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Inviata

Preludio

(l’Occhio del Firmamento)

di Jason R. Forbus

«Vi racconterò parte di una saga più estesa, di un’antica ballata le cui origini si perdono nella nebbia dei tempi… Questa storia è triste, queste pagine ingiallite umide di un mare di lacrime. Ma come tutte le leggende dei nostri antenati, angoscia e ombra cedono il passo a gioia e luce.»

– Weanor Hightrees, Cantore delle Foglie Sussurranti

Tutto ebbe inizio un pallido mattino di mezz’inverno tanti, tanti anni fa…

La neve fioccava abbondante quel giorno straordinariamente freddo, ricoprendo l’antica foresta di Cormanthor di un manto di nobiltà.

I larghi e sgombri sentieri fra gli alberi erano deserti, fatta eccezione per una carovana, un esempio di maestria e ingegno, trainata da una coppia di cavalli bianchi come lo scenario magico che li circondava. La carovana procedeva spedita per l’Ovest, diretta al mare. L’ultima, antica famiglia elfica sopravvissuta sul continente di Faerûn, avrebbe presto raggiunto la favoleggiata isola di Evermeet e dunque la tanto agognata pace. La pace che i crudeli cugini del sottosuolo, gli efferati drow, avevano violato ormai da tempo.

Separarsi dall’amata foresta dei loro avi era stata una scelta difficile ma oramai il Cormanthor, a causa delle frequenti incursioni drow, era diventata una terra di nessuno. Molti elfi erano emigrati all’Ovest; tanti altri, invece, avevano preferito la vita di forestieri e vagabondi nelle metropoli di Faerûn, Waterdeep innanzi a tutte. Così anche gli Arlan scelsero la Via dell’Esilio, preferendo il ricordo di un passato glorioso all’oscurità di un incerto presente. La lunga marcia attraverso l’immensa foresta di Cormanthor sarebbe servita agli Arlan per congedarsi da quegli alberi secolari che, colorando le foglie di rosso, giallo e verde, avevano segnato le meravigliose stagioni delle loro lunghe esistenze.

A bordo della carovana viaggiava la famiglia al completo: il padre Eladaran, un campione che aveva sempre difeso la terra e i suoi cari con coraggio; la madre Aënadth, una maga trasmutatrice che aveva stretto un forte legame con il bosco e riscoperto conoscenze perdute, e infine i due figlioli, appena fanciulli.

Il maggiore era un maschio: i genitori lo avevano chiamato Menel Hen, “occhio del firmamento”, a causa della peculiare abitudine del ragazzino di scrutare l’immenso cielo. Gli erano dunque state tatuate le rune del suo nome dietro la nuca, per rispetto di un’antichissima tradizione di famiglia.

La secondogenita, invece, era una bellissima bambina: Lómë Hrívë, “notte d’inverno”, poiché la sua nascita era stata predetta molto tempo prima dai divinatori al servizio degli Arlan e accolta con profonda gioia in una gelida notte di gennaio. Anche Lómë, come il fratello, portava tatuate dietro la nuca le rune del suo nome.

La carovana aveva quasi raggiunto i confini del verde regno; il cocchiere, un fedele servo e amico, guidava i cavalli con sicurezza. All’interno, fratello e sorella giocavano felici, mentre i genitori si scambiavano in teneri sussurri le preoccupazioni, le speranze per i lunghi giorni venturi…

La quiete fu bruscamente interrotta quando un colpo poderoso e improvviso si abbatté con violenza contro la carovana. L’urto fu tremendo: il cocchiere venne catapultato a qualche metro di distanza e cadendo batté la testa. Il poveretto non ebbe neppure il tempo di realizzare cosa fosse accaduto che era già morto. La carovana si era frattanto piegata su di un lato. I bambini spaventati si strinsero l’uno alle braccia tremanti dell’altra mentre i cavalli frinivano terrorizzati. Le povere bestie non riuscivano a rialzarsi e continuavano a scivolare sulla neve. Ma Eladaran, ripresosi dallo stupore iniziale, brandì Daraliss, un’arma magnifica con la quale aveva combattuto e sconfitto centinaia di nemici, e balzò fuori; Aënadth lo seguì un attimo dopo essersi protetta con alcuni incantesimi.

