Per fare un albero... #2
L'apparenza esteriore, è come il bussare del nostro essere alle porte della altrui percezione: il più vigoroso degli ospiti sarà inizialmente ben poco considerato se si presenterà bussando con poca convinzione, se colpirà l'uscio con debolezza; se invece, prima di infilarsi nella casa cui vuole accedere, l'ospite darà una bella tuonata decisa, allora da dentro lo considereranno da subito con un certo occhio di riguardo.
Questo, naturalmente, evitando per semplicità di considerare i citofoni.
Non bisognerebbe giudicare un libro dalla copertina, ma spesso è ciò che la gente fa, soprattutto di primo acchito. L'impressione iniziale, istintiva, sebbene non immortale è sicuramente ben radicata e difficile da estirpare, e contamina di dubbio ulteriori possibili valutazioni di un individuo. E' importante, dunque, essendo la vista il senso primario dell'essere umano, apparire in un certo modo agli occhi di chi ci vede per la prima volta.
Esiste tuttavia una categoria di persone, io credo, in cui la valenza visiva di questo imprinting è mitigata: alludo a quelle persone ancora prive o quasi di categorie mentali in cui incasellare una persona in base alla sua apparenza, ossia i bambini: quante volte sentiamo dire che i bambini riconoscono al volo le persone buone da quelle cattive? Spesso, mi pare.
Allo stesso modo, un cane solitamente scodinzola ai nostri amici e abbaia agli estranei e ai malintenzionati/disturbatori, pur incontrandoli per la prima volta. Perché?
Perché un cane non ha categorie, ecco perché, dunque deve fare attenzione doppia nel giudizio. Un cane non si basa esclusivamente su un senso primario (nel suo caso l'olfatto) per giudicare un individuo al momento dell'impatto con la sua esistenza, quindi spalanca la percezione in libertà. Chiaro, questa percezione è limitata in altri modi, ma in generale un cane sente in modo più libero. Così i bambini: non voglio dire che i bambini siano simili a bestie, ma sicuramente sono più istintivi, più liberi, più percettivi. I bambini sentono.
Da quello che sentono, deriveranno le proprie categorie, invecchiando come noi e finendo per diventare colmi di pregiudizio. Capita.
Come integrare questo discorso nella digressione sull'educazione che (penso si sia capito) è filo conduttore di questa serie di post?
Estendiamo il concetto di bambini, e ibridando nuovamente concetti occidentali a terminologia orientale (per comodità: in una cultura di poche parole come quella nipponica è importante caricare ogni singola sfumatura del discorso di significati enormi) parliamo ora di kohai.
Il rapporto tra kohai e senpai meriterebbe lunghe divagazioni, e forse un giorno arriveranno, ma per ora mi limito a riportare una brutale traduzione dei due termini, premettendo che dato il sovraccarico informativo della lingua nipponica di cui sopra le traduzioni saranno sempre insoddisfacenti: kohai, da una sbrigativa analisi dei kanji componenti il termine, significa "compagno (hai) che segue (ko)", nel senso di "persona che segue il nostro stesso percorso (lavorativo, di studi, marziale...) da meno tempo"; senpai, significa "compagno (hai, qui letto pai per motivi linguistici) che precede (sen, stesso kanji della parola sensei)", sempre in riferimento a un percorso di crescita.
Ecco riportati, tanto per curiosità, i due termini scritti in kanji:
Kohai:
Senpai:
Dicevamo, il discorso introduttivo può essere applicato alla generica categoria dei kohai: un kohai, specie agli esordi, non ha l'esperienza necessaria per giudicare con cognizione di causa un altro individuo (chiaramente nell'ambito del percorso intrapreso), dunque troverà nell'impressione iniziale, quella esteriore, la base per il posizionamento dell'altro lungo propria scala di valori. Ecco che considererà una persona dall'apparenza forte come un pilastro, e al contempo come un punto cui tendere: tutti vogliamo essere migliori, no? Come essere migliori, se non imitando i migliori? Ancora emerge il parallelismo tra inesperto e bambino: non è forse per imitazione che il bambino impara a parlare, a camminare, a vivere?
Non sembri dunque frivolo dire che l'apparire (un apparire regolato da un certo stile, non certo l'apparire frivolo del vecchio west) occorre e anzi è fondamentale nell'educazione del kohai.
Chiaramente, se la buccia è lucida ma la polpa è marcia, la mela deve essere gettata nel cestino, dunque è chiaro che la sostanza conta molto più che l'apparenza: la polpa (sostanza) nutre, la buccia (apparenza) attira.
Il kohai, però, non ancora pronto a "sbucciare" il senpai, non conoscerà la polpa, giudicherà dalla buccia, e solo poi potrà trarre beneficio dalla mela intera. Vorrà essere una mela proprio come quella, e se il senpai sarà un buon senpai, allora il kohai imparerà a migliorare la propria polpa, e anzi si curerà a un certo punto soltanto della propria polpa. La buccia verrà poi: il kohai crescerà bene.
Ecco perché i bambini del dojo devono vedermi grande e forte come Raoul, ecco perché è giusto che quando mi vedono con una spada pensino che sono una specie di super-eroe: l'immagine che lascio loro li accompagnerà, nascosta in qualche taschino della loro personalità, per tutta la vita.
Forse, quando dovranno scegliere a chi chiedere un consiglio o una mano, quando imiteranno qualcuno, non sceglieranno uno spacciatore per strada.
Qualcuno avrà notato, però, come abbia lasciato in sospeso il discorso della percezione più ampia dei bambini.
Cosa percepiranno in più, rispetto agli adulti, che allo stesso modo mi vedranno grande e armato di spada?
Con cosa percepiranno questa dimensione ignota agli adulti?
Come elaboreranno queste informazioni occulte?
Cosa li aiuterà a distinguere me (che ho lo scopo, pur senza nemmeno parlare loro, di contribuire a educarli) da un passante identico a me?
Pensateci.
La vita è un cerchio di cui non conosciamo il raggio, quindi pur percependone l'avanzare (e conoscendo il valore di pi greco) si chiude quando meno ce l'aspettiamo, ed è sempre notevole osservare come le percezioni dei principianti assoluti non siano troppo diverse da quelle dei Maestri.
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