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Inviato

Questo è il pezzo che non ho ben capito. Cosa vuoi dire con "Velka deve loro una particolare benevolenza?"

-MikeT

Volevo intendere che Velka ha segnato l'umanità (così ricca di doni grazie a Velthine) con la mortalità e la caducità. Pertanto, avendo loro assegnato un simile "deficit" doveva loro "una particolare benevolenza" nel senso che ha legato il proprio regno (ovvero il regno della natura) agli umani per la loro sussistenza. E' una sorta di compensazione: Velka ha danneggiato gli umani per invidia ed equilibrio verso le altre razze, ma contemporaneamente ha dovuto legarsi a loro.


Inviato

Volevo intendere che Velka ha segnato l'umanità (così ricca di doni grazie a Velthine) con la mortalità e la caducità. Pertanto, avendo loro assegnato un simile "deficit" doveva loro "una particolare benevolenza" nel senso che ha legato il proprio regno (ovvero il regno della natura) agli umani per la loro sussistenza. E' una sorta di compensazione: Velka ha danneggiato gli umani per invidia ed equilibrio verso le altre razze, ma contemporaneamente ha dovuto legarsi a loro.

Ah, perfetto, grazie della delucidazione. ;-)

-MikeT

Inviato

Le razze prosperarono per lungo tempo, non vi era inimicizia tra loro. Ma neppure si conobbero. I nani preferirono le profonde viscere delle montagne dove estrarre il metallo che offrivano a Sethlans, gli elfi rimasero immersi nelle cupe foreste del nord, adorando Velka per la loro purezza e la natura che li circondava nella sua perfezione. Gli uomini attraversarono i fiumi ed arrivarono ai confini del mare senza trovare nulla che li alietasse. Là dove giungevano gli Zigar erano giunti prima di loro. Gli Gnul si isolarono nelle sabbie dei deserti e di loro nessuno seppe nulla per secoli a venire. Velka volgeva tranquillo la ruota del tempo E Velthune osservava compiaciuto al sua opera.

Ma le razze crebbero a seconda della loro purezza.

E gli elfi crebbero al punto da capire quale fosse la magia che sosteneva gli elementi e pertanto come era stata fatta qualsiasi cosa conosciuta. Ma questo non bastò loro. Trassero la magia al di fuori di ogni elemento e credettero di poterla manipolare.

Gli dei capirono cosa era stato fatto troppo tardi, quando molti degli elfi erano già condannati e la terra stessa moriva, dividendosi gli elementi dai quali essa stessa era stata costituita. Molti reietti di quel popolo puro pagarono il prezzo per quello che avevano fatto e scomparvero nella profondità delle foreste, portando con sé la magia che avevano sottratto e che pian piano li stava trasformando corrompendoli sotto forma degli incubi corrotti che avevano evocato. Il potere stesso della magia, privo di controllo, li distrusse. Di quelli rimasti, pochi ormai morenti si ritirarono nei luoghi più remoti delle grandi foreste che già pian piano ingiallendosi andavano morendo. Alla fine anche l'oscurità scese su tutte le razze e sembrò che fosse arrivata la fine dei viventi, mentre le stelle in cielo andavano quasi spegnendosi.

Per questo Velthune si decise ed attraverso Velka creò una nuova razza, l'unica e la prima tra tutte, che solcasse i domini dell'aria e dimorasse nella terra, tra Aita e Phersipnai. Che non temesse alcun danno dal fuoco di Sethlans e neppure dalle acque cupe di Nethuns. Nacquero infine i draghi.

E gli elfi li considerarono puri perché vennero dalle loro foreste, parlando la loro stessa lingua; gli zigar li rispettarono mentre solcavano volando i cieli sopra le acque. I nani li venerarono perché in loro era il fuoco di Sethlans e mai drago avrebbe toccato uno della loro razza. Questo era il prezzo per il dono concesso dal dio.

Le altre razze li temettero perché ai draghi era stato concesso il potere su tutti gli elementi. C'erano draghi dell'aria e del fuoco, della terra e dell'acqua. E gli dei tutti li amarono per la loro purezza e per il loro sacrificio. Perché nessun drago sarebbe vissuto con altro compito che proteggere gli elementi. Grazie a questo la vita tornò a prosperare nelle terre di Solnem e degli Elfi reietti non se ne seppe più nulla.

  • 1 anno dopo...
Inviato

Non pensavo che sta roba fosse ancora in memoria... se a qualcuno può interessare, per avanzare delle critiche, ovviamente, avrei una mitologia quasi formata da quel piccolo abbozzo che avevo fatto... potrei anche postarla... (per la gioia delle vostre stampanti GH!)

Inviato

Mitologia: mito della creazione di Solnem fino all'epoca moderna.

"Là dove la storia delle razze arriverà ad un bivio

si avrà la fine di tutto ciò che è, oppure l'inizio di quello che è stato"*

*Frase tratta dalla profezia e volutamente ambigua che potrebbe significare come nel futuro di Solnem potrebbe esservi la distruzione totale, la rinascita del Signore dei Sogni, la rinascita dei draghi. La profezia è volutamente oscura e si presta a diversi significati.

Premessa: i nomi delle divinità sono stati tratti dal pantheon mitologico della civiltà Etrusca, popolo di cui ben poco sappiamo, nonostante abbiano giocato un ruolo nella nascita dell'impero Romano e quindi nella civiltà Occidentale. Fino a noi sono giunte le loro tombe e parte delle loro credenze religiose. Come altre civiltà essi predirono la propria fine, cosa che puntualmente avvenne. Nessuno ne ha mai capito realmente le cause.

La prima era della creazione

All'inizio il nulla e nel nulla solo una vita.