Fuori li attendeva un’amara sorpresa: un drappello di maghi e guerrieri drow che contava su due dozzine di uomini, armati di tutto punto e in assetto da combattimento. Le spie drow dovevano aver saputo della loro partenza, e gli avevano teso un agguato. Ridevano gli elfi oscuri, pregustando il momento in cui le loro lame affilate avrebbero trafitto le carni dei nemici di sempre. Subito i due amanti capirono che le possibilità di vittoria erano pressappoco inesistenti. Si fissarono negli occhi: uno sguardo intenso e carico del fuoco del loro amore, un amore vecchio di due vite umane. Un attimo dopo si scagliavano addosso agli assalitori, intenzionati a tutto pur di salvare i loro due tesori.

Eladaran e Aënadth si batterono come mai avevano fatto prima di allora, si batterono come tigri che difendono i propri cuccioli dal pericolo. Molti drow incontrarono il proprio destino contro la spada e la magia degli impavidi elfi. Ma l’esito della battaglia non poteva che arridere ai figli di Lolth. Dalla loro, i drow potevano contare sul vantaggio numerico e sulla crudeltà. Eladaran il campione cadde sotto i colpi di molte spade spietate. Aënadth lanciava un incantesimo quando fu sorpresa da alcuni dardi avvelenati, che tagliarono l’aria come lingue di serpente e si conficcarono nel suo bel petto. L’ultimo pensiero della donna fu un pensiero di madre, la speranza che ai figli adorati fosse concessa una morte veloce e indolore.


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Inviato

Dall’interno della carovana, intanto, il piccolo Menel aveva visto tutto. A nulla erano valse le preghiere di Lómë di non guardare, di restarle accanto. Qualcosa dentro di lui lo costringeva ad affacciarsi su quell’orribile spettacolo. Così quando le spade lacerarono il corpo del padre e i dardi trafissero il cuore della madre, una parte di lui morì per sempre.

Vinta la battaglia, i drow esaminarono rapidamente i corpi straziati degli elfi. Tolsero la spada, ancora imbrattata di sangue drow, dalla mano dell’elfo e i gioielli, quei bellissimi orecchini d’argento che Eladaran aveva donato alla sua consorte per l’ultimo solstizio, li strapparono sadicamente via. L’infinito orrore di ciò che vide allora, Menel non poté paragonarlo a nessuna notte senza stelle. La furia in lui crebbe cieca e terribile, esplose come il fulgore di mille soli. In un attimo era fuori dalla carovana, spinto da un solo obiettivo: vendetta! Senza pensarci su due volte, Menel si scagliò addosso al bastardo che stava pulendo i gioielli del sangue della madre. Quel giorno l’elfo oscuro conobbe la paura. L’odio infinito di quel ragazzino era una potenza aliena e vasta, una forza pronta ad esplodere. Ma restava pur sempre un ragazzino.

«Però! Potrebbe diventare un buon gladiatore nelle arene insanguinate di Menzoberranzan!» Disse, prima di colpirlo in pieno volto con il piatto della sua spada. Il fanciullo provò un dolore acuto e poi perse i sensi.

Quando Menel riaprì gli occhi, scoprì che un drow lo portava a spalla come se fosse della selvaggina. Il fanciullo era troppo debole per opporre qualsiasi resistenza e comunque sarebbe stato inutile. Con la coda dell’occhio intravide Lómë, e nel vedere che la sorellina stava bene si tranquillizzò. Il fanciullo visse le ore che seguirono in uno stato di dormiveglia e tiepido sopore, con il sangue che ancora gli gocciolava dalle labbra spaccate e segnava una macabra scia sulla neve immacolata. I drow avanzavano lenti e rumorosi, ingombrati com’erano dai tesori della carovana. Il piccolo Menel si chiedeva quale sarebbe stato il suo futuro: costretto a combattere come una bestia per soddisfare la brama di sangue dei padroni drow, dimenticato in un’oscura città sotterranea? Non avrebbe dunque mai più rivisto il cielo che amava tanto? E allora Menel pianse, pianse lacrime ardenti e così diede sfogo alla disperazione e fugò lo spettro della pazzia.

