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Celina Darkmoor


Samirah

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E' luogo comune che nei piccoli borghi la vita scorra semplice e senza intoppi, ma la saggezza popolare non tiene conto di quegli eventi che vengono definiti eufemisticamente “scherzi di natura”, ma che risultano in vere e proprie tragedie per chi ne è soggetto.

Fu proprio uno di queste disgraziate evenienze a far sì che Celina venne alla luce come un'emarginata e come la manifestazione di una maledizione divina. Appena venuta al mondo fu infatti chiaro a tutti che quella pelle talmente chiara da lasciar trasparire i percorsi bluastri delle vene e quei capelli canuti come quelli di un vecchio non potessero essere altro che la manifestazione di una volontà a cui quella disgraziata creatura doveva risultare invisa. Ma ciò che più la rendeva spaventosa e oggetto di maldicenze erano gli occhi, che alla luce sfavillavano di inquietanti riflessi rossastri.

L'isolamento dal mondo esterno che la rifiutava e l'affetto incondizionato della famiglia la resero una persona solitaria, silenziosa e pacata. Troppo piccola per capire e troppo protetta dalla diffidenza altrui, Celina crebbe arricchendo quell'angolo di mondo che le era conosciuto, costituito da se stessa e dalla sua casa. Le intere giornate passate nella piccola camera al piano superiore si riempivano di sogni visionari su un'ipotetica realtà sconosciuta e irraggiungibile, mentre le notti erano spesso lo scenario di lunghe ore di sguardi fissi alle stelle, in uno studio inconscio e continuo dei loro lenti movimenti.

Dodici anni passarono come sospesi nel tempo, così lentamente da parere secoli, ogni giornata identica alla precedente, come un guscio protettivo contro il trascorrere degli eventi e contro il cambiamento. Ma nulla può rimanere immutato in eterno e il piccolo villaggio conobbe uno dei mutamenti più infidi e temibili. Alcuni uomini dai tratti stranieri e provenienti da una regione ignota giunsero un giorno a turbare la fin troppo monotona vita del centro, portando con sé un'aura di mistero che eccitò oltremisura gli animi di contadini e artigiani abituati tuttalpiù a una piccola sagra di paese. L'interesse e la curiosità furono tali però da ridestare anche le superstizioni più profonde e dimenticate, che sfociarono in dualismo di attrazione e odio verso gli stranieri, ma anche nei confronti di colori che si portavano addosso il marchio di supposte maledizioni. Tra questi, l'attenzione tornò, dopo tanti anni, anche su Celina, il cui celarsi all'interno delle mura domestiche era sempre stato interpretato come un'ammissione di colpa. Ma la punizione dell'isolamento forzato improvvisamente non parve più sufficiente, la sola presenza della bambina maledetta turbava gli animi e venne a crearsi una volontà sempre più solida e diffusa. Nel giro di poche settimane il verdetto fu stabilito ed emanato senza possibilità di ricorso: esilio.

I genitori piansero invano supplicando i paesani di lasciare che la bambina potesse crescere tranquilla in casa sua, da cui non avrebbe recato alcun danno a nessuno, ma ormai il volere popolare era irremovibile e, se avessero insistito nel negar loro la vittima sacrificale, avrebbero probabilmente condiviso una stessa infima sorte.

Celina fu condotta fuori dalla sua piccola casa, tutto il suo mondo, coperta fino ai capelli per impedire al sole di intaccare la sua pelle delicata, e un paio di uomini la caricarono su un carretto preparato in fretta e furia. La piccola non capiva le lacrime dei genitori né le facce stravolte dalla rabbia di quelle persone che non aveva mai visto in vita sua. Provò a pronunciare qualche parola di richiesta ma le fu intimato ben poco gentilmente di non osare a “pronunciare parole blasfeme”. Sentì le lacrime bruciarle gli occhi, ma ebbe paura anche che anche piangere fosse considerato qualcosa di sbagliato e le ricacciò indietro ingoiando saliva e paura.

