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Inviata

(NOTA: mi da uno strano errore riguardo al limite di caratteri, non riesco a postare il seguito, forse è necessario un post nel mezzo?)

Premessa: innanzi tutto, è la prima volta che scrivo in questa sezione del forum, quindi se ho sbagliato qualcosa per favore siate clementi... comunque, passiamo al racconto: si tratta in realtà di un background di un mio personaggio a cui ero particolarmente legato, da cui ho appunto preso anche il nome per il mio nickname su questo forum, Aleph Brumascura. ho scritto questo qualche anno fa, per una campagna di D&D che purtroppo si è conclusa disastrosamente (in real life, purtroppo), ed ho deciso di postarlo qui per vari motivi: prima di tutto, sono abbastanza soddisfatto di questo racconto, nonostante sia un po' "scopiazzato" da altri racconti (principalmente il ciclo di darksword) e comunque si riesce a percepire bene che non sono uno scrittore professionista; inoltre, a tutto il gruppo è piaciuto molto, quindi magari può piacere anche a voi.. infine, visto che scrivere mi piace molto, ricevere alcuni consigli non farebbe male (anzi, farebbe proprio piacere..) e se qualcuno ha la pazienza di leggerselo tutto magari può aiutarmi!

beh, buona lettura!

Aleph Brumascura

Preludio: La Genesi

Questa storia, al contrario di molte altre, non parla di un potente mago tra tanti comuni mortali, ma al contrario, di un comune mortale tra tanti potenti maghi. Per conoscere la prima parte della nostra storia, bisogna andare molto indietro nel tempo, davvero diverse migliaia di anni prima che il nostro personaggio, o i suoi genitori, o i suoi nonni, fossero soltanto nella mente di dio.

A quell'epoca, nessuno era in grado di utilizzare il Potere, gli uomini primitivi si aggiravano per le terre del Regno dei ghiacciai perenni senza avere la minima idea che un giorno si sarebbe chiamato in questo modo, cercando cibo e riparo dalle gelide temperature che per tutto l'anno rendevano rigida la vita in quelle montagne. Venne un giorno in cui nacque un cucciolo di uomo diverso da tutti gli altri: non piangeva per il freddo (non piangeva quasi mai, a dire il vero) e sembrava sano e ben nutrito nonostante il fatto che il cibo scarseggiasse e le malattie decimassero le popolazioni. Fu il primo Controllore nel regno dei ghiacciai perenni, il primo infuso di puro Potere sin dalla nascita, e da quel giorno sempre più bambini nacquero con questo dono, portando ad una selezione naturale sempre più schiacciate nei confronti di coloro che non lo possedevano, tanto da estinguerli quasi definitivamente. Da allora, moltissime cose sono cambiate, qualche millennio dopo, si creò una società basata sul Potere, ove chi possedeva una maggiore controllo su di esso aveva una carica ruolo più importante. Impararono a controllare le condizioni atmosferiche, le strutture fisiche e chimiche del mondo circostante, rendendo il Regno dei ghiacci uno splendido giardino di statue di cristallo, ghiaccio purissimo e gemme preziose. Anche il clima divenne più mite nei pressi dei Controllori e delle loro città.

Fu allora che il sentimento di xenofobia fece largo nei loro cuori puri, e cominciarono a temere quei selvaggi che utilizzavano utensili per sopravvivere, che cacciavano animali per nutrirsi, coltivavano la terra con strani oggetti costruiti con le loro mani. Erano dei primitivi, potevano attentare alla loro sopravvivenza, e per quanto riuscissero a sopravvivere anche in zone più dure delle loro venivano considerati inferiori: il loro sangue poteva corrompere quello puro dei Controllori. Fu per questo motivo che, circa tremila anni prima del nostro personaggio, furono indette delle leggi da uomini malvagi, che prevedevano la soppressione di tutti coloro che non erano in grado di controllare il Potere, cosa che costrinse i pochi umani senza dono rimasti vivi dalla prima ondata di Inquisitori a fuggire nelle foreste, a nascondersi come meglio potevano nelle terre bestiali che circondavano quel regno di pace e splendore. Dovettero affrontare enormi bestie feroci, alcune delle quali anche capaci di modellare il Potere inconsapevolmente nella loro primordialità, ed in questo modo sparirono dal mondo dei Controllori, che considerarono chiusa la faccenda. La nascita di nuovi neonati senza Potere era andava via via scemando, ma mai è scomparsa del tutto, ed i piccoli venivano soppressi alla nascita, quando mostravano di non avere neanche una minimo controllo su di esso. Così si arriva ai giorni nostri, dove ormai solo un neonato su mille nasce senza potere, e dove la minaccia dei selvaggi viene usata solo come strumento per direzionare le masse, o per spaventare i bambini poco ubbidienti.

Capitolo I: Nato Morto

Ancora una volta, Alina era in ritardo, e mentre svolazzava in fretta per i corridoi intagliati nel ghiaccio ripeteva mentalmente la sua parte nella cerimonia di oggi. Odiava fare la parte della Morte anche normalmente, oggi che doveva farla per la nascita del primogenito della famiglia reale poi era completamente scombussolata. Superò una grande vetrata di ghiaccio, che dava sulla vallata innevata sottostante, e si fermò giusto un attimo per ammirare lo spettacolo che il suo regno aveva da offrirle. Si fermava sempre a quella vetrata, si imbambolava per minuti interi ad osservare minuziosamente ogni particolare della vallata, delimitata dal monte innanzi a quello su cui sorgeva la chiesa di ghiaccio dove lei viveva. Ma questa volta si fermò solo per pochi istanti, per poi riprendere il volo verso la cappella principale.

La sua parte in realtà era decisamente banale, doveva solo stare ferma immobile per tutta la cerimonia, ma la sua funzione era la più terribile che le potesse capitare: nel caso in cui il neonato fosse risultato Morto, ovvero senza poteri, l'avrebbero dato a lei, e lei l'avrebbe portato in una stanza apposita dove sarebbe stato soppresso in maniera “umana”, dicevano. È vero che erano diversi secoli che nella famiglia reale il neonato non nasceva Morto, e che quindi il sangue di questa era ormai purissimo, ma le leggi stabilite migliaia di anni prima non potevano essere infrante, e prevedevano la sua presenza alla nascita anche se superflua. Ovviamente, moltissimi dubbi annebbiavano la sua mente: e se il bambino nasceva comunque Morto? Non voleva più pensarci, ma in ogni istante questo interrogativo gli martellava la testa e le lasciava un'ombra cupa sul volto.

Arrivò infine davanti all'ingresso della cappella maggiore, e scese lentamente verso il terreno. Toccare con i piedi nudi il ghiaccio scolpito, per quanto magicamente reso tiepido, era una sensazione strana, che non provava mai da quando aveva compiuto 8 anni ed aveva imparato a fluttuare. Ma anche questo era scritto nelle leggi, tutti dovevano entrare camminando, tutti erano uguali di fronte a Dio, e così socchiuse la porta, sbirciando all'interno. Fortunatamente, la cerimonia non era ancora cominciata, anche se tutti erano presenti, ed il neonato stava arrivando proprio in quel momento, così si infilò all'interno della sala e si mise vicina alla porta, in piedi, accanto ad una distinta signora: la madre del piccolo, la regina Nivea del regno dei ghiacci perenni. Si scambiarono una occhiata veloce, e restarono in silenzio per tutta la cerimonia.

Il Consiglio degli Inquisitori, vestiti nei loro abiti neri, fece un passo avanti all'unisono, comparendo così parzialmente all'interno del cerchio di luce creato dall'apertura circolare situata esattamente sopra l'altare, ove era posto il neonato. Pochi fiocchi di neve portati dal vento danzavano come spiritelli nel cono di luce sino a posarsi sul piccolo altare.

La cerimonia era cominciata. Il sacerdote cominciò a recitare una preghiera, che più che preghiera era una lettura delle antiche leggi, e gli spettatori, ovvero i genitori ed una ristretta cerchia di persone a loro vicine, rispondevano con certe parole dal significato specifico. Alina notò subito la presenza di un Canalizzatore, a causa delle scarpe che portava ai piedi. Le scarpe erano il simbolo di coloro che non riuscivano ad utilizzare il potere, ma che ne rendevano decisamente più facile l'utilizzo ai loro padroni. Erano considerati una sorta di schiavi, ogni Canalizzatore apparteneva a qualcuno che poteva modellare il Potere, e grazie a determinate tecniche insegnategli tempo addietro il Canalizzatore riusciva a focalizzare il Potere, aiutando il suo padrone portare a termine la sua volontà. Essendo quindi loro stessi incapaci di gestire il potere, non erano in grado di volare, e rendevano quindi particolari della loro casta le scarpe, cosa del tutto inutile per i veri Controllori.