Il fanciullo si era ormai rassegnato alla crudeltà del destino quando, all’improvviso, una pioggia di foglie acuminate calò dalle cime degli alberi, abbattendosi sui drow. Erano frecce! Con la forza residua Menel sollevò lo sguardo e gli parve di vedere, confuse e sfocate nel bianco ovattato che lo circondava, agili figure saltare giù dai rami e verdi mantelli gonfiarsi. Quei mantelli, quelle frecce piumate… Non poteva sbagliarsi, quelli erano i “Guardiani”, i baluardi, i figli e fratelli del Popolo Fiero! Un turbinio di lame e di frecce micidiali si abbatté come tempesta sulle fila dei drow. Questi, come belve messe alle strette, si affidarono a tutti gli stratagemmi che conoscevano pur di salvarsi la vita. Pochi drow fortunati, aggirato il campo di battaglia, si diedero alla fuga. Fra questi pochi c’era anche lui, il drow che lo trascinava inesorabilmente verso un futuro di sofferenze. La speranza abbandonò nuovamente il piccolo sventurato. Per quanto si sforzasse di invocare aiuto, la flebile voce del fanciullo si perdeva nelle grida e nel clangore dell’acciaio. Fu allora che lei comparve: una ragazza dagli occhi di lince.

«Fammi strada, sgualdrina!» Le urlò addosso il drow.

Ma la ragazza sollevò l’arco e, incoccata una freccia, lasciò andare: la freccia gridò nel vento prima di piantarsi nel fianco destro del drow, che vacillò qualche passo quando ecco che un’altra freccia, velocissima, lo colpì alla gamba facendolo crollare a terra. Menel Hen si divincolò dalla presa del drow morente, scivolando sulla soffice neve. Tutt’intorno a lui, la battaglia volgeva al termine segnando la vittoria dei guardiani. Barcollante, Menel si alzò da terra per volgersi a colei cui doveva la vita. La guerriera lo fissò con i suoi occhi da lince. Il fanciullo non chinò il capo e guardò a lei nella stessa maniera con cui guardava il cielo.

Alcuni drow erano riusciti a darsi alla fuga, rintanandosi in chissà quale oscuro meandro. I guardiani seguirono le tracce dei fuggiaschi ma ad un punto della pista queste scomparivano nel nulla. Menel Hen si aggirò come uno spettro fra i corpi degli elfi e dei drow caduti, seguito passo passo dalla ragazza dagli occhi di lince. Il fanciullo cercò la sorellina fra i corpi di quei guerrieri invocando il suo nome: «Lómë!», così tante volte che alla fine gli arse la gola. La verità che il piccolo principe rifiutava di credere emerse all’improvviso, trafiggendo il suo petto in un singulto di crudo dolore. Lómë era stata rapita dai drow! Menel gridò la sua rabbia e pianse la sua tristezza in ginocchio, un bambino rannicchiato su sé stesso che aveva appena conosciuto il terribile mondo dei grandi. I guerrieri elfici, scossi da una profonda commozione, si raccolsero attorno a Menel Hen. La ragazza dagli occhi di lince si chinò su di lui e stringendolo fra le braccia gli sussurrò parole di conforto che i secoli hanno obliato…

Inviato

Era ormai solo al mondo. I genitori furono sepolti il giorno seguente ai piedi di una vecchia e maestosa quercia, la stessa di fronte alla quale avevano celebrato il loro matrimonio. Nei giorni che seguirono, molti nobili elfi salparono da Evermeet per piangere sulla tomba degli ultimi regnanti del Cormanthor. Najestarr, il famoso arcimago elfo del sole di cui tutt’oggi lodiamo il nome, provò pietà per il piccolo principe e gli offrì di portarlo in una terra lontana da quel luogo di dolore, gli offrì la possibilità di una vita felice. Ma il fanciullo conosceva già la sua strada. Lo aveva giurato solennemente sulla tomba dei genitori, rinnegando Corellon Larethian e gli dei colpevoli, secondo lui, di averlo abbandonato: avrebbe dedicato tutto il suo spirito alla vendetta. L’arcimago, rattristato e sconvolto dalla scelta dell’ultimo degli Arlan, lo salutò promettendogli un rifugio sicuro.

«Le sponde di Evermeet sono sempre pronte ad accogliere il figlio di Eladaran il Campione, Sire del Cormanthor.» Gli disse.

Prima di fare ritorno ad Evermeet, Najestarr portò con sé il tesoro di famiglia degli Arlan. Lo avrebbe custodito in attesa del lontano e sperato giorno in cui Menel sarebbe stato legittimamente incoronato Sovrano del Cormanthor.

Il Consiglio dei Guardiani assunse dunque l’autorità in vece della mancanza di un sovrano. Erano tempi bui, anni di lacrime e di sangue. Il Cormanthor era governato dalla spada.

Quando Menel Hen si rifiutò di partire, il consiglio decise all’unanimità di affidare il fanciullo alle cure della famiglia della sua salvatrice.

«… affinché tu non dimentichi cosa sono l’amore e la famiglia…» Dissero, e lui obbedì.