Soltanto quando il carretto trainato da due vecchi ronzini si fu allontanato dal villaggio e le voci infuriate non si sentivano più, Celina si lasciò andare al pianto, singhiozzando tanto da sovrastare il rumore delle ruote sul terreno sconnesso. L'uomo che guidava il carretto e il suo compagno non mostrarono segno di interesse per lei, ma le parve di sentirli mugugnare qualcosa riguardo a un “affare da sistemare il prima possibile” e svariate maledizioni nei confronti di chi aveva lasciato a loro “quel compito del cavolo”.

Il viaggio parve durare più di quei dodici anni trascorsi chiusi fra quattro mura, ma quando ebbe termine Celina si ritrovò a desiderare che potesse proseguire all'infinito. Si erano fermati lungo un percorso secondario e sicuramente utilizzato di rado, individuabile a malapena tra l'erba bruciata dal sole estivo. Le rocce di tufo sparse sul terreno arido rendevano il paesaggio ancor più desolato, ma l'elemento più inquietante era senz'altro lo spettro di quella che un tempo doveva essere una piccola dimora signorile, di cui rimaneva in piedi solamente una specie di torretta bassa e tozza.

Gli uomini fecero scendere Celina dal carro con gesti bruschi, ma incitandola solo a parole, quasi temessero il contatto fisico con quell'essere demoniaco. Le indicarono la torre pericolante e le dissero che qualcuno le avrebbe portato del cibo, ma che non doveva assolutamente uscire da quel luogo.

La possibilità di rinchiudersi di nuovo in un ambiente chiuso e protetto la spinsero a correre verso la porta di legno ormai marcia e scardinata. Gli uomini la videro sparire dentro quelle mura rose dalle intemperie e trassero un sospiro di sollievo. Tornarono indietro con l'animo più leggero e la sincera convinzione che nel giro di qualche giorno il problema sarebbe stato definitivamente risolto.

Celina si ritrovò al buio, ai piedi di una scalinata che saliva circolare verso l'alto. Si mosse a tentoni, con passi lenti e accorti, nell'attesa che gli occhi si abituassero a quella nuova condizione di oscurità. Mentre saliva col fiato corto per la paura cominciò a distinguere i singoli scalini dagli angoli smussi e le pietre segnate. Quando giunse agli ultimi, si ritrovò a osservare una stanza blandamente illuminata da alcuni raggi che riuscivano a filtrare dalle rocce sconnesse delle pareti. Non era rimasto poi molto da guardare, se non i rimasugli di un giaciglio rinsecchito, un comodino dal piano di marmo spaccato in più parti, un piccolo tavolo ovale e un paio di sedie. Era presente anche una finestra, oscurata da una tenda scura e coperta dalla stessa polvere diffusa in ogni angolo della stanza.

Si raggomitolò in un angolo, mentre si faceva strada nella coscienza la consapevolezza di essere sola e senza più alcuna protezione. Quando la paura si attenuò per lasciar spazio allo sconforto, un lieve brontolio allo stomaco, le ricordò che era anche senza cibo e senza alcun mezzo per procurarsene.

Rimase in quella posizione fino a sera, quando vide sparire anche gli ultimi bagliori rossastri del tramonto attraverso le fessure nella parete. Solo allora osò alzarsi in piedi, traballante di stanchezza e di fame, per muovere qualche passo nella stanza sporca e dimenticata. Istintivamente si mosse verso la finestra e con molta esitazione afferrò la vecchia tenda. La polvere si sollevò prepotente, soffocandola e costringendola a tossire. Celina arretrò per riprendere fiato, poi, trattenendo il respiro, si decise a spostare il pesante pezzo di stoffa. I sostegni erano così vecchi che crollarono alla minima trazione, cadendo a terra in un frastuono sordo, attutito dal tessuto. La nuvola di polvere invase tutta la stanza e Celina fu costretta a correre verso le scale per evitare di venirne ricoperta. Quando dei lievi bagliori cominciarono a intravedersi nel varco lasciato aperto, si riavvicinò alla finestra. Le stelle brillavano candide e indifferenti al dolore degli uomini, seguendo quei percorsi eterni che rendevano ogni altra cosa labile e incerta.

