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Inviato

La storia di Edwin comincia nell'Amn dal quale, ancora ragazzino, partì in nave con i suoi genitori alla volta di Waterdeep. Il padre, Eric Thran, era un facoltoso mercante, e la famiglia si trasferì con lui. Edwin crebbe nell'abbondanza e nell'agio della Città degli Splendori, in mezzo alla media nobiltà ed alla classe mercantile. Edwin venne istruito sugli usi ed i costumi di una citta cosmopolita come Waterdeep, e imparò in fretta l’arte dell’ospitalità: l’inchino, il baciamano e il galateo. Non era però entusiasta di stare ore e ore seduto ad ascoltare i numerosi e noiosi ospiti che facevano visita alla sua famiglia, di stare composto e di essere vestito come un paggetto. In quelle occasioni la sua casa diventava una bomboniera, ostendando esageratamente la sua ricchezza. Per la sua famiglia infatti l'importante non era quello che si è realmente, ma quello che si appare.

Edwin non si sentiva a suo agio in quelle situazioni. Sicuramente non a suo agio come invece appariva sua sorella Sharlene, bellissima, ammirata da tutti, pettegola e decisa a sposarsi con grandi e ricchi uomini. Ella aveva la sciocca abitudine di girare per casa agghindata come un palo della cuccagna alla festa del paese. Edwin era proprio l'opposto.. con sua sorella condivideva solo una fine bellezza, anche se non poteva reggere il confronto. Egli imparò a leggere e scrivere molto presto. Spesso trascorreva le ore della sera nella biblioteca della casa, leggendo enormi e polverosi tomi. In particolare gli piaceva leggere di leggende (la sua preferita era “Boron, l’uccisore di draghi”), di posti sconosciuti, di antichi manieri, di città elfiche magiche sprofondate nell'oblio, di arcimaghi potenti e sognava di essere in quei posti o al fianco degli eroi dei racconti. Alle volte se una storia era avvincente, portava con sé più di una candela, così da poter leggere anche nel cuore della notte.

Era un ragazzo dai capelli lunghi biondi, che osservava la realtà con occhi vivaci, curioso di tutto. Già, i suoi occhi...l'unica pecca in un viso altrimenti bello. Un occhio azzurro ghiaccio e un occhio marrone scuro scrutavano tutto ciò che lo circondava. Edwin non lo ha mai considerato un problema, anzi ne andava fiero. Gli piacevano i colori. Ma non la pensavano così chi gli stava accanto. Guardarlo dritto negli occhi per più di qualche secondo era impossibile senza avvertire disagio e un brivido lungo la schiena. La gente mormorava di un demone che lo possedeva, e la prova era proprio il diverso colore dei suoi occhi. Non poteva essere altrimenti. Sua madre negli anni cercò aiuto in grandi sacerdoti e ciarlatani, spendendo grandi somme di denaro, per cercare di modificare quel difetto o di estirpare chissà quale presenza demoniaca, senza riuscirci. Edwin ne soffrì, e per questo motivo il suo “io” cambiò già in tenera età. Divenne duplice, come i suoi occhi. Da una parte alcune volte mostrava espansività, dall’altra un tormento interiore. La cosa però che lo realizzava maggiormente era dipingere. Nelle ore di luce lo si vedeva sempre insieme ai suoi pennelli, ai suoi colori e alle sue tele. Li custodiva come se fossero un tesoro. Amava sentire scorrere il pennello e i colori sulla tela, dare vita a qualcosa che prima non c'era. Mettere del colore sul bianco della tela, quello sì che lo entusiasmava. In questo modo riusciva ad esprimersi totalmente. Dipinse inizialmente dei ritratti della sua famiglia, poi passò ai paesaggi. Waterdeep era una città dai mille colori e offriva moltissimi spunti per i suoi quadri. Dalla finestra di casa immortalava i tramonti rossi e infuocati che si immergevano nel mare blu. Il verde del giardino di casa con l’oro e argento delle statue della dea Waukeen, adorata dal padre. Il nero profondo della notte in contrasto al pallido bianco della luna piena. L’intenso giallo dei girasoli, contro il grigio delle nuvole cariche di pioggia all’orizzonte. Dava un senso a ogni colore e prese l’abitudine di vestirsi con colori molteplici, attraverso i quali esprimeva anche il suo stato d’animo. La sua camera fu interamente tappezzata di quadri. Un ritratto di sua sorella venne davvero bene, e lei lo appese nella sua camera. Edwin ne fu lieto e capì di avere realmente una dote. Per questo motivo all'età di sedici anni prese una decisione. Avrebbe fatto della pittura il suo mestiere. Decise di andarne a parlare col padre, e per conquistare la sua fiducia fece anche a lui un ritratto, che lo ritraeva statuario e compiaciuto, circondato dalle sue ricchezze. Mise in quel lavoro moltissimo impegno e il risultato fu davvero notevole. La reazione del padre, però, non fu quella che si aspettava. Il padre andò su tutte le furie dopo aver appreso che Edwin aveva l’intenzione di divenire un artista e così scialacquare, secondo lui, tutto il patrimonio accumulato da anni di lavoro. Il suo futuro, a sua insaputa, infatti era già stato deciso: doveva mandare avanti il mestiere del padre. Doveva diventare anch’egli un facoltoso mercante così da mantenere in auge il nome della sua famiglia. Il dipinto che gli aveva donato fu fatto a pezzi e gettato nel camino. Stessa sorte ebbero i quadri della sua camera. L’unico a salvarsi fu il ritratto della sorella, che essa nascose in un baule. Edwin scoprì così quanto fosse doloroso vedere il proprio sogno spezzato e bruciato, e quanto fossero dolorose le bastonate e le percosse di settimane. Edwin soffrì ulteriormente ma serbò queste cose nella sua mente. Il giorno della sue entrata in affari sarebbe stato da lì a 6 mesi (poiché a quel tempo il padre stava seguendo, come disse lui stesso, “un importante affare con cui la famiglia avrebbe triplicato i suoi possedimenti”), in cui lo avrebbe seguito in un comune scambio di merci al porto di Waterdeep. La sera prima del fatidico giorno però successe una cosa inaspettata. Il padre di ritorno da un incontro notturno fu assassinato. L’unica traccia era una Z. Gli Zentharim. Le voci si rincorsero e più spiegazioni vennero ipotizzate: l’avevano tolto di mezzo per aver ostacolato i loro affari, era in combutta da anni con loro ma poi li aveva traditi, aveva visto qualcosa quella notte che non doveva vedere. Non si seppe mai la verità.

Il mondo della casata di Edwin crollò improvvisamente sulle fragili spalle della madre. La donna, abituata a vivere di rendita negli sfarzi e nel lusso, non aveva la minima idea di come mandare avanti casa Thran e cadde in depressione. Edwin cercò numerose volte di aiutarla, confortarla. Tutto ciò che otteneva erano solo parole amare e di disprezzo e presto diventò il capro espiatorio. La sua psiche cominciò seriamente a barcollare. Sei mesi dopo sua madre fece l’unica cosa che era in grado di fare: si risposò. Accettò di buon grado la proposta del calishita Cahlif Ambar, uno dei più facoltosi mercanti in affari con suo marito. Era un uomo dalla fame e dall’avidità inesauribile, ma anche dalla grande cultura. La sua dispensa e la biblioteca erano sempre piene di cibi e libri rari, che proveniva dai diversi angoli del Faerun. A questi ultimi Edwin si accostò e si dimostrò sempre più interessato agli studi antichi e scientifici, in special modo agli antichi tomi arcani che invecchiavano nella libreria del mercante. Per assecondare questi interessi, non molto tempo dopo il raggiungimento dei diciotto anni, Cahlif sfruttò alcuni favori che gli erano dovuti per far accettare il ragazzo alla Torre del mago Khelben “Blackstaff” Arunsun, la più prestigiosa accademia di magia della città. Edwin accettò calorosamente la proposta del patrigno.