Alina si stupì di vederne uno a quella cerimonia, ma non se ne curò più di tanto, poiché era cominciato il Rito Dell'Acqua; il sacerdote con un gesto della mano animò un tentacolo liquido dalla polla situata sulla parte destra dell'altare, che si protese verso il bambino nel tentativo di toccarlo; la lingua d'acqua lasciò cadere una goccia sulla fronte del bambino. Non accadde nulla, e sull'altare un neonato bagnato urlava per il freddo. Non era un buon segno, il Potere avrebbe dovuto proteggerlo dal gelido contatto, mentre non l'aveva fatto. I brusii che prima affollavano la sala erano scomparsi, ed un silenzio imbarazzato evidenziava l'eco delle urla del bambino.

Il consiglio degli inquisitori fece un ulteriore passo avanti, entrando completamente nel cerchio di luce, segno che era il momento della seconda ed ultima prova. Se anche quella fosse fallita, allora il bambino sarebbe stato dichiarato morto, e lo avrebbero affidato a lei per portarlo poi nella stanza apposta adibita alla soppressione. La preoccupazione ed i dubbi di Alina si fecero più forti, ma tentò di rassicurarsi pensando che circa un neonato su cento non superava la prima ma superava brillantemente la seconda.

Il sacerdote a questo punto, con voce leggermente tremante ma comunque ben camuffando la sua preoccupazione, distese la mano sulla seconda polla, ove giaceva un piccolo braciere, e modellando il Potere fece scivolare una lingua di fuoco sulla mano del neonato, con uno scatto che tradiva leggermente lo stress che gravava su di lui. Le urla del neonato che dopo il fastidio delle fredde gocce d'acqua lentamente si stavano acquietando, si rinvigorirono in urla di dolore, mentre la mano leggermente ustionata cominciava a diventare rossa.

Il figlio della famiglia reale era morto. Anche se lui non ne sembrava troppo convinto, visti gli urli e il pianto insistente che emetteva con vigore. I brusii ricominciarono, questa volta più bassi e tristi dei primi, e Alina scorse una lacrima sgorgare dagli occhi della regina, che si reggeva compostamente in piedi accanto a lei. Il consiglio degli inquisitori fece ora un passo indietro, e scomparve nel buio della cappella, mentre il sacerdote, visibilmente scosso, porgeva il neonato ad Alina, lasciando la madre accanto ad essa a mani vuote.

Capitolo II: La Fattoria

Il sole era appena sorto sulla fattoria Biancarupe, quando tutti i Controllori della terra si alzarono nei loro alloggi modellati dentro a tronchi di sequoie ancora vive, e cominciarono a fare i preparativi per la giornata. Oggi non era un giorno come tutti gli altri, i Controllori della terra non sarebbero andati a coltivare i loro campi come sempre, era invece un giorno di festa e di gioia per tutte le famiglie, poiché quella mattina tutti i figli che avessero compiuto già otto anni avrebbero spiccato il volo, e sarebbero dunque entrati nella vita quotidiana del lavoro alle fattorie. Tutte le famiglie erano quindi eccitatissime, tutte tranne una. La giovane Alina Sedàna quella mattina si svegliò decisamente preoccupata. Sapeva che questo giorno sarebbe arrivato, e per quanto fossero ben otto anni che tentasse di trovare una soluzione non era riuscita a trovarne alcuna. Per anni era riuscita ad insegnare ad Aleph, suo figlio, come fare a cavarsela quando gli altri bambini tentavano goffamente di modellare il Potere creando piccoli effetti di luce o altro, semplicemente con giochi di prestigio, e la grande agilità del piccolo non andava che a favore di questi eventi, tanto che tutti i bambini erano convinti che fosse il più abile di loro a destreggiarsi con il Potere. Non potevano certo pensare che in realtà lui il Potere non riusciva neanche a percepirlo.

Ma quella giornata era molto più difficile di tutti i piccoli giochetti che sin ora avevano ingannato chiunque, anche i Controllori più esperti. Questa volta si trattava di volare, e nessun trucco al mondo avrebbe potuto farlo volare. Così, il bambino si incamminò ignaro verso la piazza centrale, accompagnato da un Controllore della terra che parlava del tempo e di come era diventato grande e di altre sciocchezze che annoiavano il bambino, che quindi rispondeva distrattamente con gesti del capo, mentre pensava ad un nuovo trucco per sorprendere tutti. Quando era uscito di casa, la madre lo aveva salutato trattenendo a stento le lacrime, ricordandogli di non arrendersi mai, baciandolo sulle guance e dicendole che lei lo avrebbe amato per sempre. Ma era ancora troppo piccolo per capire in pieno ciò che sarebbe accaduto di li a poco, e pensò che la tristezza della madre fosse a causa della loro situazione economica.

Così, a passo svelto e con un Controllore che svolazzava a pochi centimetri da terra e che tentava di dargli consigli sul suo primo volo, frasi che andavano al vento, arrivarono alla grande piazza della fattoria, ove già si trovavano quasi tutti i bambini del villaggio messi in riga dal Formatore, ovvero il maestro locale. Fu a quel punto che cominciò a dubitare che quella sarebbe stata una giornata come tutte le altre, e smise di pensare al nuovo trucchetto di prestigio ed ad analizzare la situazione.

Quando anche Aleph e pochi altri si misero in riga, cominciò a spiegare che oggi avrebbero volato per la prima volta, e di prepararsi ad assaporare l'ebrezza dell'aria tra i capelli e del vuoto sotto di loro. Aleph cadde nel panico, non aveva la minima idea di cosa fare, e capì perché la madre lo aveva salutato come con un addio. Mantenne comunque il sangue freddo, come aveva sempre fatto, e cominciò a studiare un piano di fuga.

Ora, sembra strano che un ragazzino di 8 anni, che possiamo chiamare bambino, si metta a pensare ad un piano, ma bisogna considerare che Aleph ha sempre vissuto nel nascondere il suo vero essere, ed è quindi dovuto crescere molto più in fretta degli altri, sviluppando una mente al di fuori del comune.

Strinse forte al petto il medaglione che la madre gli aveva regalato quando era piccolo, e si chiese per quale motivo lei lo avesse abbandonato così, dopo tutti quegli anni di amore, di affetto e di preoccupazioni per lui. Pensò di aver combinato qualcosa, e che quindi lei non lo volesse più, ma solo diversi anni dopo capì la situazione della madre e riuscì a perdonarla davvero, ricevendo in cambio un senso di nostalgia e tristezza così grande che quasi avrebbe preferito continuare ad odiarla.

Comunque, una volta finite le istruzioni da parte del Formatore, tutti i bambini cominciarono a concentrarsi, e chi prima chi dopo riuscirono ad alzarsi in volo, barcollanti ed incerti come tante foglioline al vento. Tutti tranne Aleph, ovviamente, che sembrava invece indaffarato a cercare qualcosa per terra, ma il Formatore non sembrava capire cosa. Questo potrò in rapida successione due eventi che cambiarono drasticamente la vita di Aleph: prima di tutto, il Formatore si avvicinò per controllare che Aleph stesse bene, e nell'esatto istante che questi fu a portata di braccio, il ragazzo lo colpì il più forte possibile alla testa con un grosso sasso trovato li per terra. Nel giro di pochi secondi, non solo tutti gli altri scoprirono che lui era morto, ma si era anche macchiato dell'omicidio del suo Formatore, cosa che dopo un rapido calcolo mentale portò il giovane a girare i tacchi e a correre il più velocemente possibile, mentre l'insegnante fluttuava come ubriaco verso terra, ferito gravemente ma non morto (nonostante Aleph tuttora pensi di averlo ucciso), e tutti i bambini roteavano in aria senza controllo piangendo a dirotto e spaventati da ciò che era appena avvenuto.

Aleph piangeva mentre correva via, sapendo di aver compiuto un omicidio e disperato di aver perso sua madre per sempre nel giro di pochi istanti, e si diresse verso le terre bestiali, dove sapeva sarebbe finito in bocca a qualche creatura orribile entro la notte stessa, un po' perché ci sperava, un po' perché sapeva che nessuno l'avrebbe inseguito lì.

Capitolo III: Le Terre Bestiali

Ormai, Aleph era dato per disperso da tutto il villaggio, erano persino venuti degli Inquisitori ad indagare riguardo al ragazzo che non aveva spiccato il volo, ma quando dissero loro che era fuggito nelle terre bestiali se ne andarono, certi che un ragazzino di 8 anni non sarebbe sopravvissuto neanche sino al giorno dopo. Interrogarono anche la madre, ma non riuscirono a strapparle fuori la vera origine del neonato, e cioè la famiglia reale, né il patto che Alina aveva fatto con la vera madre di Aleph. Se ne andarono convinti che il ragazzo non fosse davvero morto, anche perchè nessuno aveva la certezza di questo, e tutta la sua vita precedente faceva pensare il contrario, classificando l'evento come un caso di malattia mentale precoce, un attimo di follia, e così non ci fu alcuna caccia all'uomo, anche perché le terre bestiali facevano paura persino agli inquisitori stessi. Esistevano cose in quei boschi che erano in grado di resistere al Potere, e questo li rendeva totalmente inutili e vulnerabili.