Velthune si destò e decise di infondere il suo dono a dei figli. Prima si dedicò all'acqua ed alla terra, ma quando le ebbe finite queste rimasero immobili, prive di vita. Allora soffiò su di esse ed ottenne il fuoco, respiro della terra, ed il vento delle tempeste, respiro dell'acqua. In quel momento fu soddisfatto da quello che aveva fatto e scartò quanto aveva avanzato dalla creazione di Solnem, non prestandovi più alcuna attenzione. E da quello che aveva avanzato originò un altro mondo.1 Gli elementi erano vita e la vita persisteva in essi, ma non la magia. Non ancora, almeno. Velthune capì allora che gli elementi non erano abbastanza. Diede loro la magia e dagli elementi nacquero i suoi fratelli, destinati a dominare il mondo. Dall'acqua nacque Nethuns, signore dei mari; dal fuoco Sethlans, signore dei metalli; dall'aria nacque Tinia, signore dei fulmini ed infine dalla terra nacque Aita, signore di tutto ciò che è nascosto. La magia si unì alla vita e gli elementi prosperarono in essa.2 Ma nemmeno allora Velthune fu soddisfatto. Fu allora che nacquero Turan, dea della fertilità e Phersipnai, dea di tutto ciò che è svelato. Le ere passarono e gli dei furono soddisfatti di loro stessi, ma gli elementi non ne prosperarono oltre finché un giorno Aita incontrò Phersipnai e gli elementi stessi rischiarono di perire, come avviene quando si incontrano tra loro gli opposti, perché ormai non vi era distinzione tra gli dei e le loro creazioni, tale era la magia che li permeava entrambi.3 Aita e Phersipnai ebbero così due figli gemelli. Di essi l'uno prese su di sé il dono soltanto della madre e fu Velka, dio della natura4 mentre l'altra ottenne soltanto i poteri del padre e fu da allora Northia, dea del destino e del tempo predestinato. Poiché il creato aveva rischiato di perire Velthune decise di porvi rimedio. Ma non lo fece da solo: quando la Vita nacque come noi mortali la conosciamo, essa prosperò dapprima per popolare il creato. In seguito Tinia fu costretto per sostentarla ad usare i suoi fulmini; mentre Sethlans lo aiutava rovesciando nel cielo la sua forgia incandescente. Così nacquero gli astri e le stelle, così nacque il sole (gioiello tra i più belli e cari a Sethlans) che diffonde tutt'ora l'essenza di Sethlans sulle creature di Velka. Quest'ultimo da allora divenne dio del mutare del tempo su tutto ciò che è vivo, tale era il suo destino e la sua discendenza: da dea fertile e dio di morte, supremamente occulta tra tutte le cose. Sua sorella Northia passò fra ciò che era e fu ospite nei possedimenti non corrotti di suo fratello, mentre si rendeva conto del dono e della terribile maledizione che la accompagnava: conoscere l'inizio ed il principio di tutto. Vedere la rovina là dove non vi era neppure ancora indizio di nascita. Osservava ciò che era e conosceva anzitempo quello che sarebbe stato. Per non venire distrutta da questo si narra che Northia chiese a Velka di poter cessare di vivere. Ma Velthune intervenne per questo e la punì: fu così che Northia fu unita indissolubilmente alla natura che aveva ammirato e suo fratello Velka ne divenne a malincuore il custode. Velka scelse tra le sue creature predilette il lupo e lo donò alla sorella perché nella sua nuova forma ne potesse trarre compagnia e conforto. Da allora Vanth divenne ancella di Northia.5 Northia, pur diventando essa stessa natura, rimase una dea e conservò i propri poteri per quando il destino lo avrebbe richiesto. Fu così che morte e rinascita cessarono di avere significato per lei ed il dolore per le vite che prima vedeva spegnersi si attenuò nella sua nuova forma.6 Ma questo ancora non bastava. Velthune pregò i suoi fratelli e le sue sorelle di aiutarlo. In quel tempo infatti non vi era altro che natura e di ciò Velka era compiaciuto. Allora gli dei presero gli elementi nelle loro mani e la vita che sgorgava in essi e li mescolarono di nuovo insieme, alla ricerca di qualcosa di più grande. Non erano nuovi dei quelli che si accingevano a creare, bensì mortali, in quanto anche Aita mise il suo contributo e nulla potè in questo Phersipnai. Perché non c'è rinascita senza la morte. Aita e Phersipnai insieme presero la terra e la mescolarono con il fuoco di Sethlans: fu allora che nacquero i nani detti per questo la prima razza. Memori di tali origini i nani impararono subito a dare vita a ciò che è freddo e morto. Infatti negli elementi che li costituivano erano state poste radici di parte della magia, così che ebbero inizialmente il dono della creazione.7 Poiché la prima razza non si trovava a proprio agio nei possedimenti di Northia, Velka decise che il suo regno doveva avere la propria razza; pertanto prese le creature che in essa prosperavano e con esse creò la seconda razza: gli elfi. Più puri tra tutte le razze e più vicini a Velka delle altre essi furono costretti a fare di Northia la loro unica sopravvivenza.7 Dall'acqua di Nethuns e dall'aria tempestosa di Tinia insieme sgorgò la terza razza: gli zigar.7 Tale è la loro origine che essi non possono mai stabilirsi in un luogo, ma devono vagare sempre, sospinti dagli elementi mutevoli di cui sono fatti e fuggevoli come acqua che dona vita e distrugge. Turan, che era rimasta in disparte, ingelositasi rubò l'acqua da Nethuns e chiese a Sethlans del fuoco. Lo ottenne e li mescolò. Così nacque la quarta razza degli Gnul, nel cui sangue scorre la contraddizione che basta loro per sopravvivere negli aridi deserti di Solnem. Per questo nessuno chiese punizione e Turan fu da allora per tutti i viventi la dea dell'inganno. Nemmeno allora Velthune fu soddisfatto. Prese allora tutti gli elementi perché in ciascuno di essi la magia era forte e Velthune sentiva che così doveva essere. E soffiò sulla quarta razza la propria benedizione, dandole la vita. Ma subito Velka protestò per quanto era stato fatto: nessuna razza poteva essere superiore alle altre, nessuna poteva trarre solo vantaggio da tutti quanti gli elementi insieme. Per questo Velka ottenne che Aita imprimesse sulla quinta razza degli uomini, più che sulle altre razze, il marchio del tempo. Perché con così tanti doni essi si rendessero conto, attraverso la propria mortalità di non doverli sprecare, come spesso avviene nelle loro brevi vite. Anche per questo Velka deve loro una particolare benevolenza, tale che la quinta razza ha imparato ad ottenere un prezzo dalla natura stessa per poter sopravvivere. A questo punto Velthune fu soddisfatto e si ritirò, assieme gli altri dei, dalla propria creazione. La magia presente negli elementi era sufficientemente forte a controllarli senza danno e le razze stesse la condividevano al punto che nulla poteva volgere al male.

1 La vita sostiene sé stessa (autoconservazione)

2 All'inizio gli elementi uniti alla magia danno le divinità, mentre l'unione delle due cose catalizzata dalla divinità dà origine alla vita. Le divinità hanno così la capacità di propagare la vita stessa.

