Renis Inviata 7 Settembre 2005 Segnala Inviata 7 Settembre 2005 La lama silenziosa taglia meglio! di Jason R. Forbus “Muovi il culo, sorellina!” “Un’altra pinta di birra a questo tavolo, occhi belli!” Chi ha mai detto che sarebbe stato facile? Vivere, intendo. Quando sei la sguattera di una bettola puzzolente, la vita non è tutta rosa e fiori. Perché scrivere delle mie memorie? Per rammentare a me stessa che ho il cuore dannato? Forse per ritrovarmi in queste pagine, fra qualche anno, e scoprire che i petali della mia vita sono appassiti come la rosa che stringo in pugno. Non fa differenza. Il babbo era morto l’anno prima. Ricordo che una sera tornò dai campi con un febbrone da cavallo e il dottore ci disse che non sarebbe sopravvissuto alla notte. Aveva ragione. La gente se ne infischiò. La vita era già abbastanza dura a causa della carestia e delle tasse del connestabile, perché preoccuparsi della vedova O’Leary e figlia? Gli usurai si portarono via tutto. Anche quei quattro stracci che avevamo addosso. Mi piace pensare che mamma morì di dolore per la scomparsa del babbo, ma la realtà è che quell’inverno fu particolarmente rigido e le pietre del vecchio mulino erano fredde e piene di spifferi come una tomba. Al villaggio i superstiziosi e i maligni cominciarono a mormorare: “È la figlia” dicevano “la giovane O’Leary è una strega. È stata lei a far ammalare i genitori! Avete visto i capelli? Sono rossi come le fiamme dell’inferno. Presto quella strega verrà a prendersi i nostri bambini!” Altre porte si chiusero. Altre teste si voltarono al mio passaggio. Sola e miserabile, lasciai il villaggio a bordo di una carovana diretta a Baldur’s Gate. Lì restai nascosta per due giorni, succhiando il sangue appiccicoso dai ventri squartati dei maiali. Il pasto migliore che avevo da mesi. Non ero mai stata in una città prima di allora. All’età di quindici anni il mondo è un luogo pieno di meraviglie e, malgrado tutti i miei guai, mi sentivo piena di vita. Mi sarei trovata un lavoro, avrei messo su un sacco di soldi e sarei diventata ricchissima… Quando sei una ragazzina di campagna ci credi a certe cose. È sempre la solita storia: in città le strade sono lastricate d’oro e tutto il resto. Ben presto capii che mi sbagliavo. La gente di città era peggio di quella del mio villaggio. Nessuno si curava di una ragazzina sporca e cenciosa, nessuno. Provai dunque ad elemosinare e all’inizio le cose andarono benino. Ma una sera un mendicante, un uomo che reputavo mio amico, mi pestò di botte e si portò via quella moneta d’argento che avevo faticosamente risparmiato… Lo guardai con gli occhi lividi di pugni e di lacrime mentre, in locanda, banchettava con il mio denaro. È così che conobbi l’odio. Stanca, infreddolita e affamata scivolai nella stalla, dove mi adagiai sul fieno. Non riuscii neppure a chiudere gli occhi, però, che sentii afferrarmi da due forti braccia. “E tu chi sei?” Era un ragazzo, poteva avere al massimo un paio di anni in più a me. “E cosa ci fai qui?” “Cerco solo un posto dove passare la notte… ti prego, non picchiarmi!” Solo allora il ragazzo parve accorgersi dei miei lividi. “Chi ti ha fatto questi segni?” Ma io non risposi e scoppiai a piangere. “Non piangere…” e porgendomi uno straccio “… tieni, asciugati quegli occhioni tristi. Io sono Duncan, ma tutti qui mi chiamano Dunk. E tu?” “S-Sarah, Sarah O’Leary.” “Ti andrebbe del latte caldo, Sarah