La sua salvatrice, la ragazza dagli occhi di lince, si chiamava Elen e davvero, come suggeriva il nome, era bella e irraggiungibile come una stella. Elen aveva da poco superato il beryn fin¹ eppure dal suo modo di parlare, dalla profondità dello sguardo nessuno lo avrebbe sospettato. Il padre Aelos e la madre Shala furono fin da subito amorevoli nei confronti del piccolo principe, e non gli fecero mai pesare il fatto che egli era un figlio adottato; Neyla, la sorella maggiore di Elen fu per Menel Hen come una seconda sorella. Ma con Elen era tutto diverso. C’era qualcosa in lei di straordinario, e questo qualcosa rapì sin da subito il cuore acerbo di Menel.

Nonostante la giovane età, Elen serviva già fra i ranghi dei guardiani. Arciera provetta, padroneggiava anche l’arte delle spade, che nelle sue mani si trasformavano in fruste pronte a piegarsi e a schioccare. La ragazza insegnò a Menel lo stile di combattimento con due armi. In questa danza di lame l’ultimo degli Arlan si dimostrò un ottimo allievo, dimostrando di possedere una dote innata che l’odio, altrimenti estraneo al suo animo buono, plasmava in uno stile ineguagliabile.

Le stagioni trascorsero velocemente. Menel Hen cresceva di pari passo con la sua implacabile sete di vendetta. Fu soltanto grazie alle cure amorevoli di madre Shala che il ragazzo non votò il suo cuore al male e alla distruzione che ne deriva. Ma quando cadeva in trance, incubi spaventosi tornavano per tormentarlo e lui tremava, scosso da terribili visioni. Nel mondo dei sogni madre Shala non poteva consolarlo e la povera donna restava fuori l’uscio della camera con le mani sul cuore dolente per la sofferenza del figlio.

Quando l’addestramento di Menel poté dirsi completato, il ragazzo saldò il debito con i Guardiani unendosi ai loro ranghi. La prova consisteva nel sopravvivere in solitudine in un ambiente ostile della foresta per una settimana e dare la caccia e stanare una creatura pericolosa. Fu dura, ma il ragazzo riuscì nell’impresa senza trovare grosse difficoltà. In molte battaglie il contributo di Menel si rivelò decisivo e l’ultimo degli Arlan presto si guadagnò il meritato rispetto dei compagni guardaboschi. Un giorno, si diceva, il Principe avrebbe reclamato il trono che gli spettava di diritto.

Inviato

Il giorno stesso in cui Menel superò il beryn fin, domandò ad Elen di unirsi a lui in matrimonio. La donna accettò senza farselo chiedere due volte, poiché anche lei amava non troppo segretamente questo ragazzo forte abbastanza da superare la tragedia che aveva sconvolto la sua vita e, pur di aspettarlo, aveva rifiutato decine di corteggiatori. Nei due amanti il thiramin² non era stato improvviso, ma un seme vecchio di decadi finalmente sbocciato in un bellissimo fiore. La notizia del loro matrimonio fu accolta dall’intera comunità con grande gioia e festeggiata per giorni.

Si sposarono secondo i dettami del rito antico, al sorgere di Anar il sole e ai piedi della quercia dove si erano sposati i genitori di lui e dove ora riposavano, uniti nell’eterno abbraccio della morte.

Dalla loro unione, pochi anni dopo, nacque un bambino. Il suo viso ricordava i bei lineamenti della madre mentre gli occhi grigi vagavano per lo spazio come quelli dell’orgoglioso padre. I genitori lo chiamarono Yondo Alassë, “figlio di gioia”, perché c’era tanta felicità nella loro vita. Menel decise di mantenere viva la tradizione degli Arlan e fece tatuare la nuca del bambino con le rune del proprio nome.

Ma in quegli anni il Cormanthor restava un luogo pericoloso. Fra le ombre degli alberi strisciavano nemici invisibili, sempre in agguato. Un giorno, un lugubre e infausto giorno i drow sferrarono un attacco improvviso. I Guardiani accorsero a difendere la terra con il coraggio che sempre li contraddistingueva in battaglia, ma le forze drow che si trovarono a fronteggiare contavano duecento fra guerrieri, maghi e sacerdotesse. Allora per gli elfi di Cormanthor fu chiaro che i crudeli cugini non erano giunti con la solita intenzione di uccidere, saccheggiare e fuggire con il bottino. Si trattava di una vera e propria invasione. La battaglia si trasformò presto in un massacro e tutti noi sappiamo che la Corte Elfica quel giorno sarebbe definitivamente caduta se non fosse stato per l’intervento provvidenziale di Odon il drago d’argento, che aveva previsto l’attacco da tempo ed era accorso dall’ovest per assistere i suoi alleati.