3 Le creazioni delle divinità e le loro manifestazioni si associano alla magia.

4 Natura perfetta e non corrotta.

5 Da allora il lupo o Vanth è creatura della notte. Da essa originano le principali civiltà nelle leggende.

6 Northia conosce il tempo ma è indifferente rispetto ad esso. Per lei tutte le creature, buone o cattive che siano hanno diritto di vivere o morire. Quello che a lei importa è soltanto l'equilibrio della sopravvivenza.

7 I nani sono anche detti i Creatori; gli elfi i Custodi; i gnul gli Inesistenti; gli zigar i Viandanti ed infine gli uomini semplicemente gli Umani.

Inviato

Interessantissimo come progetto imho, L'avevo legguchiato qualche tempo fa e mi era piaciuto molto. Adesso mi ci metto in modo metodico e fra qualche giorno ti dico...

Inviato

No, dicevo tutto...

Mi chiamerei fortunato se riuscissi a mettere la parola fine su questa mitologia...

La seconda era dei draghi

Le razze prosperarono per lungo tempo poichè non vi era inimicizia tra loro. Ma neppure si conobbero. I nani preferivano le profonde viscere delle montagne dove estrarre il metallo che offrivano a Sethlans nelle loro creazioni; gli elfi rimanevano immersi nelle cupe foreste del nord, adorando Velka per la loro purezza e la natura che li circondava nella sua perfezione, donata loro da Northia. Solo gli uomini attraversarono i fiumi ed arrivarono ai confini del mare senza però trovare nulla che li potesse soddisfare. Là dove giungevano gli Zigar erano comunque giunti prima di loro. Gli Gnul si isolarono nelle sabbie dei deserti e di loro nessuno seppe nulla per i secoli a venire. Velka volgeva tranquillo la ruota del tempo e Velthune osservava compiaciuto la perfezione della propria opera. Northia moriva e rinasceva ad ogni ciclo vitale, divenendo sempre più insensibile a quanto era stato perso ed a quanto si andava già distruggendo.

Ma le razze crebbero a seconda della loro purezza.

E gli elfi crebbero al punto da capire quale fosse la magia che sosteneva gli elementi e pertanto come era stata fatta qualsiasi cosa conosciuta. Ma questo non bastò loro. Trassero la magia al di fuori di ogni elemento conosciuto e credettero di poterla controllare e manipolare: gli elementi deperirono a poco a poco. E gli dei capirono quale danno fosse stato arrecato troppo tardi, quando ormai molti tra gli elfi si erano già condannati e la terra stessa moriva, dividendosi negli elementi dei quali era costituita. Molti reietti tra gli elfi pagarono il prezzo per il delitto che avevano commesso e scomparvero nella profondità delle foreste, portando con sé la magia che avevano sottratto e che pian piano li stava trasformando corrompendoli nella forma degli incubi orrendi che avevano evocato con le loro mani e la loro ignoranza. Credevano che la purezza della loro stirpe avrebbe condotto le loro opere verso il bene di ciò che era stato loro affidato, ma nella loro cecità e nel loro zelo sbagliarono. Il potere stesso della magia, privo di controllo, li distrusse. Tra quelli che non andarono incontro ad un simile destino, pochi ormai morenti si ritirarono nei luoghi più remoti delle grandi foreste che già pian piano ingiallendosi andavano disgregandosi. Northia, indebolita, fece scendere l'oscurità su di loro e parve che fosse arrivata la fine per tutti i mortali mentre gli stessi astri di Sethlans in cielo andavano affievolendosi. Velthune ricorse allora in quegli ultimi istanti al mondo generato da quanto aveva scartato nella prima creazione e là, dove la magia non ha più valore, esiliò i reietti e ciò che avevano compiuto perché fossero dimenticati.Ciò nonostante il mondo dove la magia non ha valore li inghiottì tutti quanti e continuò a prosperare, con grande stupore di tutti gli dei. Allo stesso tempo Velthune si decise e con l'aiuto di Velka creò una nuova razza, l'unica e la prima tra tutte, che solcasse i domini dell'aria e dimorasse nella terra, tra Aita e Phersipnai. Questa razza ebbe il compito di portare l'equilibrio nelle ere a venire, compito che i migliori custodi tra gli elfi avevano mancato. I draghi furono creati tali da non temere alcun danno dal fuoco di Sethlans e neppure dalle acque cupe di Nethuns. Ed essi riportarono l'equità tra la magia e gli elementi. Gli elfi li considerarono puri perché venivano dalle loro stesse foreste e molti di loro parlavano la loro stessa lingua; gli zigar li rispettarono mentre solcavano i cieli sopra le acque e mostravano loro le rotte sicure in insidiose tempeste. I nani li venerarono perché nei draghi vi era il fuoco di Sethlans e mai dei fratelli di sangue si sarebbero rivolti gli uni contro gli altri. Questo era il prezzo per il dono concesso da Sethlans ai draghi. Ma in quei tempi i draghi erano saggi e la condizione imposta divenne dono e fratellanza imperitura con il popolo dei nani.

Le altre razze li temevano perché ai draghi era stato concesso dagli dei il potere dell'ordine su tutti gli elementi. E gli dei tutti li amavano per la loro purezza e per il loro sacrificio. Perché nessun drago sarebbe vissuto con altro compito che proteggere gli elementi. Grazie a questo la vita tornò a prosperare nelle terre di Solnem e degli Elfi reietti non se ne seppe più nulla, così come del mondo in cui erano stati esiliati. In questo modo era stato creato un passaggio tra Solnem ed i luoghi ove la magia non ha alcun valore.1,2

1 In realtà la Terra rappresenta una sorta di zona di scarto, scaturita dalla creazione di Solnem. Un mondo risultato dell'eccesso "fisico" di materiali durante la creazione e soprattutto un mondo privo di essenza, dove però inspiegabilmente anche in assenza della magia si è costituita la vita. Solo più tardi gli dei si accorgeranno (primi fra tutti Velthune) che il mondo della Terra ha già assunto una sua autonomia rispetto a Solnem. E che soprattutto nell'atto della cacciata dei reietti si é venuto a creare un collegamento stabile tra i due mondi. Tale collegamento, presente nelle "età dell'oro" sarebbe poi caduto in disuso ed infine del tutto dimenticato.

2 I draghi da allora vennero chiamati le chiavi della creazione. Pare infatti che gli dei avessero dato loro il compito di esiliare i reietti ed impedire che essi riuscissero a tornare su Solnem.