O’Leary?” Annuii entusiasta e Dunk, senza aggiungere una parola, sgusciò via dalla stalla. Pochi minuti dopo era di ritorno con una tazza di latte fumante fra le mani. La tazza di latte mi ricordò giorni più felici, quando il babbo e la mamma erano ancora vivi e allora piansi, piansi moltissimo… Dunk lavorava come garzone alla locanda e confessò che, nella penombra, mi aveva scambiata per un ladro di cavalli. Ricordo che lo trovai molto coraggioso. Fu grazie a lui, comunque, che l’oste accettò di assumermi come sguattera. Il lavoro era terribile. Dovevo sopportare in silenzio le continue allusioni sessuali che gli avventori mi sputavano addosso con quelle loro linguacce da ubriachi… Ma la compagnia di Dunk e la sicurezza di un pasto caldo e di un tetto sopra la testa mi sostenevano anche nei momenti più duri. Con il passare dei mesi, mi affezionai a quel ragazzo forte e di buon cuore che mi aveva tolta dalla strada. Ci eravamo promessi che un giorno avremmo aperto una locanda tutta nostra. Sembra ridicolo, ma era il nostro grande sogno. Già mi vedevo indaffarata ai fornelli, aiutata dai miei ragazzi. Sì, perché in quel sogno c’erano anche i figli, i nostri figli. Ma il destino, si sa, lavora per conto suo e nel mio caso aveva in serbo tutt’altri progetti… Accadde una notte sul tardi: Dunk era uscito a controllare la stalla, mentre il vecchio oste russava già da un pezzo. Era rimasto un solo cliente, quello che doveva essere un marinaio a giudicare dalla pittoresca parlantina con cui aveva fatto le sue ordinazioni. Il marinaio si era scolato molte, troppe pinte di birra e dormiva con la testa appoggiata sul tavolo… la prassi, insomma. Mi avvicinai per svegliarlo ed invitarlo cortesemente alla porta quando l’uomo si destò all’improvviso e, con una rapidità sorprendente, mi stritolò il polso. “Sei davvero un bel pezzo di figliola… ti va di spassartela?” “Mi… mi lasci stare! Devo chiederle di uscire, la locanda sta per chiu…” Non ebbi il tempo di finire che l’uomo estrasse un pugnale e me lo puntò dritto alla gola. “Io non vado da nessuna parte e tu, se ci tieni a quei begli occhioni verdi che hai, farai esattamente come ti dico…” Mi fissava con uno sguardo rosso e umido, uno sguardo da ubriaco. Capii subito che faceva sul serio e preferii obbedire. Il marinaio mi condusse alla porta. La paura mi aveva bloccato… non riuscivo a pensare ad altro che al pugnale, che adesso l’uomo mi teneva puntato dietro la schiena. Ci allontanammo di qualche passo ed io mi davo già per spacciata quando Dunk, sbucato dall’ombra, diede un poderoso strattone al mio assalitore. L’uomo cadde a terra ma, prima che Dunk potesse gettarcisi addosso, si era già rialzato e con una prontezza letale lo feriva al cuore. Forse il marinaio aveva sbagliato mira, forse non voleva colpire per uccidere… Fatto sta che Dunk indietreggiò di qualche passo e, guardandomi con gli occhi sbarrati dallo stupore, balbettò: “M-mi dispiace…” Un attimo prima di accasciarsi al suolo, morto. Quel che accadde dopo lo sa soltanto il diavolo. Ricordo un impeto di rabbia, ricordo di aver raccolto il pugnale che l’assassino aveva lasciato cadere a terra… poi un velo rosso sangue copre ogni cosa… Mi vedo in fuga, con il pugnale stretto saldamente nel pugno e il cuore che mi martellava in petto… quell’ardente sensazione di libertà e l’appagamento di una vendetta compiuta… In quel bagno di sangue mi sentii rinata.
