dal sogno. I sostantivi così formati possono combinarsi con altri; il processo, grazie a certe abbreviazioni è praticamente infinito. Uno dei suoi componimenti più famoso (ovvero conosciuto da una dozzina di studiosi che non siano suoi simili o esseri mostruosi) è composto da una sola, lunghissima, parola, che corrisponde a un solo oggetto, l’oggetto della poesia del Sogno Tangibile. Eliminando i sostantivi come categoria a sé stante paradossalmente ha reso il loro numero interminabile. Questa sua lingua è sostanzialmente inutilizzabile per parlare: oltraggia in ogni modo possibile la convenzionalità e l’immediatezza delle lingue parlata. La sua poesia si compone più di affreschi mentali che di poemi.

 

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