  • 1 anno dopo...
  • 3 mesi dopo...
Inviato

Dopo tanto tempo che non scrivevo ho partecipato (ovviamente senza esito... Gh!) ad un concorso. Posto qui il racconto:

Una lama per una vendetta

C'era uno strano rapporto tra lui e quel coltello: anche per questo lo aveva lucidato fino a far risplendere la lama come uno specchio. Amava saggiarne il peso e la consistenza, sfiorare la punta e percepirne la minaccia, ma soprattutto incidere leggermente le palme delle mani sulla lama affilata e sentire il dolore che accompagnava questo, capire di poterci convivere assieme. Dopodichè afferrò l'impugnatura rivestita di cuoio e nonostante il sangue che scorrendogli tra le dita gli indeboliva la presa, sentì in quegli istanti di avere veramente il potere tra le proprie mani.

Punta

Si svegliò con la sensazione di essersi appena addormentato e di aver sacrificato le ore migliori della notte ad un agitato stato d’insonnia. Soltanto dopo aver sorseggiato mezza tazza di caffè bollente si ricordò, come in un sogno fatto da un'altra persona, di aver lasciato il coltello appoggiato sul comodino e distendendo la mano, sentì la fitta dolorosa della ferita appena rimarginata. Per lui il dolore era il simbolo di una prova che riusciva a superare costantemente. Non ne aveva paura. Perché mai avrebbe dovuto? Altre erano le cose che lo preoccupavano e al momento e tra queste c’era la vendetta.

Era iniziato tutto l’anno prima, quando si era fatto ingannare da una donna. Aveva creduto di essere amato, aveva pensato di poter vivere assieme a lei, di costruirsi una vita fatta di intese e di silenzi sottintesi. All’inizio lei aveva accettato e l’aveva realmente amato. Erano addirittura andati a vivere insieme, almeno finché qualcosa non si era incrinato nel loro rapporto. Lei non era unica: era soltanto un’illusione. Questo più di molte altre cose l’aveva profondamente ferito. I primi tempi aveva pensato di poterla cambiare, di poter correggere i suoi difetti insieme, di convincerla che gli altri, i suoi amici ed i suoi parenti, dicevano cose dettate esclusivamente dall’invidia. Quelli non sapevano nulla del loro amore e non conoscevano la purezza dei suoi sentimenti. Volevano soltanto privarli della felicità.

Alla fine lei si era lasciata convincere ed era scappata: lo aveva lasciato. Non aveva più voluto vederlo. A nulla erano serviti i suoi regali, le sue insistenze, i suoi tentativi di riallacciare il loro rapporto. Lei aveva buttato tutto nel fango, come se fosse stato privo d’importanza ed in questo modo l’aveva profondamente umiliato. Per questo e per molto altro ora voleva vendicarsi.

Finì di sorseggiare il caffè amaro che avanzava nella tazza ed assaporò il piacere delle proprie fantasie. Quando ebbe finito si alzò, la mente lucida e sgombra da ogni dubbio ed un vago sapore metallico sul fondo del palato e ritornò in camera da letto. Qui raccolse il pugnale sul comodino e strinse l’impugnatura con la mano ferita. Era incurante del dolore: non significava nulla. Lei aveva cambiato città e lavoro per sfuggirgli, ma ora lui sapeva esattamente dove trovarla. Adesso nulla era più importante della vendetta: per ottenerla avrebbe dovuto attendere soltanto poche ore. Con calma ultimò i preparativi per uscire.

Lama

La sveglia suonò con il suo solito cicalino irritante. Soltanto che non era il suono familiare al quale era abituata. Per questo scattò fuori dal letto come una molla, annaspando insieme aria e coperte aggrovigliate nel sonno agitato. Non ricordava nulla dei sogni che aveva fatto, ma di qualsiasi tipo essi fossero, le avevano lasciato la vaga e sgradevole sensazione di un sonno inquieto che non l’aveva fatta riposare appieno. Si lasciò catturare dalla banalità dei gesti quotidiani del risveglio: l’acqua fredda sul viso, il sapore aspro ed acidulo del succo d’arancia fresco ed il contrasto con il dentifricio alla menta subito dopo. Faceva le cose in maniera meccanica, come se il rito dei piccoli gesti quotidiani potesse aiutarla a tirare avanti. Come se lei vivesse nella vita di qualcun’altra. In effetti quel pensiero non era poi molto lontano dal vero. Solo negli ultimi giorni si stava pian piano rendendo conto di che cosa significasse vivere: non molti mesi prima, era esistita in lei una ragazza profondamente diversa, forse anche troppo ingenua. Ripensandoci si rese conto che la ragazza che era stata si era persa quasi del tutto e nel momento in cui si era svegliata da quell’incubo la persona che era esistita prima era scomparsa. Dopo aver perso una parte enorme di sé aveva dovuto sperare che quel poco rimasto sarebbe stato sufficiente a ricostruire almeno una brutta copia di quella ragazza solare, con quasi la sua stessa faccia e le medesime occhiaie lucide, che osservava ora allo specchio. Beh, pensò, forse una volta le occhiaie erano meno pronunciate e di questo sorrise rigidamente alla propria immagine riflessa. Fu quel sorriso tirato a ricordarle, come un flusso incalzante di marea, cosa l’avesse portata fino a quel punto: il destino, forse. Si sentiva una sopravvissuta da quando aveva riacquistato prepotentemente la voglia di prendere in mano la propria vita.

Tutto era iniziato con quel ragazzo. Gli aveva voluto molto bene all’inizio, nonostante i suoi genitori non fossero d’accordo e le amiche la invitassero a stare attenta tra sorrisi forzati di circostanza. All’inizio non ci aveva badato molto: i sentimenti avevano coperto tutto, anche le impressioni sgradevoli, come una coperta soffocante che calando dall’alto l’avesse chiusa in un bozzolo nel quale si era pian piano abituata ad ignorare le note dolenti insinuatesi presto nel vivere quotidiano. All’inizio erano state delle scenate di gelosia: per quando lei doveva uscire, per come si era vestita e per quello che gli raccontava delle conversazioni avute durante il giorno a lavoro.

Poi erano iniziati i piccoli dispetti, le porte chiuse a chiave, le minacce ed infine le botte. Lui le ripeteva ogni volta di volerle bene, dopo. Quanto spesso se l’era ripetuto in quello stanzino buio della casa, convincendosi che la sua vita fosse normale al di là della porta chiusa a chiave per evitare le botte? Là, dove lui, piangente ed urlante, era pronto a scusarsi all’infinito per schiaffi e pugni?