Renis Inviato 7 Settembre 2005 Autore Segnala Inviato 7 Settembre 2005 Quando ripresi conoscenza mi trovavo nello stesso, lurido angolino dove dormivo prima di imbattermi in Dunk. Per un brevissimo istante pensai che si fosse trattato di un incubo, ma guardando il pugnale e le mie mani imbrattate di sangue capii che no, non l’avevo sognato. Strano, ma la mia coscienza era sgombra da qualsiasi rimorso. Pensai a Dunk, a com’era morto per proteggermi. Vacillai: il dolore era ancora troppo vicino. Quella notte conobbi me stessa. Perché un’altra ragazza al mio posto si sarebbe costituita alle guardie o avrebbe atteso immobile lo scorrere degli eventi. Io scelsi un’altra via. Al momento decisivo, il mio istinto di conservazione ebbe la meglio su tutto. Sciacquai le mani e il pugnale in una pozzanghera e mi allontanai scomparendo nelle tenebre. Sin da allora conoscevo abbastanza bene questo sporco mondo da sapere che le guardie corrotte si sarebbero intascate il borsello del marinaio e mi avrebbero accusata di furto e omicidio. Per un pugno di soldi e minacce, il vecchio oste avrebbe testimoniato a loro favore. Per me non restava altro da fare che lasciare Baldur’s Gate, dove avevo vissuto per un anno. Un lungo anno in cui da ingenua fanciulla ero diventata una donna. Avevo sedici anni allora, quando cominciai a peregrinare in giro per il Faerûn. La paura della legge mi indusse a viaggiare di città in città, anonima e silenziosa come un’ombra. Fui obbligata a compiere altri crimini per sopravvivere. All’inizio piccoli furti, quel tanto che bastava per tirare avanti. Ma poi mi spinsi sempre più oltre, finché uccisi di nuovo. E poi ancora, e ancora… Con il tempo ci presi gusto. Per la prima volta nella mia vita ero io a scegliere, io a comandare, io e soltanto io. Nel corso dei miei viaggi ho appreso i segreti della Via e raffinato le tecniche; ho conosciuto altri come me: nobili o corrotti, innocenti o colpevoli, vivi o morti. Ma per tutti vale la stessa regola, la stessa religione: la lama silenziosa taglia meglio. Due anni or sono conobbi Ezkar, un mago dalle vesti rosse. Fu lui a convincermi a seguirlo fino a Thay, dove diventammo soci in affari e non impiegammo molto a farci una discreta reputazione. Io mi servivo delle sue conoscenze per procurarmi i “lavori”: affari complicati, politica e quant’altro. Ma una pugnalata dietro la schiena risolveva ogni problema, garantito. Ad essere sincera i maghi non mi sono mai piaciuti. Troppo astuti e pericolosi per potersi fidare di loro… Immaginate, dunque, la mia sorpresa quando Ezkar confessò di amarmi. “Lasciamo stare questa vita. Abbiamo abbastanza soldi da vivere bene per il resto dei nostri giorni. Andiamo via, io e te, e ricominciamo tutto daccapo.” Povero, stolto Ezky. Gli tagliai la gola nel sonno e fuggii con i soldi. La nostra unione era conclusa, eh eh. Forse quei bifolchi dei miei compaesani avevano ragione su di me, forse sono davvero una “strega”. Fatto sta che adesso ho una taglia sulla testa. Ammonta a 3,500 pezzi d’oro, se non sbaglio. Senza la protezione di Ezkar, la nazione di Thay mi considera una pericolosa fuorilegge. Devo trovare un altro mago rosso e guadagnarmi la sua fiducia, se non voglio che la morte venga a bussare alla mia porta anzitempo. Solo allora potrò dormire sonni tranquilli. Credo. La gente mi conosce come Ombra Rossa, ma in qualunque modo vogliano chiamarmi io non devo rispondere ad altri che a me stessa. Dopo tutto chi ha mai detto che sarebbe stato facile? Vivere, intendo.
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