Edwin partì carico di aspettative, che non furono deluse. L’accademia era davvero un posto fantastico, ricco di magia, di colori e di conoscenza. Si impegnò tantissimo e i suoi sforzi vennero premiati. Fu considerato presto uno dei migliori allievi dei primi anni. Ma non è tutto oro ciò che luccica. Edwin all’interno dell’accademia non aveva amici ed era spesso oggetto di scherzi, scherni da parte dei suoi compagni o pestaggi da parte dei suoi invidiosi colleghi più grandi. I motivi del suo isolamento erano futili: dal fatto di avere il colore degli occhi diverso, della sua effemminata passione per la pittura, e per essere uno dei preferiti dai maghi insegnanti. Aveva una predilezione per gli incantesimi di abiurazione, i quali gli riuscivano spontaneamente, forse perché efficaci per difendersi da quegli episodi di bullismo. Così per Edwin passarono otto anni. Otto anni di studio, letture, sacrifici, lacrime, sudore, gesti ripetuti all’infinito fino alla perfezione. Le materie e lo studio dell’arte col passare del tempo si fecero sempre più difficili. Edwin cominciò a soffrire di emicranie e di insonnia, ma pur di riuscire al meglio, strinse i denti. Poi, un giorno in cui ebbe il permesso di tornare a far visita alla sua famiglia, fece una scoperta che fu la sua maledizione. Il suo patrigno aveva viaggiato con una lunga carovana nel selvaggio Chult ed era appena tornato con numerose e ricche mercanzie. Una di queste colpì particolarmente Edwin. In un’anfora di vetro erano contenute delle foglie finemente sminuzzate di una pianta misteriosa…sulla targhetta vi era inciso il nome: “erba degli dei”. Spinto dalla sua curiosità ne prese un’abbondante manciata e la portò con sé in accademia. Una sera tornò nei suoi alloggi allo stremo delle forze, dopo una giornata particolarmente intensa. Credendo fosse un semplice infuso di erbe aromatiche, si preparò una tisana con quelle foglie, sperando così di prendere sonno rapidamente. Non si aspettava di certo ciò che sarebbe successo di lì a poco. Gli effetti di quell’erba (una reale versione di quest’erba è simile alle foglia di coca, n.d.a.) lo rinvigorirono immediatamente. Inoltre gli donarono una lieve euforia e un aumento delle capacità mentali, che gli fecero pesare meno le giornate di studio. Inoltre nel tempo si accorse che quella tisana diminuiva temporaneamente il bisogno di dormire e di mangiare, cosa che gli lasciava più tempo per studiare anche di notte. Questi blandi effetti però, dopo numerose dosi, cominciarono a farsi sentire sempre meno e Edwin era consapevole che aveva bisogno di quell’erba miracolosa. Tornò a casa e si appropriò di tutte le foglie che c’erano e le custodì in una saccoccia per tenerle al riparo dall’umidità. Un giorno, dopo una lezione di alchimia gli venne in mente un’idea. Una di quelle idee che non dovrebbero essere portate avanti. Il maestro aveva fatto vedere come si potevano estrarre i succhi o gli oli essenziali dalle piante, attraverso l’uso di alcune pozioni e solventi. Edwin aspettò il calar della notte per scendere nei sotterranei della torre riservata agli studi alchemici. La torre dall’esterno era praticamente imprendibile, difesa dai migliori incantesimi, ma si era accorto che la maggior parte degli insegnanti, occupati dalle loro ricerche, non chiudevano mai quelle aule, e si preoccupavano soltanto di sigillare ermeticamente i propri alloggi dove ricercavano nuovi incantesimi. Percorse il corridoio in pietra, passando sotto un arco. La porta che cercava era proprio lì. Edwin la trovò aperta, e si meravigliò nuovamente dell’ inesistente livello di protezione, abbozzando un sorriso. In effetti si disse che un semplicissimo incantesimo di apertura delle porte avrebbe aperto qualsiasi porta chiusa e una goccia di acido avrebbe fatto saltare un lucchetto. I maghi poi non avrebbero certo sprecato ogni giorno della magia per chiuderle. Entrò nel laboratorio e accese un piccolo lume, che rischiarava il bancone. Estrasse il contenuto della saccoccia e preparò gli ingredienti che erano utili. Non sapeva in che dosi usarli, perciò fece molti tentativi. L’alba stava sorgendo quando, dopo numerose prove, ebbe un risultato insperato: nel mortaio si formò una pasta marrone biancastra, che sembrava formata da cristalli grezzi. Non aveva un bell’aspetto, ma Edwin sentì l’impulso di provarla. Il sapore era davvero amaro, ma diede l’effetto che Edwin stava cercando, anzi molto di più. La sua mente fu come se si fosse aperta istantaneamente, gli incantesimi affioravano alla mente vividi e vide la realtà in modo diverso, con colori molto più accesi e nitidi, cosa che gli piacque immediatamente. Si sentì davvero come un dio, e tutta la stanchezza del giorno e della notte svanì. Euforico ne produsse ancora e portò via con sé il mortaio; era sicuro che con quell’aiuto avrebbe superato in potere i suoi maestri. Preso dalla foga non si preoccupò di rimettere in ordine gli attrezzi che aveva usato, lasciando il bancone, di solito ordinato in modo impeccabile dagli allievi, pieno di macchie e sporcizia. Accostò la porta, pensando di averla chiusa, e corse per raggiungere i suoi alloggi. Passarono un paio di mesi. Quella pasta era davvero portentosa e fu attento a non parlare con nessuno della sua scoperta. Era un segreto che doveva rimanere tale. Nessuno l’avrebbe mai scoperto. Non si era accorto però che la stava consumando velocemente, e infatti ormai la ciotola era quasi vuota dopo un mese e mezzo. “Devo farne dell’altra” era il suo pensiero fisso dopo una settimana in cui non ne aveva più assunta. In quei giorni si faceva sempre più aggressivo e molti si tenevano alla larga da lui, dicendo che parlava anche da solo o che si svegliava nel cuore della notte urlando, in preda a spasmi. Edwin decise che sarebbe tornato nel laboratorio a produrne ancora. Doveva per forza, non ne poteva fare a meno. Scese nuovamente nel cuore della notte e percorse in fretta il corridoio che lo separava dalla porta. “Devo farne dell’altra, subito!” sussurrò a mezza voce. Passò sotto all’arco di pietra che era stato abbellito da due statue dalla forma demoniaca. “Alcuni maghi hanno un senso del gusto davvero orrendo” pensò. Entrò come un uragano alla ricerca delle componenti da usare. Le mani gli tremavano per lo sforzo di velocizzare i movimenti. Gli occhi erano dilatati dall’attenzione. Utilizzò tutte le foglie che erano rimaste e questo allungò il processo di produzione. Si accorse di aver fatto realmente tardi quando un raggio di luce tagliò la stanza e illuminò il bancone. “Ecco! Finalmente!”. Edwin fissò estasiato la pasta che riempiva il mortaio. Aveva preparato alcune fiale, le riempì all’orlo e le nascose nelle pieghe delle sue vesti. Una buona metà era ancora nella ciotola di marmo. Decise che l’avrebbe tenuta ancora per sé e che avrebbe riempito altre fiale nella sua stanza. Erano le 6 di mattina quando Edwin uscì dal laboratorio correndo a perdifiato su per le scale, non vedendo l’ora di pregustare gli effetti del suo preparato, di cui ormai sentiva incontrollabilmente la mancanza. Ne aveva una tremenda necessità. Non si accorse che le due statue dell’arco in pietra lo seguirono con lo sguardo. Una delle due si staccò dal suo piedistallo e prese il volo verso i piani alti della torre. I piani degli insegnanti. Edwin era quasi giunto al suo alloggio quando, alla fine di una rampa di scale, in un corridoio laterale e deserto, quasi si scontrò con Tygell, un borioso apprendista di un anno più grande. Era molto più massiccio dei suoi compagni, cosa che gli aveva procurato il soprannome di “mago panzone”. Era uno dei bulli dell’accademia ed Edwin era uno dei suoi bersagli preferiti. Con rapidità prese per la veste Edwin. “Toh! Guarda chi c’è a quest’ora del mattino! Edwin lo strambo…dove vai tutto solo?! Non sai che è pericoloso