Anche pensandoci ora le sembrava irreale, come una pellicola cinematografica dalla trama banale. Eppure con l’aiuto delle persone che le avevano realmente voluto bene ne era uscita; aveva capito come liberarsi da lui e lo aveva fatto. All’inizio lui l’aveva inseguita: aveva detto di amarla ancora ed aveva mescolato promesse a minacce.

Ma così facendo le aveva fatto capire di averla persa.

Allora era iniziato l’incubo: lui aveva cominciato a farle squillare il telefonino a notte fonda, a seguirla mentre si recava a lavoro, a perseguitarla con regali assurdi che lei non voleva da uno come lui. Ogni volta che aveva cambiato il numero di cellulare od il percorso per andare a lavoro la mattina, lui era riuscito a trovarla. Era incredibile come potesse carpire da quelli vicini a lei, anche solo conoscenti, informazioni necessarie a ripresentarsi all’angolo di una strada o vicino alla sua macchina parcheggiata. Dopo i continui rifiuti di vederlo o parlargli ancora i giorni successivi erano diventati un inferno di minacce e di appostamenti. Finché non era andata a denunciarlo ai carabinieri. Allora quei giorni vissuti quasi correndo lungo il filo di una lama sottile erano finiti. Lui non si era più fatto né sentire né vedere e lei, per essere più sicura di non trovarselo nuovamente davanti, aveva cambiato lavoro e città.

Aveva iniziato una nuova vita, anche se il solo respirare le sembrava ancora un miracolo; un piccolo grande dono prezioso del quale non si era mai resa conto prima, dandolo per scontato. Dall’altra stanza la sveglia ricominciò a suonare ricordandole che doveva sbrigarsi per arrivare in orario a lavoro. Pronta o non pronta che fosse, prese al volo le chiavi e si precipitò fuori.

Impugnatura

L’attesa era stata lunga ed estenuante, con il coltello assicurato al fianco dalla cintura. Il posto dove lei lavorava l’aveva individuato subito, ma non si era fatto vedere. Piuttosto aveva camminato a lungo attraverso i quartieri lì attorno solo per rendersi conto di quali avrebbero potuto essere le vie di fuga, nel caso improbabile che qualcosa andasse storto. Tutto era tranquillo, ma dopo aver finito il giro di dell’isolato lo scorrere delle ore nell’attesa lo stava snervando. Le mani sudavano ed i suoi movimenti erano diventati quasi febbrili. Nonostante faticasse ad ammetterlo era agitato, ma non perché fosse nervoso. Quello no.

Semplicemente era impaziente, desideroso di assaporare finalmente la vendetta che aveva tanto atteso. Cautamente si assicurò con la mano che l’impugnatura del pugnale si trovasse ancora nello stesso posto, ben celata e quasi invisibile sotto le pieghe dei vestiti. Ormai era tardo pomeriggio e lei sarebbe uscita tra poco, alla fine del turno di lavoro. Sorrise, compiaciuto della propria abilità: lei non si aspettava di trovarlo lì. Le avrebbe fatto vedere che non si poteva lasciare così impunemente: l’unico prezzo sufficiente a saldare un simile affronto sarebbe stata la sua vita. Quel che sarebbe successo dopo non gli importava. Avrebbe anche potuto volgere la lama contro di sé, se ne avesse avuto il coraggio. In qualsiasi modo fosse andata sarebbe stato felice dopo averlo fatto.

Eccola.

Il rumore dei suoi passi sull’asfalto, inconfondibile. Quante volte lo aveva sentito pedinandola a distanza di notte, lungo i vicoli che portavano verso il centro, assicurandosi che arrivasse a casa sana e salva? Lei non si era mai accorta di nulla.

Non poteva sbagliarsi. Senza farsi notare attraversò la strada e si avvicinò alle sue spalle, sistemandosi la cintura per essere in grado di sfilare velocemente il coltello. Anche da quella distanza, a pochi passi, sentiva il profumo inebriante dei suoi capelli, lo stesso che aveva accompagnato tante delle loro notti insieme e che non avrebbe mai più potuto avere tra le sue mani. La cosa lo fece impazzire di bramosia. Lei continuava a camminare con passo spedito, immersa nei propri pensieri. Accelerò il passo per trovarsi immediatamente dietro di lei. Con un movimento fluido estrasse il pugnale dai vestiti e velocemente portò il braccio verso l’alto, impugnando con forza: sarebbe stato un unico arco che da dietro l’avrebbe presa al cuore. Perfetto e rapido: senza appello.

Ma nel mezzo del percorso della lama intervenne il caso.

Un accartocciarsi improvviso di lamiere dopo una frenata improvvisa la fece voltare di scatto, spaventata dal rumore di un incidente appena avvenuto sulla strada lì accanto ed il braccio attraversò la traiettoria del pugnale. L’osso fermò la lama con un suono sgradevole, ma le coprì il petto.

L’aveva soltanto ferita. Di sicuro il braccio non avrebbe potuto fermare le rapide staffilate successive, ma lei ebbe una maggiore prontezza di riflessi. Nell’istante in cui si era girata non aveva ancora compreso cosa stesse accadendo, ma la pugnalata di dolore le aveva attraversato il braccio, fulminea. Reagì istintivamente, aggrappandosi ad un’esile speranza.

Perché non era giusto che finisse in quel modo.

Perdeva molto sangue ma, come se fosse stata insensibile a questo, si voltò e scappò rapidamente, attraverso la porta del primo negozio alla sua sinistra, cercando aiuto. Lui si rese conto di aver aspettato un istante di troppo, dandole così l’occasione di sfuggirgli. Si guardò intorno, assicurandosi che per il momento nessuno dei passanti intervenisse. In genere le persone imparano a farsi i fatti loro in casi del genere, ma non si può mai sapere. Doveva finire in fretta quello che aveva iniziato. La fuga che aveva preventivato non era più possibile. La seguì con freddezza e determinazione dentro il negozio e quasi gli venne da ridere mentre stringeva la lama sporca di sangue. Non gli era scappata, non del tutto: aveva soltanto rimandato l’inevitabile.

Il negozio sembrava deserto, con scansie piene di banali oggetti per la casa: in basso vasi di vetro dai riflessi colorati, in alto caffettiere e piccoli elettrodomestici, fuori portata lassù in alto rastrelliere di coltelli da carne. La paccottiglia arrivava fino al soffitto impedendo la visuale. Amareggiato e contrariato si rese conto che avrebbe dovuto cercarla corsia per corsia; ma il sangue per terra era fortunatamente una traccia più che sufficiente. Lei si era nascosta in fondo, dietro l’ultima scansia del negozio apparentemente deserto, il respiro mozzato dal dolore che la attanagliava. Ma perché mai non c’era nessuno là dentro? Stava impazzendo dalla disperazione nel comprendere che non c’era alcuna via d’uscita, non da lì, non ora.