Così Aleph fu considerato morto da tutti, tranne che da sua madre Alina, che sapeva bene come lo aveva educato, e con tutto l'amore che aveva per lui ancora sperava nella sua sopravvivenza in quelle terre così selvagge. Anche la sua agilità naturale, una dote che aveva sin dalla nascita, sarebbe sicuramente stata d'aiuto nell'eludere le creature più mostruose.

Ed infatti, le speranze e le preghiere che Alina ogni sera recitava per Aleph si dimostrarono esaudite, poiché Aleph non morì, al contrario, condusse una vita molto attiva anche se molto difficile e pericolosa. Una volta raggiunto l'interno del bosco, dopo molte ore di corsa sfrenata, immerso nelle lacrime Aleph svenne vicino ad un grosso tronco cavo di un albero.

Al suo risveglio, il ragazzo sapeva esattamente cosa fare. Sua madre gli aveva insegnato tutto su come ricavare certi materiali da altri, anche senza l'utilizzo del Potere, e si costruì un piccolo rifugio dentro al tronco di quell'albero cavo. Procacciarsi cibo era la prima cosa da fare, visto che di acqua ce n'era molta, e anche procurarsi un po' di quelle pietre per fare il fuoco, che fino al giorno prima aveva usato per produrre finte scintille magiche, potevano essere utili per riscaldarsi. Per l'acqua non c'era problema, i boschi erano sempre coperti da un sottile strato di neve, e anche nei mesi meno freddi era possibile trovare ruscelli ovunque. Come un esperto di sopravvivenza, quindi, Aleph cominciò la sua nuova vita da esiliato. Inizialmente cominciò a cacciare piccole prede, come conigli, o pesci negli avvallamenti dove i ruscelli di montagna creavano piccoli stagni, e a raccogliere legname per riscaldarsi. La difesa dagli animali più pericolosi consisteva per lo più nel camuffamento e nella fuga, cosa che si dimostrava abbastanza facile per lui.

Senza neanche accorgersene, Aleph stava mettendo in atto tutti gli insegnamenti che la madre nel corso dei suoi 8 anni gli aveva dato, forzandolo a studiare sino a notte fonda, anche in lacrime. Non se ne rendeva conto, ma i suoi 8 anni precedenti erano serviti proprio a formarlo per questa situazione, le parole scritte sui libri antichi di storia dei selvaggi, trafugati da Alina dalla biblioteca del regno prima di scappare verso il luogo più isolato dell'impero.

Crebbe così con abiti ricavati da pellicce di animali scuoiati, nutrendosi anche di funghi, bacche e muschi che imparò a conoscere e selezionare, tutto questo senza l'aiuto di niente e nessuno. Cominciò a costruirsi un'arma, e fu proprio nel momento in cui la terminò che si rese conto di non fare più parte del mondo in cui era vissuto per i primi anni della sua vita: aveva creato un utensile con la sola forza delle mani, un enorme arco, di cui conosceva la forma grazie ad alcuni libri storici che sua madre gli aveva obbligato a leggere; l'idea di realizzare un utensile per compiere un determinato lavoro era totalmente estraneo ai Controllori, poiché potevano utilizzare il potere su qualsiasi cosa. Quindi, questa costruzione, per quanto grezza e poco solida, era il simbolo del suo passaggio alla sua nuova vita, simbolo che per sempre ha significato un distacco dalla sua vita precedente a quella nel bosco.

Continuò così sino a quindici anni, cacciando creature sempre più grosse, cercandole di proposito, per mettersi alla prova, poiché aveva preso gusto nel trovare sfide sempre più difficili. Costruiva trappole, inizialmente semplici, poi via via più complesse e utili per la sopravvivenza. Migliorò il suo rifugio, aggiungendo trofei delle creature più grandi che aveva sconfitto, migliorandone anche la comodità e via via allargandolo con piccole stanze sotterranee. L'unica sua difesa stava appunto nel mimetizzarsi, ed un enorme tronco cavo in mezzo ad una foresta passava davvero inosservato, quindi all'esterno aggiunse sistemi per camuffare meglio l'entrata, foglie secche e pezzi di corteccia.

Piano piano cominciava ad adattarsi a quella vita, ed ormai ricordava la vita di paese come una tortura. Viaggiava molto, sviluppando sempre meglio il suo senso dell'orientamento e la sua percezione del territorio, visitando posti completamente differenti da quello dove abitava, e tentando di adattarsi al meglio in ogni situazione. Sapeva di poter contare solo su se stesso, e quando era soddisfatto del suo apprendimento tornava infine al suo rifugio, con la sacca costruita in pelli piena di trofei di caccia delle creature più disparate.


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Inviato

Capitolo IV: Brina

Fu proprio in uno di questi viaggi, aveva circa 15 anni, che tornando al rifugio trovò un grosso puma dentro casa sua. Non era preparato ad una caccia, quindi la situazione rimase in stallo per i primi secondi, sino a quando Aleph notò una ferita molto profonda sul fianco della bestia. Qualcuno, o qualcosa, l'aveva ferita, e sarebbe morta nel giro di pochi minuti. Raccolse immediatamente delle erbe sapendo che avevano degli effetti curativi, e si avvicinò all'animale per curarlo, troppo debole per ribellarsi, ma dopo diversi tentativi di tamponare la ferita purtroppo la bestia si lasciò andare, senza che Aleph potesse farci nulla. Fu allora che si accorse che, poco distante da dove si trovava l'animale un fagottino di pelliccia arrotolato si muoveva sul terreno.

Si trattava del cucciolo di quel puma, molto giovane d'età, probabilmente di poche settimane, che si rotolava piangendo per il freddo sul pavimento del rifugio. Forse fu la solitudine, forse la sua storia vissuta con la madre, fatto sta che Aleph decise di tenere il cucciolo per allevarlo e crescerlo, e da quel giorno non si separarono mai più. Sulla ferita della madre ritrovò dei resti di scaglie di una lucertola degli abeti, una enorme creatura grande circa come una capanna del vecchio villaggio in cui abitava, che dimorava principalmente in boschi di abeti non troppo fitti, dove cacciava qualsiasi cosa si muovesse. Non doveva essere troppo prossima alla sua capanna comunque, l'abetina più vicina si trovava a diverse miglia di distanza, quindi non c'era pericolo immediato, solo tanto risentimento ed odio nei confronti di questa enorme bestia che aveva ucciso la madre di quel cucciolo così giovane, e forse un pizzico di voglia di cimentarsi in questa sfida davvero fuori portata. Trovarla non sarebbe stato così difficile, vista l'enorme mole della bestia. Inoltre, le scaglie trovate avevano un particolare riflesso rossastro, un evento che sino ad allora non aveva mai riscontrato nelle lucertole degli abeti, normalmente verdi scure come il colore degli aghi di abete.

Per ora, tuttavia, l'idea di vendicare quella povera creatura fu scartata a priori, era troppo giovane ed inesperto per poter pensare di potersi anche solo avvicinare ad essa, ma non buttò via le scaglie, le tenne con se insieme a tutti gli altri trofei raccolti sino ad ora, e decise invece di dedicarsi alla cura del piccolo puma, infreddolito e affamato.

Quindi ripose la piccola creatura, di sesso femminile, in un cesto creato con le sue mani,le posò sopra una coperta di pelliccia di yok di montagna, e la mise vicino al fuoco. Col passare degli anni il costruire oggetti era diventata una passione davvero incredibile, spesso aveva lavorato sul suo arco per renderlo un'arma ancora più letale, per migliorarne la precisione e la potenza. La sensazione di creare qualcosa contando solo sulle sue forze andava così tanto contro i ragionamenti dei Controllori che lo faceva sentire vivo, diverso da loro e quindi in qualche modo migliore, per quanto in realtà non li odiasse a prescindere, anzi, per un certo verso ammirava la loro dote. Era sempre rimasto affascinato da ciò che il semplice volere permettesse loro di interagire con il mondo esterno, ed il fatto di non possederne non glieli rendeva soggetti del suo odio.

Per le prime settimane di vita, il piccolo puma aveva bisogno di latte, e questo significava andare alla fattoria da dove era scappato per rubarne un po' dalle vacche ivi allevate. Così durante la notte, quando tutti dormivano, si intrufolava furtivamente nelle stalle, le mungeva e riportava il nutrimento ancora tiepido al rifugio. Mai si era arrischiato ad avvicinarsi alla casa dove aveva vissuto, non ne aveva il coraggio, ne sentiva il bisogno di farlo, anche se vederla soltanto da lontano gli dava un grande dolore.