gironzolare per la torre?! Stavi andando come una signorina a dipingere l’alba?!” gli disse con un sorriso malizioso Tygell. “Lasciami andare, panzone!” gli urlò senza pensarci Edwin. Brutto errore. Tygell odiava quel soprannome. Due pugni arrivarono nello stomaco di Edwin che gli mozzarono il fiato e lo costrinsero a piegarsi. Nel farlo gli scivolò il mortaio dalle mani e cadde ai suoi piedi con un tonfo. “E questo cos’è, piccolo ladruncolo?” Chiese Tygell. “Adesso ti metti a preparare la colazioncina come una brava cuoca? E ha un odore disgustoso…sarà meglio buttarla, ma prima assaggiamola…” disse con ingordigia. Edwin era furioso e senza controllo. “Quel grassone non deve toccare la mia pozione o addio segreto!” disse una voce nella sua testa. Tygell intinse il suo dito grassoccio e prelevò una generosa dose della sostanza, per poi buttare a terra il mortaio. Stava per aprire la bocca quando sentì un grido pieno di furore. “NOOO!” urlò Edwin stralunato e dalle sue mani giunte partì un ventaglio dai colori dell’arcobaleno..Edwin sentì che il suo incantesimo era come se fosse più potente, e provò eccitazione. Tygell urlò dalla sorpresa e cadde a terra, senza un suono e con gli occhi annebbiati. Edwin, che ormai non era quasi più cosciente, con uno scatto prese da terra il mortaio e lo fracassò sulla tempia di Tygell, uccidendolo sul colpo. Il rosso acceso del sangue zampillò sulle sue vesti. Non si rese contò di quello che aveva fatto e pensando di averlo solo stordito, cercò di metterlo in un angolo. Edwin cercò di sollevarlo da terra, ma era troppo pesante. Per questo nella sua mente resa folle, cercò di far passare l’assassinio come un incidente. Fece rotolare il corpo sui gradini della scala in pietra e creò dell’unto sotto le scarpe e sui primi gradini della scala, così da simulare uno scherzo di un qualche apprendista sciocco, in tragedia. Poi si rinchiuse nel suo alloggio. Non si accorse che dietrò di sé lasciò delle macchie di sangue, che indicavano la via da seguire. Quasi senza fiato, masticò avidamente la pasta dal mortaio e gli effetti e la felicità nel volto di Edwin tornarono improvvisi. Ma quella felicità non durò a lungo. Dopo neanche un’ora tutti i maghi e gli apprendisti della torre erano in agitazione. Il corpo di un giovane mago era stato ritrovato senza vita in fondo alle scale. Quando si rese conto di quello che aveva fatto Edwin dapprima si paralizzò con lo sguardo perso, poi tentò la fuga, portandosi dietro lo stretto necessario. Ma era troppo tardi. Mentre stava chiudendo lo zaino, la sua porta venne aperta improvvisamente e un alto mago dal viso imperioso entrò. Dietro di lui, la figura demoniaca in pietra lo indicò e annuì al suo padrone, poi volò via. Edwin cominciò a tremare, si mise le mani in faccia per la vergogna e iniziò a piangere. Il mago che stava già preparando un incantesimo di verità, si interruppe immediatamente, ben conscio che non ce ne era bisogno. Edwin si ricorda tutt’ora le parole che gli disse il suo maestro: “Ragazzo, come hai potuto fare una cosa simile? Pensavi davvero di ingannare chi ha molti più anni e potere di te? Sei uno stolto! Il solo fatto di essere entrato senza permesso nel laboratorio nella notte, equivarebbe all’allontanamento dall’accademia. Ma dopo quello che hai fatto sarai bandito da questa torre e non potrai mai più farvi ritorno!”. Il mago non disse mai chi fu il vero colpevole, se non ai maghi più potenti, suoi pari. La torre non aveva bisogno di una pubblicità infamante, ma essere sempre un faro di conoscenza per Waterdeep. Edwin si ritrovò così per strada. Non tornò mai a casa, forse per vergogna, ma forse perché sapeva che non lo avrebbero mai più accettato. L’ultima sua ipotesi era quella giusta: sua madre, appena ricevuta una lettera dalla Torre, bruciò la sua vecchia stanza ed eliminò il suo nome dai ricordi e dalla genealogia. La casata Thran non sarebbe stata ulteriormente macchiata. Così Edwin fu dimenticato a Waterdeep ed egli non utilizzò mai più il suo cognome. Prese a chiamarsi Edwin “lo strambo”, così da ricordarsi cosa aveva fatto, e si tagliò i capelli. Prese a vagabondare per alcuni settimane, distrutto quasi ormai totalmente dalla sua stessa pozione, di cui non poteva fare più a meno. Viaggiando con una carovana arrivò a Baldur’s Gate in un paio di mesi, pagandosi le spese con un lavoro improvvisato di scriba per le missive. In quella grande città, il suo corpo e la sua mente cedettero definitivamente. Era da troppo tempo infatti che non assumeva più la sua droga. Il suo corpo fu scosso da tremiti sempre più violenti, mentre la sua mente era in preda a psicosi e a paranoie. La sua vita si stava per spegnere in uno dei tanti vicoli di Baldur’s Gate e l’ultima cosa che vide furono dei nastri rossi che dondolavano davanti ai suoi occhi, poi tutto si fece nero. Sentì il suo corpo sollevarsi e pensò che la sua anima si fosse innalzata in cielo. Gli parve di udire la voce di un angelo che diceva: “Presto, portate questo fratello sofferente al tempio!”. Poi, più nulla. Si risvegliò una mattina, su di un giaciglio di paglia e foglie. La prima cosa che vide fu il sorriso di una donna che gli cambiava le bende sulla fronte. La voce era così lontana…gli disse che aveva dormito 5 giorni senza svegliarsi e che era stato molto fortunato. Nei giorni seguenti si riprese quasi del tutto e dopo una settimana era di nuovo in piedi. Il chierico che gli salvò la vita in quel vicolo disse che il suo corpo era contaminato da un veleno insidioso, una droga potente, che fu difficile da estirpare. Edwin pagò le cure, stando al servizio del tempio, offrendo i suoi servigi come scrittore di missive e lettore. Nella biblioteca del tempio riscoprì la sua passione per la conoscenza e si avvicinò al credo di Oghma, anche se definirlo un suo fervente seguace è sicuramente eccessivo. Un anno dopo decise di andarsene. II suoi viaggi non avevano una meta, e i suoi piedi lo portavano ovunque c’era qualcosa di nuovo da conoscere. Viaggiò per anni, da solo o in compagnia in diverse città della Costa della Spada, coltivando gli studi arcani e riscoprendo il suo amore per la pittura. Dapprima gli risultò difficile, per via dei tremori alle mani, una conseguenza dall’abuso di droga, e gettò diverse volte la spugna. Ma superò anche questo limite e tornò a dipingere con lo stesso talento di quando era ragazzino. Iniziò inoltre una fitta corrispondenza, che continua tuttora, con una corporazione di maghi, gli iniziati dei sette veli, una società indipendente e poco conosciuta che come lui condivide la passione per la magia legata ai colori e per la conoscenza. Ora Edwin, è un uomo di 35 anni. Alcuni lo definirebbero un personaggio un po’ eclettico o pazzo: vestito in modo colorato, con gli occhi di colore diverso, con una tela per quadri legata allo zaino, che fuma nei momenti di riposo oppio e che parla spesso da solo (un’altra traccia lasciata dalla droga) o sghignazza con il suo gufo Anacleto, il suo famiglio, l’amico più fidato, trovato in un bosco. Forse un po’ matto lo è davvero. Quando a Edwin chiedono della propria vita, egli risponde enigmaticamente: “La mia vita doveva essere in bianco o in nero, ma a me piacciono i colori…” Lui, d’altronde, è Edwin “lo strambo”. La passione per la conoscenza e per la magia ha portato Edwin a viaggiare tantissimo e la sua ultima meta è stata il tempio di Cadderly, ”Fremente Mistero”, per osservarne la bellezza della costruzione e dei colori. Dopo pochi giorni, in cui ha potuto anche ampliare le sue conoscenze grazie ai testi raccolti dal chierico di Deneir, è ripartito. Suo compagno di viaggio in queste terre pericolose e abitate da orchi e altri mostri, è un mezzorco imponente dalla forza spaventosa. Edwin vede di grande utilità la sua alleanza, e per questo motivo lo paga come guardia del corpo.