«Vieni fuori! Non voglio farti del male. Solo parlarti.» disse lui, con tono mellifluo, seguendo la traccia scarlatta sul pavimento.

Il fiato le uscì dai polmoni dal terrore quando notò l’ombra distorta dai vetri colorati che passava appena due corsie più in là. Il coltello che luccicava attraverso i riflessi del vetro. Avrebbe avuto la vendetta che desiderava, nonostante il piccolo imprevisto. La vide: una sagoma dietro l’ultimo scaffale in fondo e si avvicinò con calma.

Si appoggiò alla scaffalatura, indebolita: gli scaffali erano troppo alti e lei stava svenendo per tutto il sangue perso e quello che ancora colava dal braccio ferito. Lo scaffale oscillò facendola ritrarre spaventata. Lui aveva sentito e la stava raggiungendo. Era sicuro di sé. Stava aggirando l’ultimo corridoio.

A lei era rimasta solo la disperazione e la voglia di vivere; pensò che non poteva accadere ora ed in quel modo. E mentre lui si avvicinava lei si appoggiò a peso morto, con tutta la forza della disperazione e tutto il coraggio di chi vuole avere ancora un’altra occasione. Nonostante fosse debole la spinta fu sufficiente a far oscillare lo scaffale pericolosamente al di fuori dal proprio baricentro. Allora spinse più forte.

Lui si rese conto troppo tardi della trappola micidiale che gli stava calando addosso: aveva solo un coltello ed una vendetta da compiere. Lei, invece, aveva appena trovato più lame di quante lui avrebbe mai potuto immaginare. Gli calarono addosso tutte assieme, in un frastuono di pesante vetro infranto.

Quando non lo sentì più gemere là sotto le rimasero soltanto le forze per sedersi sullo scaffale rovesciato, sperando che il suo peso gli impedisse di strisciare di nuovo fuori nella sua vita. Ed i soccorritori la trovarono ancora così, piena di sangue e lacrime, seduta su quella montagna di lame improvvisate dal destino.

Inviato

Ciao.

Ho letto il racconto. Mi è piaciuto, sia come idea sia come struttura. E la parte finale del brano è piuttosto avvincente, hai saputo creare la tensione giusta.

Ho qualche critica sullo stile, che potrebbe essere migliorato. Provo a darti qualche consiglio in spirito costruttivo, nonostante la mia inesperienza :-)

Amava [...] incidere leggermente le palme delle mani sulla lama affilata e sentire il dolore che accompagnava questo, capire di poterci convivere assieme. Dopodichè afferrò l'impugnatura rivestita [...]

Hai scelto bene l'immagine iniziale, con lui che si ferisce le mani: rimane subito impresso per la follia e la determinazione che implinca.

Noto però due problemi:

- "sentire il dolore che accompagnava questo" forse era meglio dire "che accompagnava questo gesto", oppure solo "sentire il dolore".

- "Dopodichè afferrò l'impugnatura" c'è un problema temporale quando dalla descrizione di una sua abitudine, all'imperfetto, passi al passato remoto.

Purtroppo non ho tempo per commentere il testo, comunque nel resto del brano noto qualche ripetizione (concetti ripetuti che potrebbero essere sintetizzati, volendo), qualche scelta di termini che fanno assonanza (per es. "prepotentemente la voglia di prendere in mano la propria"), e qualche espressione un po' abusata (tipo "saltò come una molla").

Oltre questo ci sono le "d" eufoniche: specialmente se invii un racconto ad un concorso dovresti toglierle, perché loro ;) ci fanno sicuramente caso e pensano a una scarsa cura del testo.

La parte finale e la chiusura mi sono piaciuti.

Complimenti

Ciao

Inviato

Mmm ti ringrazio delle critiche perchè mi permettono di imparare qualcosa.

In effetti io con i tempi verbali ci faccio a pugni....

forse sarebbe stato meglio mettere tutto all'imperfetto nella chiosa di introduzione.

Le assonanze non le avevo nemmeno notate, ma come accenni giustamente rendono pesante e poco scorrevole il testo e quindi andrebbero rimosse.

Per quanto riguarda le d eufoniche devo ammettere di non averci ancora capito nulla. Molti dicono di non metterle per nulla, ma a me hanno sempre insegnato che è opportuno metterle. Cercando in rete appare che l'utilizzo della d sta un po' in chi scrive. Se però, come mi fai notare, attualmente indica una scarsa cura della scrittura anzichè il rispetto delle regole grammaticali, dovrò sforzarmi di non farne più uso.

Grazie!

Inviato

Per quanto riguarda le d eufoniche devo ammettere di non averci ancora capito nulla. Molti dicono di non metterle per nulla, ma a me hanno sempre insegnato che è opportuno metterle.

Guarda, anche a me hanno detto, a scuola, che vanno messe.

Oggi come oggi, però, nell'editoria non si usano, vengono sistematicamente eliminate. Credo non ne troverai neanche una in tutti i libri editi in italia in questo decennio. Li trovi in vece nei teti tecnici, negli articoli di giornale ecc. Ma non nella narrativa.

La d eufonica rimane solo per separare la stessa vocale. Quindi se scriviamo "ad andare", ok. Se scriviamo "ad uscire" è sbagliato.

Eccezione a questa regola: "od" non si scrive mai (maimai).

Ora, personalmente non la trovo una cosa molto siglificativa, un racconto può (ovviamente) essere bellissimo anche con le d eufoniche. A me verrebbe spontaneo metterle, però a essere sinceri devo convenire che senza le "d" la musicalità migliora.

Purtroppo parecchia gente che lavora nell'editoria non è così indulgente, e spesso si trova tra le giurie dei concorsi, ci fà caso, quindi io segnalo sempre quando le vedo.

Ok, scusa per la digressione un po' OT, spero cmq utile.

Ciao

Inviato

Guarda, anche a me hanno detto, a scuola, che vanno messe.

Oggi come oggi, però, nell'editoria non si usano, vengono sistematicamente eliminate. Credo non ne troverai neanche una in tutti i libri editi in italia in questo decennio. Li trovi in vece nei teti tecnici, negli articoli di giornale ecc. Ma non nella narrativa.