Dopo lo svezzamento, cominciò a nutrirla con carne che lui stesso cacciava, sino a quando un giorno Brina, così l'aveva chiamata a causa del suo manto argentato, cominciò a seguirlo nelle sue battute di caccia per i boschi, lo seguiva e lo guardava cacciare, silenziosa, come se stesse osservando sua madre cacciare. Ad Aleph la cosa non dispiaceva per nulla, anzi, dopo tanti anni da solo, più di 7, un po' di compagnia era esattamente ciò di cui aveva bisogno.

Solo qualche tempo più tardi Brina cominciò ad aiutarlo nelle sue battute di caccia, e dopo la prima volta che intervenne per aiutarlo a riprendere un cervo ferito ma non ancora morto, Aleph considerò l'idea di addestrarla a piccoli compiti. Di tempo a disposizione ne avevano, e quindi quando non cacciavano insieme si addestravano a lavorare insieme, sino a raggiungere un'intesa quasi simbiotica. Se il padrone faceva un gesto, Brina eseguiva un'azione, con tempismo e precisione perfetti. Aleph finalmente aveva trovato un'amica, una vera amica, una amica che sarebbe morta per lui.

E questo infatti si dimostrò pochi anni dopo l'averla trovata, Aleph aveva circa 18 anni, quando decise di andare a vendicare la morte della vera madre di Brina. L'enorme lucertola degli abeti l'aveva già vista in questi anni, l'aveva studiata e spiata mentre cacciava, e si era preparato a combatterla al meglio. La paura che provava lo faceva sentire vivo, mentre nascosto dietro ad un cespuglio osservava l'imponente bestia cercare cibo a diversi metri da lui. Era eccitato e concentrato sul da farsi, aveva lasciato al rifugio brina, per paura di perderla, e incoccò una freccia, una delle 5 frecce che aveva creato appositamente per lo scopo, scegliendo i legni più duri, costruendo la punta in un metallo quasi impossibile da lavorare, e imbevuta di un veleno letale a molte creature. Sapeva che non sarebbe bastato, ma almeno l'avrebbe indebolita o stordita, sperava.

Così il combattimento cominciò, e si svolse tutto secondo i piani di Aleph, aveva studiato alla perfezione il territorio, i movimenti della bestia e i punti migliori in cui posizionare le trappole. Tutto secondo i piani tranne un particolare: la bestia era ferita, tutte e 5 le frecce erano piantate in zone vitali, ma non solo ancora non era morta, si trovava inoltre sopra Aleph, bloccandolo con gli enormi artigli a terra, impossibilitato a muovere gli arti e ormai rassegnato a finire tra le fauci della lucertola. Fu in quel momento che comparve Brina, da dietro un cespuglio, con un ruggito di odio, assaltando l'enorme creatura alla gola e squarciandole le arterie principali, lasciandola a terra esangue e senza vita. Brina, con il muso ancora sporco di sangue, guardava Aleph con amore ed ammirazione, ed il ragazzo percepì l'enorme legame tra lui e l'animale. La lucertola era morta, la madre di Brina era stata vendicata, e dal cadavere raccolse diverse scaglie come trofeo; per se si creò un'armatura con quelle scaglie morbide e facili da lavorare, scure come la notte ma con strani riflessi rossastri, e per il puma ne prese alcune per creargli un collare simile alla sua armatura.

Con questi due trofei, e con una nuova intesa, i due tornarono alla capanna, e passarono altri tre anni di caccia e di viaggi per le terre selvagge, prima di scoprire, nell'ultimo loro viaggio, un luogo che nuovamente avrebbe cambiato la loro vita.

Capitolo V: Il Villaggio Dei Dannati

Quel viaggio li aveva portati ad un passo montano abbastanza facile da superare, per poi esplorare il vasto Mare Ardente, uno dei luoghi più inospitali delle terre conosciute, tanto da essere uno dei confini naturali del Regno dei ghiacciai perenni. Dopo pochi minuti di scalata, Aleph si rese conto che era troppo facile salire, e che si trovavano molti appigli che sembravano scolpiti nella roccia da altre creature, piuttosto che dal tempo. Una volta arrivati in cima, guardando verso il basso notò un piccolo sentiero che saliva lungo il crinale della montagna, e dopo diverse svolte superava il passo.

Incuriosito da ciò, decise di avvicinarsi meglio, ed una volta arrivato al passo notò del fumo provenire dal versante destro, ove si dirigeva anche il sentiero. Tuttavia, i primi attimi dopo il raggiungimento del valico non riuscì quasi a respirare: davanti a lui si stagliava un enorme mare in tempesta, solo che al posto dell'acqua c'era sabbia, e i fulmini che schiantavano sulle enormi onde sabbiose creavano lastroni di vetro, rompendosi poi in infinite schegge trasparenti simili a spuma di mare. La visione era così imponente e carica di energia che fece mozzare il fiato ad Aleph per diversi minuti, facendolo sentire davvero piccolo ed insignificante rispetto a tutta quella potenza. Le montagne al di là del valico invece di scendere dolcemente formavano una rupe di qualche miglio, e alle sue falde il mare sbatteva le sue onde ardenti contro le pareti ormai completamente erose dalla forza di abrasione di tutta quella sabbia. A poche miglia dagli scogli, Aleph notò che una strana imbarcazione veniva sballottata come una goccia di pioggia nell'uragano, che lentamente avanzava verso il dirupo dove lui si trovava. In pochi minuti il giovane sarebbe stato travolto da una tempesta come mai aveva affrontato sin ora, così si sbrigò a raggiungere il fumo che proveniva dal versante alla sua destra, nella speranza di trovare rifugio, ma guardingo per la paura di trovare un villaggio di Controllori.

Arrivato nei pressi della zona da cui proveniva il fumo, si rese conto che era impossibile che fosse abitata da Controllori: l'enorme bocca di una caverna era stata chiusa con grosse travi di legno segate con la sola forza delle braccia e qualche utensile, non modellate tramite il potere, e questa era sicuramente la prova migliore che potesse identificare la realizzazione dell'opera. Quindi si avvicinò con cautela verso la grossa porta di legno, incardinata alla palizzata tramite metallo lavorato come lo lavorava lui, altro segno della presenza di creature senza potere. Arrivato in prossimità di questa tentò di socchiuderla per vederne l'interno, ma sfortunatamente era chiusa, probabilmente da un pesante chiavistello, e quindi si ritrovò dinnanzi alla scelta di affrontare l'uragano o bussare il più forte che poteva nella speranza che gli aprissero. Valutando le possibilità di riuscire a sopravvivere alla prima opzione, decise che tentare non sarebbe costato nulla, così, con Brina che gli si stringeva alle gambe spaventata dai tuoni, bussò il più rumorosamente possibile alla porta, aspettando poi risposta dall'interno. Dopo qualche secondo, un rumore di legno e metallo precedette l'apertura della enorme porta, da cui uscì un vecchio con barba e capelli lunghi e sporchi, vestito con abiti più simili a stracci, e con la pelle del viso dura come cartapecora essiccata al sole. Dalle due fessure che erano gli occhi si leggeva sorpresa ed interesse in quello strano e sconosciuto ragazzo così giovane, ed un leggero timore per il puma accanto a lui.

“e tu chi saresti?” chiese il vecchio al giovane, con una voce acuta ed un accento molto particolare, che rendeva difficile capirne le sfumature. “non dirmi che sei uno di quelle sporche pulci che infestano le zone montuose perché se è così ti ammazzo qua con le mie stesse mani” e dicendo questo agitò un lungo bastone con una punta di ferro.

“la prego, mi faccia entrare, sta per arrivare una grossa tempesta, e non so come fare a ripararmi. Guardi le mie scarpe, non sono un Controllore, sono nato Morto, come voi, ed ho bisogno di ripararmi” rispose il ragazzo. “non voglio fare la fine di quella.. cosa laggiù!” e voltandosi indicò l'imbarcazione, che proprio in quel momento fu investita da un fulmine che la incenerì in pochissimi istanti, e le onde di sabbia la sommersero ad una ad una, senza lasciarne più alcuna traccia.

Dopo un istante, in cui sembrava stesse per sgorgare una lacrima dai profondi occhi del vecchio, quest'ultimo lo prese per un braccio, e lo trascinò dentro con vigore. Con voce un po' più roca gli chiese il nome, e poi gli disse di aspettarlo li per qualche minuto, mentre andava a chiamare il capo del villaggio. Tornò dopo pochissimi istanti accompagnato da un altro uomo più giovane e robusto, di bell'aspetto e con abiti leggermente migliori.