Nell’infuriare della battaglia, Elen si trovò faccia a faccia con il famigerato Ykrash, un necromante di grande potere. Ad Ykrash bastò toccare la fanciulla elfica con un dito pervaso di gelida energia, perché la nobile guerriera cadesse a terra pallida e fredda in un istante, come se il sangue non fosse mai fluito nel suo corpo. Menel la vide cadere e per lui fu come rivivere quel giorno lontano, che ancora bruciava nella sua memoria come se fosse accaduto ieri; i ricordi riaffiorarono in un fiume in piena di rabbia devastante. Ancora quella sensazione d’abbandono e forza lo pervase e così Menel si fece largo fra i nemici in un turbinio terribile di lame finché raggiunse Ykrash. Il mago fu colto alla sprovvista dall’arrivo di Menel e tentò di comporre un incantesimo, ma nel farlo lasciò la difesa scoperta alle lame dell’elfo, che si incrociarono intorno al suo collo decapitandolo. Vendetta! Era fuori di sé! Il ranger continuò a dilaniare i corpi dei nemici anche quando questi non respiravano, né si muovevano più. I compagni tentarono di fermarlo, ma la sua ira era formidabile. Menel fuggì via da quel luogo di sofferenze, in preda ad una follia che lo condusse miglia e miglia lontano, al nord.

Durante la sua fuga, Menel non si fermò mai nello stesso luogo per più di due giorni: avvertiva il bisogno di abbandonare una caverna, un asciutto rifugio e andare via, sempre più lontano, sempre più a nord.

Menel Hen divenne un ramingo, un solitario viandante delle terre selvagge. Si nutriva di radici, di piccoli animali quando aveva la fortuna di incontrarne. Lentamente, Menel imparò… Imparò il significato della fame, della sete e del dolore, del freddo e del caldo. Era solo con sé stesso, solo lui e il cielo. Ed il suo sguardo tornò a vagare – di notte – fra le stelle, nella speranza di incontrare il sorriso della sua amata Elen in mezzo a quelle luci…

Inviato

Menel Hen aveva abbandonato la sua terra, suo figlio. Ma Yondo gli ricordava troppo la madre, e il dolore era ancora insopportabile. Così il suo carattere si incupì e nel suo cuore non ci fu più spazio per la gioia. Il ramingo dava sfogo alla sua rabbia contro gli occasionali mostri in cui si imbatteva, creature malvagie e stupide abbastanza da mettersi sulla sua strada.

Trascorse tre anni in lunga solitudine, rifuggendo gli uomini e la civiltà. Durante l’arco di tempo che passò nel Nord, Menel Hen poté rafforzare il legame che lo univa alla natura. L’aspra e selvaggia madre lo aiutava a purificarsi. Ma poi giunse l’Inverno della Fame, come c’è tramandato dalle cronache dell’epoca. La selvaggina era quanto mai scarsa, ci fu una moria tremenda di animali. Neppure le magre provviste che Menel aveva premurosamente conservato bastarono a supportarlo. La fame costrinse il ramingo a fare ritorno nelle terre civilizzate.

«Fu come svegliarsi da un lungo sogno», sembra che confidò un giorno a suo figlio, «un sogno in cui io ero un lupo della steppa.» Da questa rivelazione, probabilmente, nacque la leggenda del simbolo araldico degli Arlan: un lupo dal portamento fiero che contempla il cielo stellato.

A questo punto il destino di Menel Hen si tesse ai destini di altri uomini, nel bene e nel male, nella luce e nell’oscurità. Oggi il nome di questo antico guerriero è iscritto sull’albo degli eroi della risorta Corte Elfica e noi lodiamo il suo nome.

Così se in una notte di vento e di pioggia, mentre sorseggiate il vostro vino caldo in locanda e contemplate il fuoco scoppiettante che arde nel camino, udrete narrare dalla viva voce di un bardo le gesta di Menel Hen consideratevi fortunati, molto fortunati, perché è una di quelle rare storie in grado di portarvi in un tempo che è stato, ma che oggi non è più…

¹Beryn fin = ovvero “tempo della scoperta”; rappresenta l’inizio della pubertà per gli elfi.

²Thiramin = “legame dell’anima”; gli elfi credono che il progresso spirituale di una persona sia inconsapevolmente intrecciato con quello di un’altra.

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