La d eufonica rimane solo per separare la stessa vocale. Quindi se scriviamo "ad andare", ok. Se scriviamo "ad uscire" è sbagliato.

Eccezione a questa regola: "od" non si scrive mai (maimai).

Ora, personalmente non la trovo una cosa molto siglificativa, un racconto può (ovviamente) essere bellissimo anche con le d eufoniche. A me verrebbe spontaneo metterle, però a essere sinceri devo convenire che senza le "d" la musicalità migliora.

Purtroppo parecchia gente che lavora nell'editoria non è così indulgente, e spesso si trova tra le giurie dei concorsi, ci fà caso, quindi io segnalo sempre quando le vedo.

Ok, scusa per la digressione un po' OT, spero cmq utile.

Ciao

No grazie, io sta cosa non la sapevo e d'ora in poi ci starò attento!

  • 1 mese dopo...
Inviato

In alcuni giorni di disoccupazione mi sson rotto ed ho rimaneggiato un vecchio progetto. So che ci ritornerò sopra ancora, ma per ora penso di averci messo nella mia mente la parola fine.

Mitologia: mito della creazione di Solnem fino all'epoca moderna.

"Là dove la storia delle razze arriverà ad un bivio

si avrà la fine di tutto ciò che è, oppure l'inizio di quello che è stato"*

*Frase tratta dalla profezia e volutamente ambigua che potrebbe significare come nel futuro di Solnem potrebbe esservi la distruzione totale, la rinascita dell'Artefice dei Sogni, la rinascita dei draghi. La profezia è volutamente oscura e si presta a diversi significati.

Premessa: i nomi delle divinità sono stati tratti dal pantheon mitologico della civiltà Etrusca. In molti casi il pantheon era stato a sua volta mutuato da quello Greco. Vista la bellezza dei miti classici ho di mia personale iniziativa lavorato di fantasia, creando un insieme di miti e leggende che non vuole avere la pretesa di essere un'accurata indagine storica (mestiere che lascio ad altri più esperti di me). Spero che questo libero esercizio dell'umana capacità di immaginare possa essere piacevole e non offensivo nei rispetti di coloro ai quali mi sono ispirato.

La prima era della creazione

All'inizio il nulla e nel nulla solo una vita.