“..é così, Ronald, l'ho visto con i miei occhi, l'imbarcazione di Cese non ce l'ha fatta..” stava dicendo il vecchio al giovane, appena entrati nella stanza. “ah, e questo è il ragazzo di cui ti ho parlato, insieme al suo puma. Dice di chiamarsi Aleph, ma questo nome non mi dice proprio nulla. Credo sia il caso ci parli tu stesso. La bestia sembra docile, non dovrebbe dare problemi..”.

E così conobbe Ronald, capo del villaggio di Rupeardente, uno dei pochissimi villaggi di “selvaggi” rimasti ancora in vita. Dopo l'Inquisizione e la morte di buona parte dei loro simili, un piccolo gruppo di uomini era riuscito a sopravvivere sino ai confini del Regno dei Ghiacciai Perenni, e si erano stabiliti dentro questa grotta, al di fuori di essi, per essere sicuri di non essere scoperti. Pochi altri villaggi erano sopravvissuti, un altro paio lungo la costa del Mare Ardente, ovvero l'enorme distesa di sabbia che si stendeva a perdita d'occhio da li in poi, e un altro paio di insediamenti si trovavano poco più a nord, dove il deserto diventava palude, una zona che chiamavano la regione dei laghi. Questa comunità si basava principalmente sul presupposto che tutti si devono aiutare a vicenda per superare l'asprezza della vita in quel posto, pescando nel grande Mare Ardente per procacciarsi il cibo, raccogliendo le acque che scendevano dai monti per poi andare ad evaporare in fondo al dirupo, poco dopo aver toccato la sabbia.

A dire il vero, Aleph trovava difficile pensare cosa pescassero in quel mare di polvere e sabbia, ma presto lo avrebbe scoperto. Dopo aver raccontato la sua, di storia, al ragazzo fu permesso di uscire dalla piccola stanza che fungeva da alloggio per il vecchio e da guardina, e si trovò di fronte ad uno spettacolo che dopo il mare di sabbia sembrava poco più che interessante, ma in altri momenti sarebbe rimasto a bocca aperta: centinaia di piccole capanne erano ammonticchiate su vari piani della grotta, sviluppata ad anfiteatro a gradoni, illuminata da piccole torce disposte ovunque, simili a tante stelle tremolanti nell'oscurità. Diverse persone camminavano come tante formiche nei meandri di un formicaio, dando un senso di vita a tutto l'insediamento che mai Aleph aveva notato, e questa sensazione quasi nuova, che da anni non provava, non gli dispiaceva affatto.

Il fumo che l'aveva attirato da quella parte fuoriusciva da una piccola apertura nella parete di assi che fungeva da barriera per le intemperie del mondo esterno, e proveniva in gran parte da una struttura abbastanza grande nella zona a destra rispetto a lui. Altre strutture in muratura erano visibili sparse nel villaggio, ma la maggior parte era costruita in assi di legno inchiodate, cosa che gli ricordò ancora una volta il piacere che il costruire e montare oggetti di uso comune gli provocava.

Così, gli affidarono una capanna ormai rimasta disabitata, poiché i vecchi possessori si trovavano su quell'imbarcazione che poco prima aveva fatto una brutta fine, ed essendo abituati a problemi di alloggi ci impiegarono davvero poco a svuotarla e a renderla abitabile per Aleph e Brina. Gli affidarono il compito di trovarsi un lavoro, entro qualche giorno: nel frattempo gli sarebbero stati dati cibo e alloggio e avrebbe potuto fare conoscenza con gli abitanti. Col tempo avrebbe persino potuto farsi una famiglia. Ma ora l'importante era trovare qualcosa da fare per rendersi utile alla comunità, che l'aveva accolto con piacere materno tra le sue mura.

Passò ben cinque anni in quel villaggio così particolare, facendo un po' di tutto, dal pescatore di coleotteri giganti all'aiuto fabbro, e si fece diversi amici, anche se nessuno prese mai il posto di Brina, considerata come una sorella e compagna di avventure. Buona parte del suo tempo, tuttavia, lo passava sulle tavole a vela, ovvero uno strano mezzo di trasporto utilizzato più che altro come divertimento che come trasporto vero e proprio: si trattava infatti di tavole in metallo della lunghezza di circa due metri, con sopra montata una vela di pelle di bufalo, ed il divertimento stava nel riuscire a mantenerlo in equilibrio scivolando sulle onde di sabbia del deserto, ma poteva essere utilizzato per viaggiare lungo la costa, per raggiungere gli altri due villaggi, o per compiere acrobazie sulle onde più alte. Il difficile stava invece nel risalire sulla tavola nel caso si scivolasse nella sabbia finissima, che rendeva difficili tutti i movimenti e potenzialmente letale ogni singola caduta. Aleph trovava questo passatempo piacevole e stimolante, nonché utile per viaggiare ed esplorare il deserto con tutti suoi luoghi più distanti, e una volta presa confidenza con la tavola a vela si esplorò un vasto territorio del Mare Ardente, fermandosi di tanto in tanto su piccoli scogli solidi, dove poteva riposarsi, o anche passare la notte in caso facesse viaggi di qualche giorno.

Scivolò tra le lame dell'arcipelago del coltello, ove i fulmini ed il vento avevano trasformato il deserto circostante in una foresta di lame di vetro molto fitta, e quindi molto difficile e pericolosa da esplorare; navigò a fianco degli enormi vermi corazzati; carezzò il tappeto di cristalli, una strana formazione cristallina che faceva somigliare certe rocce piatte pelose e morbide come ricoperte di pelliccia; attraversò il cimitero dei titani, una zona dove il Mare Rovente aveva sepolto centinaia di scheletri di animali ormai estinti, le cui casse toraciche formavano ampie e silenziose sale; ed ogni volta che tornava da un viaggio Brina era sempre li, pronta ad aspettarlo, magari con qualche dono cacciato nella foresta vicina, e lui le portava piccoli oggetti curiosi che poteva attaccare al collare in scaglie della lucertola degli abeti. Era davvero una vita piacevole: spesso tornava nella foresta a riprendere dei trofei, con il quale addobbava la sua nuova casa, perché finalmente, per la prima volta, si sentì davvero a casa, con gente uguale a lui, che lo apprezzava e lo stimava tanto quanto lui stimava loro.

Fece conoscenza con buona parte del villaggio, anche se durava molta fatica a farsi dei veri amici, poiché la vita nella foresta lo aveva formato schivo e silenzioso, quindi l'unica creatura che davvero gli stava accanto era Brina, che non lo lasciava mai, ovunque andasse. Si comportava davvero bene, non era violenta, per quanto a caccia si dimostrasse un più che valido aiuto, ed in città tutti l'adoravano: si lasciava coccolare e viziare da tutte le ragazze, rendendola molto popolare tra di esse, cosa che leggermente infastidiva Aleph, nella sua timidezza, ma che in fondo in fondo non gli dispiaceva affatto di poter passare dei pomeriggi a fare due chiacchiere con delle belle giovani donzelle mentre Brina si lasciava carezzare sulla pancia e rotolava allegra sul terreno. In poche parole, a fare amicizia non era tanto lui, quanto il puma che si faceva viziare e faceva le fusa a chiunque mostrasse un minimo di interesse in lei. Notò che questo cambio di residenza piaceva molto anche a Brina, e questo gli fece molto piacere, poiché le preoccupazioni iniziali erano proprio che non riuscisse ad ambientarsi.

La vita di Aleph continuò così tranquilla e felice sino al suo ventitreesimo compleanno, quando L'ombra si abbatté su tutto il regno, ed ancora una volta, tutta la sua vita cambiò in pochi giorni.

Capitolo VI: L'Ombra

Il giorno in cui la gente cominciò a notare l'ombra, Aleph stava dando una mano al porto, ovvero una piccola caverna a livello del Mare Rovente, ove erano riposti i catamarani solcasabbia con cui normalmente gli uomini del villaggio si spostavano. Impercettibilmente, la luce del sole, una dolorosa costante in quel luogo, andò scemando, ma non a causa del tramonto del sole, semplicemente quest'ultimo si stava spegnendo, troppo lentamente perché gli abitanti del paese, e a dire il vero di tutto il continente, se ne accorgesse in tempo per fare qualcosa. Non che potessero fare qualcosa, sia chiaro, per riuscire in queste imprese erano necessari i Controllori, ma ormai, quando la gente si accorse che faceva freddo, e che non c'era più la luce di qualche tempo prima, e che le bestie si comportavano in maniera strana, era troppo tardi.

Il sole si stava spegnendo, e con esso la vita su quel mondo. E nessuno poteva farci nulla. Fu deciso di inviare una spedizione diplomatica dai Controllori, per sapere se c'era modo di fermare questo evento che avrebbe portato a morte certa tutti loro, ed Aleph si sorprese di offrirsi volontario per andare nella capitale del Regno dei Ghiacciai Perenni. Oltre a lui c'erano Ronald, il capo del villaggio, e Verrot, uno dei vecchi saggi, oltre ovviamente a Brina. insieme si prepararono ad affrontare la foresta dove Aleph aveva vissuto, e che quindi conosceva molto bene. Portavano il simbolo di Selene, la divinità di entrambi i popoli, come simbolo di pace e di fratellanza.