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Inviato

Questo personaggio era Astaroth, un Forgiato Guerriero Discepolo di Dispater, piazzato in un'ambientazione custom in cui il male era stato scacciato in un angoletto del pianeta, mentre il bene regnava incontrastato nel restante vasto territorio. In origine lui era un essere superiore, al pari di un divinità minore, ma poi venne punito per un crimine non commesso, quindi la sua anima venne "smacchiata", e siccome distruggerla sarebbe stato troppo semplice ed una punizione troppo indulgente, la confinarono in un corpo né vivo né morto, anche se mortale.

<<Finalmente riaprii gli occhi.

Mi trovavo in una piccola stanzina buia, agghindata con ninnoli arcani e chincaglierie meccaniche.

Di fronte a me, un uomo, evidentemente provato da un lungo lavoro, ed accanto a lei una più giovane donna, con molta probabilità la sua assistente.

Il primo mi stava fissando con occhi spalancati, colmo di gioia e stupore, la seconda invece aveva un’aria mista di entusiasmo e odio, come se non fosse contenta di vedermi, ma la felicità dell’altro la rendesse partecipe.

I giorni successivi non furono piacevoli come quello del mio risveglio.

A quanto pareva, l’uomo non era del tutto contento di me. E, questo, in un certo senso, probabilmente allietava la sua apprendista: meno tempo avrebbe dedicato a me, più ne avrebbe avuto per lei.

Impiegai qualche giorno per rendermi conto realmente di cos'ero. Né uomo, né macchina, ma una cosa totalmente diversa e tuttavia identica a quelle due cose. Pelle di metallo, circuiti e ingranaggi al posto degli organi, ma dentro di me ardeva una fiamma vitale: qualcosa che pochi, da quanto mi venne detto, erano in grado di realizzare.

Passarono giorni, settimane, ed io rimanevo sempre dentro quel buio stanzino, visitato giorno e notte dal mio creatore e dalla donna. Da quanto potevo aver capito, egli trovava in me qualcosa di sbagliato, di inesatto nei suoi calcoli della mia creazione. Qualcosa non era andato secondo i suoi piani. Nel frattempo, io passavo le giornate leggendo libri ed armeggiando con i congegni che trovavo nello stanzino.

Un giorno, sentii dall'esterno un grande frastuono. Non avevo mai visto il mondo esterno, quindi non avevo idea del fatto che quello fosse il suono di una folla inferocita. Il mio creatore entrò di corsa dalla porta, e mi intimò di andarmene, agitato. Ero confuso, ma seguii ugualmente ciò che mi diceva, e scappai da una finestra nel retro della casa. Per la prima volta, in questa vita, mi trovai libero, nel mondo esterno. Fuggii dalla casa, lontano, verso una meta ignota.

Dopo mesi di vagabondaggio, finii nel regno dei rinnegati. Non conoscevo nessuno, e molto poco del mondo, anche se apprendevo in fretta. Non avevo però uno scopo, un obbiettivo. Il mio corpo, profondamente diverso da quello dei mortali, non necessitava né di mangiare o bere, né di dormire.

Durante i miei viaggi, per evitare di essere scoperto, procedevo sempre celato da un mantello provvisto di cappuccio, mentre il resto del mio aspetto visibile (mani e piedi) erano facilmente confondibili per un paio di guanti e stivali d’acciaio. Un giorno, però, fui catturato da trafficanti di schiavi e venduto come attrazione per combattere in un’arena, un gladiatore. Venni soprannominato “guerriero d’acciaio”, anche se poi venni a scoprire, da quanto mi fu detto dagli artigiani dell’arena, che il materiale di cui ero rivestito era bensì mithril, e non acciaio. Un materiale decisamente raro, soprattutto nella quantità che mi rivestiva.

Combattei per mesi, e sviluppai ottime qualità come guerriero, seppure ad ogni combattimento mi ammaccavo sempre più. I fabbri provarono a risistemarmi, ma non riuscirono a fare granché, e gli incantesimi curativi non avevano il benché minimo effetto su di me. Un giorno si recò presso me un losco figuro, ammantato di nero, tenebroso, che mi chiese se ero interessato a raggiungere il potere. Gli risposi di sì, e mi disse di incontrarlo la stessa notte, nella sua “casa”. Seppure non mi fidassi di quell'uomo, raggiunsi comunque il posto quando il sole era ormai calato da ore, ed entrai in quella che appariva più una tana, che un’abitazione. Ci disponemmo all'interno di un circolo, tracciato con una polvere particolare, mentre l’uomo, ora ben visibile agli occhi, gesticolava e salmodiava in una lingua sconosciuta. Costui era ricoperto di strani tatuaggi, e di tanto in tanto qualche placca metallica gli spuntava dal corpo. Dopo qualche minuto, l’aria iniziò a farsi pesante, e qualcosa cambiò, in quella stanza. Le ombre sembrarono infittirsi, quasi divenire solide, e la luce divenne di un rosso sangue. Poi, all'improvviso, un'ombra più densa si stagliò tra le altre: un essere infernale. Rapidamente, la figura si fece più nitida, come scrollandosi di dosso le tenebre. La creatura, di una bellezza ultraterrena, una bellezza corrotta e immonda, fluttuava a pochi centimetri dal terreno fissando me e l'evocatore con i suoi occhi fiammeggianti. La sua candida pelle sarebbe sembrata perfetta, se decine di aghi e lame non la trafiggessero in più punti. Le sue ali piumate, nere come la pece, erano richiuse. Una catena chiodata lei si attorcigliata attorno al corpo, come le spire del serpente attorno all'albero dal quale poi calerà per infliggere il colpo mortale alla sua preda ignara. La sola vista del diavolo dalla femminea sembianza mi suscitò timore, mentre l'uomo che l'aveva evocata si esaltò, esultando in qualche strana e sconosciuta oscura lingua.

Dopo di che egli mi disse di inginocchiarmi davanti alla creatura infernale, che poi compresi essere un'erinni, mentre lui avrebbe concluso i preparativi terminali per completare il rituale. Ma io, che avevo immaginato i piani che l'incantatore aveva in mente ed in serbo per me, fui più lesto di lui, ed estratta la mia arma, gliel'affondai nel petto mentre lui s'avvicina a me con il coltello sacrificale sollevato sopra il capo, e lo trapassai da parte a parte. Il suo corpo cadde a terra, in preda agli spasmi, mentre la vita rapidamente lo abbandonava, lasciando sotto di sé solamente un'immensa chiazza di sangue, che macchiava ed interrompeva il circolo. L'erinni nel frattempo osservava divertita la scena. Voltandomi, la vidi avvicinarsi a me, e nel mio cuore crebbe il timore. Non osai neppure sollevare la mia spada contro di lei: la sua sola presenza distillava terrore, e l'evidenza della sua potenza era schiacciante. Essa, tuttavia, non tentò in alcun modo di farmi del male ed anzi si congratulò con me, per avere dimostrato di possedere malvagità e potenza superiore a colui che l'aveva evocata in questo mondo. Con voce suadente e sguardo irresistibile, mi convinse che il mondo aveva bisogno di essere epurato dai deboli, come l'uomo che ora giaceva a terra esanime. Coloro che seguivano la via del bene esaltavano la debolezza, anziché contrastarla, e in ciò si sbagliavano perché in questo modo permettevano che gli indegni trionfassero sui forti e i meritevoli, coalizzandosi con altri deboli ed infimi. Lei, insieme al suo signore diabolico, progettava di contrastare la via del bene, e mi propose di unirmi alla loro causa. Accettai il patto, e per suggellarlo ella mi offrì un'arma forgiata direttamente nel piano infernale, con la quale avrei dovuto massacrare i deboli e gli indegni, cosicché i forti potessero regnare con la loro superiorità incontrastata. Prima di tornare al piano da cui era venuta, mi bersagliò con un flusso di energia malefica, che mi rinvigorì e riparò tutte i danni che avevo subito fino ad allora.