Velthune si destò e decise di infondere il suo dono a dei figli. Prima si dedicò all'acqua e alla terra, ma quando le ebbe finite queste rimasero immobili, prive di vita. Allora soffiò su di esse e ottenne il fuoco, respiro della terra e il vento delle tempeste, respiro dell'acqua. Gli elementi si mescolarono e nacque il mondo per come oggi lo conosciamo, nel suo delicato equilibrio. In quel momento fu soddisfatto da quello che aveva fatto e scartò quanto aveva avanzato dalla creazione di Solnem, non prestandovi più alcuna attenzione. E da quello che rimase in sovrappiù originò un altro mondo.1 Gli elementi erano vita e la vita persisteva in essi, ma non la magia. Non ancora, almeno. Velthune capì allora che gli elementi non erano abbastanza. Conferì loro la magia e dagli elementi nacquero i suoi fratelli, destinati a dominare quel mondo di elementi. Dall'acqua nacque Nethuns, signore dei mari; dal fuoco Sethlans, signore dei metalli; dall'aria nacque Tinia, signore dei fulmini e infine dalla terra nacque Aita, signore di tutto ciò che è nascosto. La magia si unì alla vita e gli elementi prosperarono in essa.2 Ma nemmeno a quel punto Velthune fu soddisfatto. Fu allora che dalla sua avidità di creare nacquero Turan, dea della fecondità e Phersipnai, dea di tutto ciò che muore per rinascere a nuova vita. Le ere passarono e gli dei furono soddisfatti di loro stessi, ma gli elementi non ne prosperarono. Questo fino al giorno in cui Aita incontrò Phersipnai e gli elementi stessi rischiarono di perire in questo incontro, come avviene quando si incontrano tra loro gli opposti, perché ormai non vi era distinzione tra gli dei e le loro creazioni, tale era la magia che li permeava entrambi.3 Aita e Phersipnai ebbero così due figli gemelli. Di essi l'uno prese su di sé il dono soltanto della madre e fu Selvans, dio della natura che essa stessa eternamente muore e rinasce4, mentre l'altra ottenne soltanto i poteri del padre e fu da allora Northia, dea del destino e del tempo predestinato. Poiché il creato aveva rischiato di perire Velthune decise di porvi rimedio. Ma non lo fece da solo: quando la Vita nacque come noi mortali la conosciamo, essa prosperò dapprima per popolare i freddi elementi. In seguito Tinia fu costretto per sostentarla ad usare i suoi fulmini; mentre Sethlans lo aiutava rovesciando nel cielo la sua forgia incandescente. Così nacquero gli astri e le stelle, così nacque il sole (gioiello tra i più belli e cari a Sethlans) che diffonde tutt'ora l'essenza di Sethlans sulle creature di Selvans. Ma il sole non poteva continuare per sempre a splendere sulla creazione, altrimenti l'avrebbe distrutta e arrivò così la prima notte, a dare riposo a Velthune ed alle vite che aveva creato. In quella prima di tutte le notti il desiderio di creare del dio divenne uno splendido sogno e al suo risveglio Velthune trovò accanto a sé la compagna che potesse dargli una degna progenie: Uni ebbe vita, maggiore tra tutte le Dee. Da essa nacquero due figlie, tra loro sorelle: Losna e Thesan. La prima nacque nella profondità della notte, portando con sé in dono un disco pallido e brillante nel cielo oscuro e per questo Velthune la fece dea della Luna. La seconda nacque quando i primi bagliori inondavano l'oscurità e venne chiamata Thesan, come la prima stella del mattino e dea dell'aurora. Si dice che le due sorelle insieme percorrano ogni notte il percorso della volta celeste che porta al sopraggiungere di ogni nuovo giorno. Sul mondo siffatto Selvans apprese il significato del mutare del tempo su tutto ciò che è vivo, tale era il suo destino e la sua discendenza: da dea fertile e dio di morte, supremamente occulta tra tutte le cose. Sua sorella Northia passò fra ciò che era e fu ospite nei possedimenti non corrotti di suo fratello, mentre si rendeva conto anch'essa del dono e della terribile maledizione che la accompagnava: poteva conoscere l'inizio e il principio di tutto, ma anche vedere la rovina là dove non vi era neppure ancora indizio di nascita. Osservava ciò che era e conosceva anzitempo quello che sarebbe stato. Ma Northia soffriva molto più del fratello per questo e al fine di cessare questa sofferenza si recò da Velthune e gli chiese di poter cessare di vivere. Ma il dio rifiutò di aiutarla. Northia si appartò nei possedimenti del fratello allora e con tutta sé stessa desiderò di non essere più; per questo Velthune la punì e fu così che Northia si unì indissolubilmente alla natura nella quale si era rifugiata e suo fratello Selvans ne divenne a malincuore il custode. Selvans stesso scelse tra le sue creature predilette il lupo e lo affiancò alla sorella perché nella sua nuova forma ne potesse trarre compagnia e conforto. Quel lupo ebbe un nome: Calu. Da allora Calu è il fedele compagno di Northia.5 Northia, pur diventando essa stessa natura, rimase una dea e conservò i propri poteri per quando il destino lo avrebbe richiesto. Fu così che morte e rinascita cessarono di avere significato per lei e il dolore per le vite che prima vedeva spegnersi si attenuò nella sua nuova forma. Divenne però allo stesso tempo un'unico essere con la terra in cui si era rifugiata e da allora si muta in Cel con il trascorrere delle stagioni scandite da Selvans, dea della terra e degli animali che vi dimorano.6 Ma questo ancora non bastava. Velthune pregò i suoi fratelli e le sue sorelle di aiutarlo. In quel tempo infatti non vi era altro che natura e di ciò solo7. Poiché la prima razza non si trovava a proprio agio nei possedimenti di Northia, Selvans decise che il suo regno doveva avere la propria razza; pertanto prese le creature che in essa prosperavano e con esse creò la seconda razza: gli Elfi. Più puri tra tutte le razze e più vicini a Selvans delle altre essi furono costretti a fare di Northia la loro unica sopravvivenza.7 Dall'acqua di Nethuns e dall'aria tempestosa di Tinia insieme sgorgò la terza razza: gli Zigar.7 Tale è la loro origine che essi non possono mai stabilirsi in un luogo, ma devono vagare sempre, sospinti dagli elementi mutevoli di cui sono fatti e fuggevoli come acqua che dona vita e distrugge. Turan, che era rimasta in disparte, ingelositasi rubò l'acqua da Nethuns e chiese a Sethlans del fuoco. Lo ottenne e li mescolò, ma essi non si annullarono a vicenda. Così nacque la quarta razza degli Gnul, nel cui sangue scorre la contraddizione che basta loro per sopravvivere negli aridi deserti di Solnem. Selvans era veramente compiaciuto. Allora gli dei presero gli elementi nelle loro mani e la vita che sgorgava in essi e li mescolarono di nuovo insieme, alla ricerca di qualcosa di più grande. Non erano nuovi dei quelli che si accingevano a creare, bensì mortali, in quanto anche Aita mise il suo contributo e nulla potè in questo Phersipnai. Perché non c'è rinascita senza la morte. Aita e Phersipnai insieme presero la terra e la mescolarono con il fuoco di Sethlans: fu allora che nacquero i Nani detti per questo la prima razza. Memori di tali origini i Nani impararono subito a dare vita a ciò che è freddo e morto. Infatti negli elementi che li costituivano erano state poste radici di parte della magia, così che ebbero inizialmente il dono della creazioneVelthune vide che questo non era bene ma nulla fece per distruggere quella razza: questo fu il primo degli inganni di Turan. Nemmeno allora Velthune fu soddisfatto. Prese allora tutti quanti gli elementi perché in ciascuno di essi la magia era forte e Velthune sentiva che così doveva essere. E soffiò sulla quarta razza la propria benedizione, dandole la vita. Ma subito Selvans protestò per quanto era stato fatto: nessuna razza poteva essere superiore alle altre, nessuna poteva trarre solo vantaggio da tutti quanti gli elementi insieme. Dalla sua invidia, in un sogno, ebbe origine Laran, dio della Guerra e quello fu il primo seme di corruzione nel creato. Per questa sua invidia Selvans ottenne che Aita imprimesse sulla quinta razza degli uomini, più che sulle altre razze, il marchio del tempo. Perché con così tanti doni essi si rendessero conto, attraverso la propria mortalità di non doverli sprecare, come spesso avviene nelle loro brevi vite. Anche per questo Selvans deve loro una particolare benevolenza, tale che la quinta razza ha imparato ad ottenere un prezzo dalla natura stessa per poter sopravvivere.8 A questo punto Velthune fu soddisfatto e si ritirò, assieme gli altri dei, dalla propria creazione. La magia presente negli elementi era sufficientemente forte a controllarli senza danno e le razze stesse la condividevano al punto che nulla poteva volgere al male.

1 La vita sostiene sé stessa (autoconservazione)

2 All'inizio gli elementi uniti alla magia danno le divinità, mentre l'unione degli elementi e della materia catalizzata dalla divinità stessa (e pertanto con la comprensione di parte della magia degli elementi) dà origine alla vita. Le divinità hanno così la capacità di propagare la vita stessa.

3 Le creazioni delle divinità e le loro manifestazioni si associano alla magia.

4 Natura perfetta e non corrotta.

5 Da allora il lupo o Calu è creatura della notte. Da esso originano le principali civiltà nelle leggende: sembra che Northia, per aiutare i mortali, inviò Calu come emissario, ma per non spaventarli gli diede fattezze umane. Purtroppo quando una notte Calu vide la Luna (Losna) si ricordò di quello che era stato fino a non molto tempo prima e la nostalgia, oltre a spezzargli il cuore, distrusse il suo travestimento proprio mentre giaceva con unaa donna della quale si era innamorato. La donna per stare accanto a lui lo seguì e scomparve e questo, oltre a far nascere dicerie sul fatto che Calu avesse ucciso la donna, fece nascere racconti e leggende sulla licantropia. In realtà Calu non attaccò mai se non per difendere sé stesso e la sua amata. Pure gli uomini da allora ne ebbero profondo timore e per questo Sethlans donò loro il fuoco.

6 Northia conosce il tempo ma è indifferente rispetto ad esso. Per lei tutte le creature, buone o cattive che siano hanno diritto di vivere o morire. Quello che a lei importa è soltanto l'equilibrio della sopravvivenza.

7 I Nani sono anche detti i Creatori; gli Elfi i Custodi; i Gnul gli Inesistenti; gli Zigar i Viandanti e infine gli Uomini semplicemente gli Umani.

8 Probabilmente questo aspetto della scrittura risente qui maggiormente di pesanti rimaneggiamenti operati dal trascrittore.

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