Una volta giunti nei pressi del tempio di ghiaccio, ove l'ignaro Aleph era nato, notarono che le cose non andavano tanto bene, anzi, un scia di fumo proveniva dalle macerie del tempio, ormai quasi completamente disciolto dalle fiamme che si alzavano al cielo. A quella vista, subito capirono che quello che per loro era un problema futuro, per i Controllori il grosso del problema era già avvenuto.

Non solo il sole aveva perso vita, ma anche i Controllori avevano gradualmente perso il controllo sul potere, e questa assenza aveva lasciato che forze oscure scivolassero come un tumore dentro le menti di coloro che non erano stati in grado di accettarla, modificando il loro corpo oltre ai loro istinti. Bande di esseri simili a bestie, con ancora indosso i vestiti adornati di quando erano ancora umani, razzolavano in giro in cerca di prede da uccidere violentemente senza alcuno scopo preciso. La follia aveva preso di mira i soggetti più deboli, che si erano poi scagliati contro coloro che avevano invece mantenuto la ragione, ma perso comunque i propri poteri, ed era quindi caduto sotto i possenti colpi dei loro simili tramutati dalla follia.

Così i quattro decisero di dividersi: Ronald ed il vecchio Verrot, per la sicurezza di quest'ultimo, sarebbero tornati indietro, mentre Aleph e Brina sarebbero andati avanti alla ricerca di qualcuno che avesse bisogno di una mano, o che potesse essere d'aiuto per la comunità. Ormai il sole era già debole, e nonostante le ombre non fossero lunghe come quelle del tramonto, poiché era circa mezzogiorno, una penombra inquietante avvolgeva la vallata, e le sagome di quelle creature una volta umane si muovevano quasi ovunque. Non fu facile per i due farsi strada tra di essi, ma lentamente avanzavano verso la prima meta che Aleph si era predisposto: la fattoria Biancarupe, dove era cresciuto da piccolo, nella speranza di trovare sua madre ancora viva, sempre che non si fosse mutata in una di quelle orribili cose che scorrazzavano senza meta per tutto il bosco.

Nonostante fossero quindici anni che non passeggiava per le vie di quel luogo, ad Aleph tornarono in mente tutti i suoi ricordi più vecchi, e di improvviso le rovine che erano rimaste della fattoria tornarono a vivere per un istante, come un tempo, con l'erba verde, il sole luminoso, i suoi compagni che correvano in giro per le piazze mentre i genitori li inseguivano svolazzando ed urlando di fermarsi. Poi tutto tornò subito in fiamme, con cadaveri di gente cosparsi per tutto il selciato. Non smise di camminare sino a davanti casa sua, anch'essa in fiamme, e totalmente deserta. Non vide sua madre, né pezzi di essa, e pensò allora che qualche possibilità di ritrovare Alina poteva esserci ancora. Non era una donna debole, al contrario, era una donna molto forte, e questo la doveva aver salvata dalla follia che aveva invece preso tutti gli altri. Sapeva bene dove poteva essersi rifugiata, e sapeva anche che il cammino non sarebbe stato facile, poiché sarebbe dovuto salire su in cima al monte soprastante per raggiungere il tempio di ghiaccio, quasi del tutto dissolto dall'incendio che aveva visto arrivando sin li.

Così, sempre affiancato dalla fedele Brina, cominciò la scalata, non priva di pericoli, e quando raggiunse la cima era ormai notte, illuminata dalle vivide fiamme che solcavano il cielo ancora più nero del solito. Sembrava che oltre al sole, tutte le stelle del firmamento si stessero spegnendo, ormai appena percettibili nel buio della notte. Arrivato ai cancelli di ghiaccio, notò che c'era del movimento, sia all'esterno che all'interno. Alcune sale erano rimaste integre, buona parte della struttura a dire il vero, mentre la cappella era completamente disciolta, lasciando una sagoma a forma di mano con le dita di ghiaccio rivolte verso il cielo; all'esterno, alcune bestie un tempo Controllori tentavano di sfondare la porta di cristallo, apparentemente senza successo, mentre dentro si trovavano delle persone che tentavano di sbarrarla in maniera del tutto inefficace.

Non fu difficile disfarsi degli esseri fuori dalla porta, era abbastanza lontano, e anche brina gli dava una mano contro quelli che si avvicinavano troppo. Quindi, giunto al portone, urlò di farsi aprire dalla gente all'interno. Dopo un secondo di sorpresa nel sentire una voce umana, in mezzo a tanti ringhi e ruggiti, corsero immediatamente ad aprirgli. Le figure contorte dalla semitrasparenza del ghiaccio si stagliavano con lo sfondo delle fiamme, mentre rimuovevano il mobilio dalla porta per aprire il portone. Una volta sgombro, la figura socchiuse la porta sbirciando fuori, ed Aleph si trovò di fronte a sua madre Alina. Quell'istante si cristallizzò, diventando minuti interi, ore intere. Ma non era il momento di stare a perdere tempo, ed il ragazzo, assieme a Brina, si buttò dentro quasi travolgendo la madre.

Notò che non era l'unica rimasta viva, assieme a lei cerano una decina di persone tremolanti raggomitolate nell'angolo più lontano dalla porta. Alcune di esse vestivano con i colori della famiglia reale, ricordava Aleph, ma in quel momento l'unica cosa che gli interessava era la madre, Alina, che stava in piedi accanto alla porta. Lo scambio di abbracci fu breve ma intenso, il ragazzo, in lacrime, non credeva davvero di poterla ritrovare viva, mentre lei era ormai convinta che fosse morto. Dopo i primi saluti e scambi di abbracci, Alina si mise subito a tastare il petto del ragazzo, come se cercasse qualcosa. Ed in effetti qualcosa trovò: tirò fuori il medaglione del ragazzo, che lei stessa gli aveva regalato e che lui non aveva mai perso in tutti questi anni. Inizialmente da piccolo, dopo essere scappato, aveva numerosamente lanciato via il ciondolo per la rabbia contro sua madre, passando poi giornate e nottate intere a cercarlo, finché non lo trovava per terra sotto una felce, o nel nido di una gazza ladra. Mai si era separato davvero dell'unico ricordo di sua madre.

Una volta trovato, ad Alina si accesero gli occhi con la fiamma della speranza: gli disse che quello era l'unico modo per salvarsi, anzi, per salvare tutto il loro mondo. Era un antico artefatto, nessuno ha mai capito chi l'avesse costruito, e sul suo utilizzo ci sono solo delle teorie: secondo alcuni esperti, questo medaglione dovrebbe avere una magia tanto potente da riuscire a rompere l'incantamento di protezione che gli antichi lanciarono su tutto l'universo, ovvero quello per tenere al di fuori di esso le divinità, ma anche quello che impediva a loro di uscire da quella dimensione per raggiungerne altre. Ovviamente, queste erano solo supposizioni, fatte anche su leggende non certe, fatto sta che quell'amuleto avrebbe permesso ad Aleph di attraversare la barriera, per trovare una soluzione a tutto questo, e poi rientrare. In questa dimensione, invece, i pochi sopravvissuti stavano già svolgendo un portentoso rituale, con il poco Potere rimasto, tentando di prosciugarlo tutto per riuscire a fermare il tempo sino al suo ritorno. In teoria, se tutto fosse andato secondo i loro piani, sarebbe rimasto tutto immobile sino a quando una persona non sarebbe rientrata nella dimensione, e visto che nessuno era a conoscenza del loro reame, o meglio era stato dimenticato ormai da molti millenni, nessun altro oltre ad Aleph avrebbe tentato di rientrare attraverso la barriera di protezione. Ma dovevano fare in fretta, poiché il rituale per fermare il tempo era quasi concluso. Senza di Aleph, gli spiegò la madre, il rituale sarebbe stato compiuto comunque, sperando che qualcuno, casualmente, anche tra decine di millenni, riuscisse ad entrare e magari a fermare tutto questo. Si sarebbero cristallizzati in una tomba di eterno silenzio, senza che nessuno se ne potesse accorgere. Quindi la sua presenza proprio in quel momento era stata propiziatoria, quasi eccezionale, visto che era l'unico al mondo in possesso del gioiello.