Fu allora, che per la prima volta ricordare qualcosa di me stesso, ricordi ancestrali perduti tra le sabbie del tempo, svaniti per qualche assurda e inspiegabile motivo, che tuttora sto cercando di scoprire. Nel momento in cui le mie dita metalliche si chiusero sull'elsa di quella lama infernale quelle visioni giunsero, una consapevolezza di un passato dimenticato: in un luogo simile a nessun altro che avessi già visto; in lontananza sterminati eserciti di ogni forma, razza, pianeta, dimensione si affrontavano in quella piana; saette crepitanti, esplosioni ed altri incantesimi sfolgoravano costellando l'intero campo di battaglia di luci multicolore; una delle mie mani stringeva la stessa spada datami dall' erinni; ma, al tempo stesso ero e non ero io, giacché il corpo che abitavo mi appariva estraneo, anche se vagamente familiare. Quando tornai alla realtà possedevo nuove conoscenze, e una nuova consapevolezza. Da allora combattei strenuamente, diffondendo nel creato la verità che Dispater e i suoi servi mi avevano rivelato, contrastando il propagarsi della dottrina del bene, il veleno che stava ammorbando Iradien. E, a mano a mano che perseguivo quest'obiettivo, comprendevo sempre meglio ciò che una volta era stato, ma che sarei ritornato ad essere in futuro, un futuro vicino o distante, ma tuttora sono sicuro del fatto che un giorno diverrà il presente.>>

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Kjoldir Palathir, oracolo di Symbul

Nato a Helmsdale nell’anno 970, ha vissuto i suoi anni dell’infanzia in quella piccola città della provincia di Damara. Di umili origini, ha sempre vissuto in una realtà guerriera e mercantile, in cui non c’era spazio per la debolezza. Anche se non era portato per il combattimento, già da ragazzino dimostrava notevoli capacità, grazie alla sua devozione: lui credeva nella magia come potenza cosmica in grado di mutare il mondo. Nonostante il resto della sua famiglia e gran parte della popolazione adorasse Tempus, egli ha continuato a sperimentare i piccoli doni magici che era in grado di utilizzare fino al raggiungimento dell’età adulta; a 16 anni ha intrapreso il suo primo viaggio, fino a Tantras, nel Dragon’s Reach. Lì ha studiato la magia nella chiesa di Mystra, come dono della dea che gli aveva concesso questa grazia alle gente dei Faerun: Symbul. Entrò a far parte del clericato della dea e in meno di 10 anni era già un buon fedele, il fervore del suo credo dava i suoi frutti. Tra tutti i tipi di magia studiati, egli era più affine alla magia divinatoria, tanto che nessuno del suo ordine era in grado di eguagliare le sue capacità, eccetto il gran sacerdote di Tantras. Un giorno alla porta del tempio della dea si presentarono degli avventurieri, malconci e deliranti, e il clericato li accolse dando loro vitto e alloggio, curando le loro ferite. Quando furono ristabiliti, essi narrarono dei loro viaggi, delle loro imprese: avevano combattuto contro gli emissari di una dea malvagia, signora del vuoto e della disperazione, che intendevano espandere il dominio della loro divinità. Raggiunsero il santuario di Symbul perché questa dea non era altri che Shar, colei che diede vita alla Trama d’ombra, la versione malvagia della Trama magica creata da Symbul. Spinto da un senso del dovere nei confronti della sua dea, Kjoldir unì le sue forze a quelle degli avventurieri, e partì alla ricerca dei tanto pericolosi nemici. Anni di inseguimenti e ricerche, sostenute sempre dai poteri divinatori di Kjoldir, portarono infine alla scoperta del piano malvagio dei seguaci di Shar: essi volevano radunare alcuni artefatti magici per poter evocare una magia antica, più potente di qualsiasi magia mai concepita, per rovesciare la Trama rendendola schiava della volontà della loro dea. In sostanza volevano schiavizzare ogni forma di magia, asservendola alla dea dei segreti e delle tenebre. Nel mentre, il gruppo di avventurieri dovette affrontare molte sfide, ed il carattere di Kjoldir si temprò: non più solo un devoto di Symbul, per salvare la magia e la sua dea avrebbe dovuto combattere lui stesso, come fecero i suoi avi nel nome di Tempus. Ma dopo aver localizzato e bloccato il rituale profano, che si stava già svolgendo, riuscirono infine a contrastare ed annientare ogni minaccia per il potere della magia. Dopo quell’avventura, Kjoldir seguì i suoi compagni in altre spericolate missioni, finchè non decise di tornare alla chiesa di Tantras, ove ancor oggi vive, in preghiera ed adorazione della dea. Chiunque lo visiti può beneficiare dei suoi poteri

NOTE

Descrizione fisica: alto circa 1,85 m, barba e capelli biondo scuro che diventano bianchi quando usa una divinazione (fino al giorno dopo), occhi di ghiaccio che durante una divinazione diventano bianchi (senza iride né pupilla, effettivamente non può vedere materialmente intorno a sé mentre usa le divinazioni), ha un tatuaggio blu notte a forma di stella cerchiata a otto punte su una guancia, pelle chiara e corporatura possente; quando sono attivi su di sé gli incantesimi che solitamente si persistentizza, è alto quasi 3 m. e largo il doppio del normale, la sua pelle diventa più scura, ha delle ali piumate bianche con riflessi madreperlacei.

Mentalità: da giovane amava la magia, era la cosa al mondo che preferiva, uno strumento vivente con cui rendere il mondo un posto migliore. Tuttavia, non era dotato della disciplina adatta a studiare come mago, e non aveva le capacità innate di uno stregone: tutto ciò che era in grado di fare gli era concesso dalla dea della magia, che vedeva in lui un buon potenziale. La società in cui era immerso venerava Tempus, vedeva la sua adorazione per Mystra e la sua abnegazione della battaglia come un affronto ai valori del proprio dio, ed anche per questo rifiuto nei suoi confronti lui se ne andò dal suo paese d’origine. Giunto a Tantras ed entrato a far parte del clero di Mystra, ha imparato a vedere la magia come effettivamente è, una derivazione diretta della sua dea, un flusso che connette i fedeli alla volontà della dea. La magia non è più un mezzo per lui, ma parte integrante della sua vita, un vero e proprio valore seguire, rispettare e custodire. Partito per il viaggio con i suoi compagni avventurieri, ha imparato che la vita può essere molto più dura di come ce lo si aspetta, ed alla sua visione della fede e della magia ha obbligatoriamente aggiunto il valore della guerra, della battaglia. Questo suo ritorno alle origini, in un certo modo, ha risvegliato le doti sopite da guerriero che per secoli avevano sempre contraddistinto la sua dinastia, e quella della sua gente. In questo modo ha imparato anche a servirsi delle doti magiche per combattere le avversità, senza mai abusarne.

Famiglia: suo padre morì quando era un ragazzo, in un’imboscata degli orchi, e nella sua famiglia rimase sua madre con i suoi fratelli. Da quando è partito per andare a Tantras ha avuto solo un’occasione di tornare a casa sua, in cui ha rivisto la madre ed i suoi fratelli, alcuni di loro con le rispettive proprie famiglie. Nonostante la distanza posta tra di loro negli anni, Kjoldir con la sua famiglia è sempre rimasto in buoni rapporti. Suo zio Nevrastor fu colui che lo accompagnò a Tantras.