Le lacrime tornarono a solcarle le guance e questa volta la paura si presentò in tutta la sua prepotenza. La tragicità della situazione si presentò in tutta la sua evidenza e non vi fu più alcun legaccio alle emozioni. Pianse fino a farsi male agli occhi, finché ogni singhiozzo non divenne una staffilata per la gola arsa dalla sete e dal pianto. Allora si alzò in piedi e per la prima volta in vita sua urlò, un grido afono e sofferente che si disperse nella fredda luce stellare. Si ritrovò a odiare tutto ciò che conosceva: i suoi genitori che invece di insegnarle a sopravvivere l'avevano tenuta segregata in un rifugio falso e vulnerabile; gli uomini che avevano sempre vissuto attorno a lei, ignoti e colmi di livore; il tempo che l'aveva fatta crescere portandola soltanto alla consapevolezza della sua infelicità; le stelle, che le avevano promesso un mondo dove i sogni potevano volare alti e invece ora distoglievano lo sguardo, ignorando il suo dolore o forse facendosene addirittura beffa.

Rimase con la bocca spalancata, mutando l'urlo in un'espressione muta e sconvolta, quando le stelle le risposero.

Non c'era alcuna traccia della Celina piccola e bianca come un fantasma nella ragazza piena di sé, dai capelli neri arruffati e dagli occhi di un azzurro gelido, che camminava spedita per la strada di campagna che l'avrebbe portata un passo più vicino al compimento dell'ennesima impresa coatta.

Anche se la notte era già calata da un paio d'ore, aveva deciso di proseguire finché Ax-Hatul avrebbe continuato a inviarle indicazioni. Sapeva che se si fosse fermata, avrebbe solamente prolungato la sua sofferenza. Le emicranie con cui Ax-Hatul le ricordava di tanto in tanto che doveva accelerare il passo erano il segnale più chiaro della sua impazienza.

Per un istante sollevò lo sguardo, puntando quella costellazione piccola e indistinta che sembrava nascondere l'origine del suo potere e della sua dannazione. Non aveva mai compreso se Ax-Hatul risiedesse in un luogo definito nel nero spazio o se semplicemente fosse lei a percepirlo in quel modo, piuttosto che essere costretta a comprendere il concetto di una volontà espansa e inafferrabile.

Si ritrovò a sorridere, pensando alla prima richiesta che aveva fatto a quell'entità aliena. Invitata a scegliere, non aveva saputo trovare di meglio che desiderare di essere come i grandi maghi, traboccanti di potere e ribollenti di energia. Ma le era divenuto ben presto evidente come il suo potere era di una natura talmente differente da richiedere di essere espresso in tutt'altro modo.

Così aveva focalizzato tutta la sua insofferenza in un'ombra oscura che faceva calare su chi osava contrastarla o poteva rappresentare un pericolo. Ax-Hatul l'aveva infusa di quella fredda energia che filtrava in ogni angolo dell'oscuro spazio esterno, dandole la possibilità di attingere alla sua volontà e di tramutarla in volute di forza cosmica o in sbuffi scintillanti di puro gelo. Ma soprattutto, aveva potuto lasciarsi alle spalle l'orribile aspetto con cui era venuta alla luce, per rivestirsi del fascino selvaggio e inafferrabile del cielo notturno.

3 Commenti


Commento consigliato

Hiade Airik

Inviato

Una delle più grandi imprese di Samirah è quella di essere riuscita a dimostrare che l'accezione prettamente wargame con cui sono state caratterizzate le classi della 4th edition, può essere totalmente ignorata in favore di una ben più profonda visione di sè.

Tre sessioni al fianco di Celina, grazie all'interpretazione di Sami, mi hanno permesso di innamorarmi del Warlock, classe decisamente più riuscita del vecchio stregone. Almeno interpretativamente parlando! ;-)

Samirah

Inviato

Beh, il merito è soprattutto del megro per l'idea, io ci ho solo ricamato sopra. ;-)

padishar

Inviato

altro bel colpo messo a segno, Iron lady :-D!

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