Aleph, stordito dalla mole di informazioni ricevute, e fattosi carico in pochi istanti della responsabilità di salvare un pianeta, fu trascinato dalla madre nella cappella, proprio lì ove era avvenuto il rituale dell'acqua e del fuoco. In mezzo alla sala, circondati da fiamme che scioglievano pezzi di pareti, stavano in piedi cinque inquisitori, che recitavano formule antiche come le montagne e potenti come l'oceano, facendo gesti all'unisono e ignorando tutto quello che li circondava. Alina spinse Aleph, seguito subito da Brina, al centro del cerchio delimitato dai cinque, e subito la gemma al centro dell'amuleto si illuminò di un blu intenso, e riuscì appena a sentire la voce di Alina sussurrargli “ci vediamo tra poco..” che tutto intorno a lui fu buio.

Nda: giusto per farvi capire quanto ero attaccato a questo personaggio, nell'ultimo mese un gatto fa parte della famiglia, ed il suo nome è Brina.. XD

Inviato

Si legge in maniera molto piacevole. Complimenti. :)

ti ringrazio! ^^ a rileggerlo ho trovato dei punti poco chiari, e delle ripetizioni un po' fastidiose (soprattutto verso la fine), è una cosa che tento di risolvere da sempre e qualche successo l'ho ottenuto, ma è ancora presente..

  • 2 settimane dopo...
Inviato

Bravo complimenti.:-)

L'idea alla base della storia è veramente intrigante, invoglia con naturalezza alla lettura fino a coinvolgere il lettore. Ci sono alcune piccole imprecisioni ma non ci si fa caso visto che la storia gira molto bene.

Molti concetti sono assai maturi, come la paura della diversità e il conseguente tentativo di emarginare ed eliminare ciò che erroneamente viene definito diverso. Argomento che però viene rivitalizzato mescolando le carte e facendo apparire esseri straordinari come "normali" e la normalità di Aleph, la nostra normalità, come straordinaria. Facilitando l'identificazione del lettore con il protagonista emarginato, che non è il classico predestinato con il super bla bla bla potere destinato...zzz...a salvare...zzz...il mondo.:D

Credo che tu abbia creato una bellissima ambientazione, non ti sei limitato a creare un semplice bg, ma hai creato un vero mondo con ampissimi margini per arricchire, virtualmente all'infinito, la storia. Spesso si trovano storielle buttate lì, la maggior parte direi, ma questa al contrario è veramente bella credimi.

Bravo, però è un peccato non sviluppare una trama così avvincente. Se fossi in te continuerei la storia. :yes:

Inviato

:eek: accidenti che bel commento, grazie!

sai che non avevo pensato a scriverne un continuo? in effetti, essendo il BG del personaggio una volta terminata la storia "precedente" alla sua entrata in scena la sua giocata sarebbe divenuta la sua storia.. ma in effetti non mi dispiace l'idea di continuarla, grazie!

Inviato

Anticipo che tendo a essere forse un po' troppo critico nel giudicare i racconti. Intanto ti commento un pezzo, mi dispiace se risulterò offensivo. Al massimo non commento più. ;-)

Capitolo I: Nato Morto

Ancora una volta, Alina era in ritardo, e mentre svolazzava in fretta per i corridoi intagliati nel ghiaccio ripeteva mentalmente la sua parte nella cerimonia di oggi. Odiava fare la parte della Morte anche normalmente, oggi che doveva farla per la nascita del primogenito della famiglia reale poi era completamente scombussolata. Superò una grande vetrata di ghiaccio, che dava sulla vallata innevata sottostante, e si fermò giusto un attimo per ammirare lo spettacolo che il suo regno aveva da offrirle. Si fermava sempre a quella vetrata, si imbambolava per minuti interi ad osservare minuziosamente ogni particolare della vallata, delimitata dal monte innanzi a quello su cui sorgeva la chiesa di ghiaccio dove lei viveva. Ma questa volta si fermò solo per pochi istanti, per poi riprendere il volo verso la cappella principale.

La sua parte in realtà era decisamente banale, doveva solo stare ferma immobile per tutta la cerimonia, ma la sua funzione era la più terribile che le potesse capitare: nel caso in cui il neonato fosse risultato Morto, ovvero senza poteri, l'avrebbero dato a lei, e lei l'avrebbe portato in una stanza apposita dove sarebbe stato soppresso in maniera “umana”, dicevano. È vero che erano diversi secoli che nella famiglia reale il neonato non nasceva Morto, e che quindi il sangue di questa era ormai purissimo, ma le leggi stabilite migliaia di anni prima non potevano essere infrante, e prevedevano la sua presenza alla nascita anche se superflua. Ovviamente, moltissimi dubbi annebbiavano la sua mente: e se il bambino nasceva comunque Morto? Non voleva più pensarci, ma in ogni istante questo interrogativo gli martellava la testa e le lasciava un'ombra cupa sul volto.

Arrivò infine davanti all'ingresso della cappella maggiore, e scese lentamente verso il terreno. Toccare con i piedi nudi il ghiaccio scolpito, per quanto magicamente reso tiepido, era una sensazione strana, che non provava mai da quando aveva compiuto 8 anni ed aveva imparato a fluttuare. Ma anche questo era scritto nelle leggi, tutti dovevano entrare camminando, tutti erano uguali di fronte a Dio, e così socchiuse la porta, sbirciando all'interno. Fortunatamente, la cerimonia non era ancora cominciata, anche se tutti erano presenti, ed il neonato stava arrivando proprio in quel momento, così si infilò all'interno della sala e si mise vicina alla porta, in piedi, accanto ad una distinta signora: la madre del piccolo, la regina Nivea del regno dei ghiacci perenni. Si scambiarono una occhiata veloce, e restarono in silenzio per tutta la cerimonia.

Cominciamo, allora.

1) Dire "oggi" e usare il tempo passato (remoto) non va bene. Se fai leggere i suoi pensieri può andare ma altrimenti no.

2) Distruggi gli avverbi "in mente". Decisamente e fortunatamente sono inutili. Se devi proprio dirli, mostrali. Mostra quanto sia banale il suo ruolo o quali punizioni avrebbe patito se non fosse arrivata in tempo. Se le scale le scende lentamente, mostra come le scende, lentamente non dice niente. Il normalmente e l'ovviamente appesantiscono il tutto e non comunicano niente. Osserva minuziosamente? Dicci ogni particolare che osserva, ci si arriva da soli che lo fa minuziosamente.

3) Completamente scombussolata non si può sentire. Scusami, ma no, proprio no. Mostraci che lo è, cosa fa, al massimo cosa pensa, non ce lo dire e basta.

4) Dici due volte che si ferma giusto un attimo. Togli l'attimo e mostra che vede di sfuggita le cose o simili, faccelo capire.

5) La frase sottolineata è proprio in più. Spezza l'azione e serve solo per dirci dove vive. Tagliala. Al lettore non gliene frega niente. In generale, tenti all'infondump, cioè al dirci cose che magari potrebbe anche essere interessanti, ma spezzano l'azione e addormentano Il lettore.

6) Non mettere troppi aggettivi e cerca invece di mostrare quello che semplifichi con gli aggettivi.

7) Ho dimenticato qualcosa.

8) In generale :

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Inviato

Cerca di migliorare alcuni aspetti della tua esposizione ma secondo me dovresti continuare lo sviluppo della storia. Quando trovi un'idea di base interessante sei quasi a metà dell'opera. Perciò continua mi raccomando. :)

Inviato

Anticipo che tendo a essere forse un po' troppo critico nel giudicare i racconti. Intanto ti commento un pezzo, mi dispiace se risulterò offensivo. Al massimo non commento più. ;-)

Cominciamo, allora.

1) Dire "oggi" e usare il tempo passato (remoto) non va bene. Se fai leggere i suoi pensieri può andare ma altrimenti no.

2) Distruggi gli avverbi "in mente". Decisamente e fortunatamente sono inutili. Se devi proprio dirli, mostrali. Mostra quanto sia banale il suo ruolo o quali punizioni avrebbe patito se non fosse arrivata in tempo. Se le scale le scende lentamente, mostra come le scende, lentamente non dice niente. Il normalmente e l'ovviamente appesantiscono il tutto e non comunicano niente. Osserva minuziosamente? Dicci ogni particolare che osserva, ci si arriva da soli che lo fa minuziosamente.

3) Completamente scombussolata non si può sentire. Scusami, ma no, proprio no. Mostraci che lo è, cosa fa, al massimo cosa pensa, non ce lo dire e basta.

4) Dici due volte che si ferma giusto un attimo. Togli l'attimo e mostra che vede di sfuggita le cose o simili, faccelo capire.

5) La frase sottolineata è proprio in più. Spezza l'azione e serve solo per dirci dove vive. Tagliala. Al lettore non gliene frega niente. In generale, tenti all'infondump, cioè al dirci cose che magari potrebbe anche essere interessanti, ma spezzano l'azione e addormentano Il lettore.

6) Non mettere troppi aggettivi e cerca invece di mostrare quello che semplifichi con gli aggettivi.

7) Ho dimenticato qualcosa.