Amicizie e relazioni: quando era ragazzino ha sempre avuto pochi amici, per via della sua indole troppo mite. Quando è entrato a far parte del clero ha stretto molte amicizie, sia con persone simili a lui, sia con altre totalmente diverse, tutti accomunati dalla stessa passione per la magia. Al momento di unirsi agli avventurieri, in futuro suoi compagni, ha trovato in principio alcune difficoltà. Tutti loro erano sempre pronti alla lotta, allo scontro, e temprati dalle battaglie, mentre lui non aveva alcuna esperienza. L’unica che lo capì meglio degli altri fu Kaitlin, una giovane mezzelfa druida unitasi al gruppo dopo che si erano fermati nel suo bosco, anni prima. Per lei nel corso degli anni ha provato una forte amicizia, quasi sbocciata in amore, e nel frattempo è riuscito a legare anche con gli altri membri del gruppo: Lokrum, paladino di Illmater del Mulhorand, dalle origini miste umane ed orchesche; Norindal, un elfo della luna mago e di buona famiglia dal Mare della Luna, divenuto poi un arcimago; Porzius, un umano cantastorie e fattucchiere, rapido di mano quanto di lingua, originario delle isole Nelanther; Ghaunlael, una ladra schiava drow fuggita dal sottosuolo, quando giunse in superficie si rifugiò nel bosco dell’Aglarond in cui viveva Kaitlin, che le offrì riparo e ristoro, ed insieme a lei si unì al gruppo; Utherick, uno stregone combattente Tethyrian, della Costa della Spada; Wansitul, un ex-combattente elitario del Rashemi. Insieme a tutti loro affrontò diverse sfide, nonché diverse creature partorite dal piano delle ombre, spesso inviategli loro contro dai loro avversari, seguaci di Shar. Durante i vari viaggi, accadde una volta che Kaitlin venisse rapita, e dopo esser stata torturata, uccisa. I compagni la raggiunsero per salvarla, ma ormai era troppo tardi. Dopo una strenua battaglia contro i loro avversari ed il tempo, Kjoldir riuscì a riportarla alla vita, ma nonostante la sua gratitudine la mezzelfa inspiegabilmente si allontanò dal devoto di Mystra per tornare nel suo bosco, di cui era custode e protettrice. Da allora, Kjoldir si è ritirato dalla compagnia, che non necessitava più i suoi aiuti, ed è tornato alla propria vita nel santuario di Mystra, a Tantras.

  • 1 mese dopo...
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Ho deciso di riempire queste pagine con la mia storia… Non che abbia la presunzione di voler rendere il mondo un posto migliore narrando possibili eroiche gesta e leggende che potrebbero girare sul mio conto, o di credere che a qualcuno interessi davvero di quanto ho fatto nella mia vita, questo no…

Voglio scrivere la mia storia per me e per nessun altro, ma soprattutto perché sono un codardo. In questo momento gli avventurieri con i quali mi sono unito poche settimane fa stanno dormendo, affidandosi a me per la guardia. Ripongono così tanta fiducia in una persona che conoscono appena? Non ho il coraggio di raccontare loro la mia storia, il mio passato; ve lo ho già detto: sono un codardo per natura. Quindi ho deciso di imprimere con la potenza dell’inchiostro la mia storia sulla carta, sperando che qualcuno scopra questi scritti e trovi il coraggio che a me manca di confessare agli altri il mio passato.

Oh nebbie del passato! Come la bruma al mattino rendete tutto così confuso, così opaco eppur avvolto da quel dolce velo scintillante della nostalgia che ci fa rimpiangere le cose che furono. Scintillante come la città in cui sono nato: Waterdeep, la città degli splendori. Ora mi chiedo come mai gli hanno dato quel nome, certo non le si può togliere la fama di essere la più grande e bella città del nord, forse seconda solo agli incantai reami elfici descritti nelle leggende: città che vivevano davvero di luce e di magia, sospese in un’atmosfera senza tempo nei cuori più vividi e pulsanti delle foreste, ma davvero si può dire che sia così pura e innocente? Le tenebre più turpi e luride si nascondono dove la luce è più sfolgorante, nutrendosi del bene e soppiantandolo con il male. E così nella città degli splendori, la mia anima si faceva sempre meno splendente alla luce del giorno.

Della mia infanzia non ho molto da aggiungere: delle storie che uso per mascherare il mio passato quella parte è l’unica che non necessita di essere modificata. SI può dire che fossi l’essenza stessa della mediocrità. Non ero mai né troppo intelligente né troppo stupido, non mi atteggiavo a bullo del quartiere, ma non ero nemmeno uno di quei ragazzini che vivono sottoposti agli amici. Forse l’unica cosa che mi poteva distinguere da un qualsiasi ragazzino di dieci anni era la noia che mi sono portato sempre dietro, come se non mi importasse un granché del resto del mondo. Ma anche questa è una cosa comune negli abitanti di Waterdeep, e nessuno ci ha mai fatto caso. Come molti dei ragazzini della mia età di tanto in tanto mi destreggiavo in piccoli furtarelli, niente di davvero grave, ma se non altro posso dire di aver acquisito una certa abilità con le dita grazie anche a tutti i trucchi con le monete per distrare gli incauti passanti mentre qualcuno gli infilava un rospo nel collo della camicia. E come molti dei ragazzini non decedetti autonomamente del mio futuro. Semplicemente un giorno mi venne comunicato che sarei andato al collegio bardico “per rendere un po’ più utile la mia tendenza a vagabondare per la città senza meta”.

Certo, non che lo accettai di buon grado, ma le mie proteste furono davvero minime rispetto a quelle che ci si potrebbe aspettare: un paio di giorni di silenzio, poi tutto tornò alla normalità. Solo che io passavo le ore a studiare svogliatamente la storia della musica. E alla fine credo di essermela fatta piacere, visto che sono diventato piuttosto bravo nel comporre e soprattutto nell’eseguire melodie, non il migliore è logico, ma discretamente bravo. Poi ho lasciato il collegio, e già qui le storie divergono. Ad alcuni ho raccontato che ero stufo di starmene rinchiuso fra le mura di Waterdeep, ad altri semplicemente che ritenevo che quella scuola non avesse più niente da insegnarmi. Ad altri addirittura che dopo aver avuto una burrascosa relazione con l’insegnate di canto, ella non voleva più cantare ad altri che a me e questo fece si che molti sospettarono della relazione e per questo fui cacciato. E quegli idioti ci hanno pure creduto!

La verità è che non ho mai perso il vizio di rubacchiare, da piccolo ti diverti a rubare le mele al mercato, da grande aspiri a rubare la fama e la gloria altrui. E in un collegio bardico, quale miglior modo di acquisire fama e notorietà se non “prendere in prestito” le idee altrui? Esatto, nessuna. Così che prima per stare al passo con gli studi, poi sempre più per voglia di gloria, cominciai a rubare gli spartiti dei miei colleghi, facendogli credere che sicuramente erano stati persi e che sarei stato ben lieto di aiutarli a cercarli. E poi continuai in un crescendo grandioso e terribile allo stesso tempo. Se rubare gli sparititi poteva rallentare la concorrenza per alcuni giorni… se avessi loro rubato gli strumenti? Ce ne era in particolare uno che mi intrigava, e che ben presto decisi sarebbe stato il mio uscire di scena, dopo aver rubato o sabotato violini e liuti da poche monete, il flauto lucido, scintillante e perfetto di quell’imbecille di Kanym come poteva non farmi gola? Stabilii tutto con estrema cura, tanto che riuscire ad impossessarmene fu ridicolmente facile… C’è un periodo a Nuova Olamn, ricordatevene se ci passate, in cui circa i tre quarti degli studenti sono fuori in città a provare le loro abilità, e nessuno ti da fastidio per i corridoi. Ed è proprio durante quel periodo che io lo rubai.

Solo che ovviamente qualcuno doveva pur sospettare di qualcosa, e meno male! Altrimenti sarebbero ancora più confermati i miei sospetti circa il fatto che il mondo sia formato da imbecilli… Fatto sta che rubato il flauto tutto il collegio si mise in subbuglio al fine di trovarlo. Patetiche formiche. Stuzzichi il formicaio ed escono tutte agitate come se il mondo stesse per finire. Ma il flauto non venne trovato… Ovvio del resto: nessuno è così stupido da tenere una refurtiva vicino a lui, dove chiunque sano di mente riuscirebbe a trovarlo… E difatti il flauto non si trovava nell’accademia.