8) In generale :

ma non rischia di diventare un po noioso? la mia idea era di creare un breve racconto, non un signore degli anelli. quando dico "si sofferma a guardare qualcosa" è perché non mi interessa che il lettore sposti l'attenzione sull'oggetto in questione, ma che mantenga la sua attenzione sulle azioni del personaggio..

grazie per i commenti, sono davvero utili! non sono per nulla esperto di "come scrivere un libro", e fanno comodo.. è praticamente il primo testo più lungo di due colonne che io abbia mai scritto, quindi che ci fossero "errori" di stile mi sembra il minimo!:)

tuttavia, quello che ho notato nel commento è che alla fine il primo capitolo (e tutti gli altri, in realtà, suppongo tu abbia analizzato solo il primo per comodità, ma immagino che gli altri siano praticamente nella stessa situazione) mi diventerebbe di pagine e pagine di descrizione.. cosa che invece volevo accuratamente evitare. ci sono punti in cui la descrizione è più dettagliata (per dire, nella parte del mare di sabbia), ma in questo capitolo volevo utilizzare una tecnica più stile romanzi "cyberpunk".. non so se hai presente come scrive Gibson, praticamente non spiega NULLA di quello che incontra, lascia fare tutto al lettore.. certo non mi paragonerò mai ad uno scrittore del genere, ci mancherebbe, però preferirei che fosse il lettore ad immaginarselo. io dico che sul tavolo c'è un oggetto, il lettore se lo immagina come preferisce. la porta è particolareggiata, ma è volutamente non mostrata al lettore per fare in modo che se la immagini come meglio crede..

mi rendo conto che è un po' "arrogante" come pretesa l'utilizzare questo stile, però pensi che sia venuto così male? perchè ingenerale dal commento non ho capito se ti è piacuto o no.. :B

- - - Aggiornato - - -

Anticipo che tendo a essere forse un po' troppo critico nel giudicare i racconti. Intanto ti commento un pezzo, mi dispiace se risulterò offensivo. Al massimo non commento più. ;-)

Cominciamo, allora.

1) Dire "oggi" e usare il tempo passato (remoto) non va bene. Se fai leggere i suoi pensieri può andare ma altrimenti no.

2) Distruggi gli avverbi "in mente". Decisamente e fortunatamente sono inutili. Se devi proprio dirli, mostrali. Mostra quanto sia banale il suo ruolo o quali punizioni avrebbe patito se non fosse arrivata in tempo. Se le scale le scende lentamente, mostra come le scende, lentamente non dice niente. Il normalmente e l'ovviamente appesantiscono il tutto e non comunicano niente. Osserva minuziosamente? Dicci ogni particolare che osserva, ci si arriva da soli che lo fa minuziosamente.

3) Completamente scombussolata non si può sentire. Scusami, ma no, proprio no. Mostraci che lo è, cosa fa, al massimo cosa pensa, non ce lo dire e basta.

4) Dici due volte che si ferma giusto un attimo. Togli l'attimo e mostra che vede di sfuggita le cose o simili, faccelo capire.

5) La frase sottolineata è proprio in più. Spezza l'azione e serve solo per dirci dove vive. Tagliala. Al lettore non gliene frega niente. In generale, tenti all'infondump, cioè al dirci cose che magari potrebbe anche essere interessanti, ma spezzano l'azione e addormentano Il lettore.

6) Non mettere troppi aggettivi e cerca invece di mostrare quello che semplifichi con gli aggettivi.

7) Ho dimenticato qualcosa.

8) In generale :

ma non rischia di diventare un po noioso? la mia idea era di creare un breve racconto, non un signore degli anelli. quando dico "si sofferma a guardare qualcosa" è perché non mi interessa che il lettore sposti l'attenzione sull'oggetto in questione, ma che mantenga la sua attenzione sulle azioni del personaggio..

grazie per i commenti, sono davvero utili! non sono per nulla esperto di "come scrivere un libro", e fanno comodo.. è praticamente il primo testo più lungo di due colonne che io abbia mai scritto, quindi che ci fossero "errori" di stile mi sembra il minimo!:)

tuttavia, quello che ho notato nel commento è che alla fine il primo capitolo (e tutti gli altri, in realtà, suppongo tu abbia analizzato solo il primo per comodità, ma immagino che gli altri siano praticamente nella stessa situazione) mi diventerebbe di pagine e pagine di descrizione.. cosa che invece volevo accuratamente evitare. ci sono punti in cui la descrizione è più dettagliata (per dire, nella parte del mare di sabbia), ma in questo capitolo volevo utilizzare una tecnica più stile romanzi "cyberpunk".. non so se hai presente come scrive Gibson, praticamente non spiega NULLA di quello che incontra, lascia fare tutto al lettore.. certo non mi paragonerò mai ad uno scrittore del genere, ci mancherebbe, però preferirei che fosse il lettore ad immaginarselo. io dico che sul tavolo c'è un oggetto, il lettore se lo immagina come preferisce. la porta è particolareggiata, ma è volutamente non mostrata al lettore per fare in modo che se la immagini come meglio crede..

mi rendo conto che è un po' "arrogante" come pretesa l'utilizzare questo stile, però pensi che sia venuto così male? perchè ingenerale dal commento non ho capito se ti è piacuto o no.. :B

Inviato

Vampir fa un editing che per il Fantasy italiano è detto oramai "alla Gamberetta" e che altrove è rimandato a Henry James. Show don't tell, pochi aggettivi, etc etc.

Non penso sia l'unica forma di editing che richiede il tuo racconto, ma è un buon punto di partenza.

Non devi intenderlo come "Descrivi tutto quello che succede", altrimenti come dici diventa infinito. Il consiglio non è su quanto tempo spendere su ogni scena, ma su cosa sia importante e cosa non lo sia.

Semplicemente in ogni frase in cui usi un avverbio fai una scelta: cancelli l'avverbio o lo sostituisci con un paragrafo più ampio in cui mostri. Se tu mi scrivi "La fatina osservò attentamente la scena" o "La fatina osservò la scena" non immagino la scena in modo differente, immagino una fatina che osserva la scena. Togli l'attentamente, è inutile. E l'effetto è molto più Gibson, togli il grasso e lasci il muscolo.

Oppure decidi che ti interessa che il lettore abbia una vera impressione su quanto attentamente osserva la scena la fatina. In questo caso descrivi. Questo fa immaginare al lettore una scena diversa dal semplice "la fatina osservò la scena", un effetto che la semplice aggiunta di "attentamente" non comporta. Se il punto di vista è sulla fatina, descrivi i particolari che lei sta osservando, la descrivi che muove la testa rapida e nota minuzie insignificanti. Se il punto di vista è esterno alla fatina, deve essere il personaggio che ha il punto di vista in quel momento a notare in primo luogo quanto attentamente stia osservando la fatina, e la descrivi a occhi fissi e bocca aperta, con la testa che si muove rapida per non perdere particolari.

Questo riporta alla gestione del punto di vista, relativamente solido nel primo capitolo su Alina (anche se in alcuni particolari la telecamera sembra andare su, verso l'onniscenza), più confuso nel secondo quando passa un po' traballante tra Alina e Aleph. Dovresti cercare di tenere il punto di vista fisso almeno all'interno del capitolo. O cambi la prima parte del secondo capitolo, togliendo i pensieri di Alina, o narri la seconda parte del secondo capitolo dal lato di Alina che guarda la scena, cambiando un po' la trama.

Ovviamente l'uso di fatine nell'esempio, parlando di Gamberetta, non è casuale.

Comunque mentre la gestione del punto di vista è abbastanza univoca e scevra di interpretazioni (saltare nel punto di vista tra un personaggio e l'altro è indiscutibilmente brutto), quando si dice "togli gli avverbi" ovviamente non è una regola univoca, ma un consiglio. Spesso sottovalutato, a volte sopravvalutato. Dopo averci riflettuto si può decidere che alla fine la scelta migliore è lasciarlo. Ma ogni avverbio usato richiede almeno di pensare un attimo alla domanda: posso toglierlo?

PS: l'idea del personaggio è molto bella!

Inviato

Aleph se hai scritto altre storie postale mi raccomando :).

Cmq come mi suggerisce un mio amico che scrive spesso articoli e lavora in ambiente accademico, l'importante è l'idea base, la scintilla che fa nascere la storia e che prende corpo quasi senza sforzo. Ovviamente sta allo scrittore la capacità di svilupparla, migliorarla e ricambiarla, arrivando quasi a stravolgerla completamente.

Se poi piacerà la tua storia ad un editore, sarà lui a correggerla e a renderla più adeguata ad una eventuale pubblicazione. Chi non sognerebbe di pubblicare un proprio scritto, sicuramente a me sì :).

I consigli nati in questa discussione torneranno molto utili pure a me, non si smette mai d'imparare e migliorare...come in tutte le cose del resto :D.

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