Avevo infatti un certo posto, la soffitta della mia vecchia casa, dove riponevo la refurtiva quel tanto che bastava a far si che le acque si calmassero e potessi usarla in tutta tranquillità. Non una reggia, il quartiere vicino al cimitero dei sospiri non è mai stato rinomato per la correttezza morale delle persone che ci abitano, ma sicuro abbastanza da tenere lontani quei damerini imparruccati dei miei compagni. Un posto tranquillo dove studiare gli spartiti o nel caso del flauto, cosa mi avesse attratto tanto di quello strumento. Non ci misi molto a scoprirlo. Quel po’ di conoscenze arcane che possedevo, insieme ad un pizzico di fortuna, mi fecero scoprire una melodia incisa su tutta la superficie del flauto, mascherata abilmente in modo da risultare illeggibile ad un osservatore disattento. La volli subito provare, il desiderio era troppo grande, l’eccitazione alle stelle.

Ma ancora una volta quell’imbecille di un bardo da strapazzo che rispondeva al nome di Kanym dovette rovinare tutto! Non so come era riuscito a mettersi in contatto con un mago (forse un suo amico, non so) che aveva per lui usato la magia per rintracciare il suo flauto. Senza indugiare soffiai aria nello strumento, muovendo le dita in modo da creare una melodia, instillandoci una piccola dose di potere arcano per farlo calmare. E quella melodia era quella del flauto dei topi. Il suo effetto fu immediato: nel quartiere d’altronde di topi non vi era penuria, e ben presto lui ne fu ricoperto, lo mordevano, strisciavano le loro lucide code sul duo volto, le piccole zampine sporche laceravano la carne. E io continuavo a suonare, senza preoccuparmi di nulla, del fatto che con tutta probabilità sarebbe morto. Lo sentii urlare qualche parola arcana, ma la nausea e il disgusto probabilmente fecero si che l’incantesimo fallì. Perché non accadde nulla, e dopo pochi minuti, il silenzio, rotto solo dalla melodia del mio flauto.

Poi il resto è comune alle altre storie, lasciai Waterdeep, per evitare la prigione o peggio la morte però, non per futili motivi che alimentano le chiacchiere, con appena un accenno di rimorso, forse pentendomi di quell’ atto? Non lo so, so solo che ancora una volta sono stato solo capace di mentire, sulla mia storia, sul mio passato, mentendo a me stesso e a gli altri ogni cosa, ogni fibra del mio essere, tacendo persino il mio nome. Perché il mio nome non è quello con cui mi chiamate, Hamelin, il pifferaio, bensì Ar... Il resto del foglio è macchiato e illeggibile

Non sono sicuro che sia un granché come personaggio, anche per i motivi che riporto qui di seguito

Spoiler:  
Allora, questo personaggio ha dei problemi, ma tanti... Non riesce a stare nel mio gruppo di gioco. La storia in breve: Il resto del gruppo (due stregoni umani, un nano barbaro e un ranger umano) ha deciso che all'inizio dell'avventura si conoscevano già tutti e che erano grandi amiconi :confused: io per rispettare anche la natura dei bardi e seguire un po' il mio BG ho deciso con il master che mi sarei unito al gruppo appena arrivati alla città, in una locanda oppure in mezzo alle indagini (è un'avventura a base investigativa). In una maniera schifosamente irreale mi hanno arruolato nel gruppo. In pratica hanno deciso che mi volevano, così sul momento. Accetto storcendo il naso (sia in on che in off) e ci mettiamo a girare per la città, loro per comprare equip e andare a bere birra, io per comprare un arco e per cercare informazioni circa gli avvenimenti che stanno accadendo in città (fulmini in pieno giorno che uccidono con precisione millimetrica i mercanti) dopo un po' decidono di riunirsi a me, e mi seguono quando vado al tempio e alla casa del commercio per avere maggiori info. Sulla strada incontriamo della gente che sta pestando una donna, li affrontiamo (io tento di bloccarli senza ucciderli, ma il ranger del gruppo la pensa diversamente) e ovviamente arrivano le guardie. Io penso prima ovviamente a salvare la MIA reputazione, dicendo che non c'entro nulla, andando leggermente contro il gruppo. In off game si sono incazzati. Praticamente secondo loro io dovrei sempre fare i comodi del gruppo (che poi ho fatto, affascinando a **** una guardia per permettere di essere scarcerati prima) ignorando completamente il fatto che i nostri personaggi si conoscono da poco meno di un giorno.

tutto questo per chiedervi... Che cosa dovrei fare? Seguire il mio allineamento CN e fregarmene? oppure no? alla fine ho proposto al master di fare un altro PG (alla prima sessione che gioco come giocatore :cry:) per evitare che la cosa degenerasse...

  • 1 mese dopo...
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Tellain, Background

D’autunno le foglie degli alberi della Foresta si tingono di ogni tonalità dell’arancione, dell’oro, del rosso, tutte le sfumature di ogni colore caldo esistente nello spettro dell’iride. Un giovane seduto con la schiena poggiata sulla corteccia di un albero sospira piano, ad occhi chiusi, godendosi gli ultimi giorni di calore prima che la pioggia cominci a scorrere impetuosa e a ridonare vita alla terra cotta dal sole dell’estate. Vicino a lui un bastone dall’aspetto vissuto, incrostato di muschio sulle estremità e scheggiato in più punti, sembra quasi sparire nell’insieme del sottobosco e foglie secche che circondano il giovane dai capelli ramati. Ad un primo sguardo sembrerebbe un qualunque viandante che si riposa. Ma i normali viandanti non hanno un lupo che dorme con la testa posata vicino alle proprie gambe. Eppure l’animale non sembra affatto intenzionato a nuocere in alcun modo al ragazzo. Si limita ad alzare il muso quando uno scricchiolio si alza dal sottobosco in lontananza. Rimane immobile.

“Sai che il fatto che preferisca che tu eviti sforzi non significa che non ti puoi muovere sai?” La voce del ragazzo infrange il silenzio, quando si rivolge al lupo, accennando al grosso bendaggio che circonda il ventre dell’animale. Apre gli occhi e guarda quelli del lupo “So che mi vuoi proteggere, ma ora non ci sono pericoli” Un sorriso, sincero, mentre gli appoggia la mano sul muso marrone. Il lupo si ritrae sdegnosamente, prima di alzarsi e sparire dietro alcuni alberi. Il ragazzo scuote la testa ridacchiano, poi si alza, riprendendo il suo bastone. Gli fa ancora uno strano effetto aver lasciato il circolo, Nekare, il suo compagno animale, era solo una delle tante cause che lo avevano portato a lasciare gli altri druidi. La natura avrebbe lasciato morire quel lupo, lui lo aveva aiutato. Era semplice, così come era chiaro il fatto che non riuscisse ad essere perfettamente neutrale e impassibile. Poco male, almeno le sue conoscenze delle piante e le sue capacità di guaritore avrebbero potuto servire qualcuno. Non si mette a cercare il lupo, sa che lo ritroverà, non si è mai allontanato per più di un giorno da lui, eppure in un angolo della sua mente sottili timori tentano di intaccare la sua sicurezza. Scuote la testa come a cacciarli, invano. Si mette a camminare quindi, senza nemmeno curarsi molto della direzione, mentre la mente vaga fra i ricordi, passando dall’ingresso come druido nella foresta di Ardeep, al ritrovamento di quel lupo ferito e selvaggio a cui poi avrebbe dato nome di Nekare. La cicatrice sul braccio di quando gli si è avvicinato per la prima volta per curarlo probabilmente non sparirà mai. Sorride a quel ricordo, un sorriso accompagnato da un pensiero a tratti inquietante: I lupi possono staccare con facilità il braccio ad una persona. Perché allora ha il pieno funzionamento di entrambe?

Non so perché avevo voglia di fare un BG che non prevedesse morti o traumi vari... Peccato che alla fine non mi sia nemmeno riuscito poi tanto bene :P Razza umano, classe, beh, se non lo avete capito è druido...

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  • 4 settimane dopo...
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Sinceri complimenti ad Arcanista e Nemesis, ma anche a tutti coloro che hanno scritto qui, sono veramente dei BG appassionanti. Quello che mi appresto a scrivere è il primo bg serio che faccio (serio inteso come veramente strutturato, non quattro righe per far inquadrare il mio pg al master), spero sia degno di questo topic.

Solo fumo e cenere. Nient'altro rimaneva della sua casa fuori da Luskan quando il diciottenne Aegor Bloodraven tornò dalla città in cui si era recato per vendere un cavallo. I corpi dei genitori giacevano riversi sul terreno grigio come il cielo che in quel momento annunciava la pioggia. Avvicinandosi attraverso gli alberi scorse anche gli autori del gesto, che pareva non avessero fatto troppa strada. Banditi. Volgari, sudici, vigliacchi banditi. Cinque di loro erano inchiodati ai tronchi più larghi, con i crani fracassati da colpi possenti. Dopo aver scrutato con orrore questa disposizione, Aegor si avvicinò ancora alla casa,e si inginocchiò su un cumulo di cenere, ciò che rimaneva della sua vita. Le nuvole erano pesanti, scure come la disperazione che attanagliava il suo cuore. La sua casa, la sua famiglia, tutto distrutto da una banda di parassiti che non avrebbe saputo procurarsi altrimenti il sostentamento. Iniziò a piovere. Gocce pesanti, fredde, autunnali, che lo colpivano incuranti del suo dolore. E fu allora che ebbe l'illuminazione. Al mondo non vi è posto per i deboli, gli sussurrò una voce nella mente. Tornò verso i corpi appesi e notò che sul legno di ogni tronco era inciso un simbolo. Una mano guantata d'acciaio che impugnava alcune frecce. Pur nella sua rudimentalità, quel simbolo comunicò ad Aegor quello che la voce interiore andava sussurrando. La rivelazione lo raggiunse come una secchiata di acqua fredda in un pomeriggio estivo. Al mondo non vi è posto per i deboli, e i parassiti come quei corpi esanimi non potevano che essere schiacciati, la loro esistenza è fondamentalmente inutile. Sotto la pioggia torrenziale il ragazzo che era appena diventato uomo capì la verità. Quello che aveva davanti non era orrore, era forza. Chi aveva fatto giustizia in quel modo aveva dimostrato di essere più forte e più degno di stare al mondo rispetto a quella feccia che era costretta a vagare nelle terre selvagge e mangiare alla stregua delle bestie. Tutti i derelitti, gli sbandati, i pezzenti e gli umili di ogni luogo che vivevano alle spalle dei veri uomini non valevano l'aria che respiravano. Ogni traccia di dolore e compassione sparì, gli colò via di dosso come le gocce di pioggia fredda e le lacrime, che smisero di arrivare. Non vi era più posto per debolezze come quelle nel suo animo, una nuova persona si recò al capanno della legna (unica parte rimasta integra) a prendere un mantello da viaggio, un individuo libero da sentimenti seppellì ciò che restava della sua famiglia, un uomo differente vide delle impronte di cavallo solitarie che si dirigevano nella foresta e giurò vendetta. Vendetta nel nome della forza spietata che regola la Storia. Aegor dodici anni dopo è un chierico di Hextor, da ormai otto anni ha ottenuto il mazzafrusto, arma sacra all'Araldo degli Inferi. Ogni notte ha vagato nei malfamati quartieri del porto di Luskan in cerca di borseggiatori, truffatori e drogati per farne ciò che meritano di più: romperne i crani in mille pezzi e fare giustizia come le vacanti autorità non sanno fare. I suoi occhi grigio/verdi mandano un brivido lungo la schiena a qualunque immeritevole incroci il suo sguardo, e i capelli nero corvino sono ciò che meglio rispecchia la sua anima. Il suo ingresso in una taverna è accolto da un abbassamento repentino di ogni voce, e le sue poche parole quasi sussurrate incutono ben più timore delle urla biascicate di qualsiasi bandito che abbia la malasorte di incrociare la sua strada. Il suo ordine è impeccabile, l'armatura nera grezza è sempre accuratamente pulita, e ogni punta della mazza ferrata regolarmente affilata. Sicuramente è un uomo di poche parole, ritiene che chiunque ne usi un gran numero sia di base un ciarlatano, di conseguenza disprezza le lingue agili dei mercanti e degli ambasciatori. Il suo più alto valore è il rispetto della forza fisica e di volontà. Chiunque superi un'ordalia, persino un ladro, gode del suo rispetto, e valuta il valore militare come la più alta delle virtù; a meno che non sia finalizzata al saccheggio, al caos e al sovvertimento dell'ordine. Disprezza con ogni centimetro di sè stesso i misericordiosi e i generosi, così come coloro che praticano l'altruismo e ritiene che il perdono sia la causa della corruzione in ogni dove. Dopo tanti anni per Aegor è giunto il momento di partire. Un freddo mattino d'inverno prende commiato dal tempio per recarsi altrove. La neve leggera punteggia il suo mantello nero mentre si dirige al porto. Non sa ancora dove andrà, ma spargerà il credo, punirà gli immeritevoli e cercherà vendetta. Vendetta nel nome di Hextor.

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Grazie Kothaar per i complimenti ^^ e per rispondere al tuo commento, anche se è vero che i miei PG hanno Background appassionanti, ai fini del gioco viene praticamente sempre ignorato... Quando gioco in cartaceo perché il livello di gioco è più da divertimento che da interpretazione. E quando gioco online, sono allo stesso livello di quelli che scrivono due righe strimizzite ...

Aggiungo anche questo, anche se più che altro lo posto per ricevere dei consigli su come migliorarlo ^^

I sogni … Quale creatura in questo mondo non sogna? Quale persona non lascia che almeno per qualche ora, nelle ore in cui la luce di Lathander viene offuscata dal manto nero della Signora della notte, la mente si liberi delle spoglie mortali e vaghi nelle profondità dell’inconscio? Volare, incontrare la persona a noi cara, domare mostri, vivere battaglie memorabili, non occorre essere un mago o un eroe per vivere queste esperienze mentre dormiamo. Perché la nostra mente, forse la creazione più perfetta di tutto Toril, riesce a creare all’interno dei meandri della memoria interi mondi di nostra fantasia all’interno del quale i protagonisti siamo noi. Ma quel potere, per quanti sono destinati a vivere una vita piatta e grigia e priva di qualsivoglia avvenimento al di fuori della norma, non è altro che un illusione, un fuoco fatuo che può condurre alla folli nel tentativo di renderlo proprio per sempre.

Per me non è così.

Creare sogni, oggetti, figure e bestie mitologiche, immagini, suoni, cose reali e cose che esistono solo nella mia mente è una dote che credo di aver sempre avuto. O almeno, con la mente ho sempre creato mondi nuovi e migliori di quello in cui vivo. Circondarmi anche al di fuori del sogno di creature fantastiche, è sempre stata una delle cose che mi riescono meglio, certo forse un po’ strano come passatempo, specie quando ti metti a parlare con i draghi che esistono solo nella tua mente (ricordo ancora con un pizzico di divertimento di quando mi chiesero se uno spettro si era impossessato di me, all’età di dieci anni … )Non è quindi un caso se la mia magia si è sempre orientata sulla scuola dell’illusione, che ha l’attitudine di rendere vero ciò che esiste solo nella mente dell’incantatore, con unico limite la fantasia dello stesso. E quella è una cosa che di sicuro non mi manca.

Riesco adesso quindi a dare davvero vita ai sogni delle persone, posso davvero ricreare con l’utilizzo del potere che scorre nelle mie vene le immagini di quelle bestie mitologiche che creavo con la mente. Dicono che sono l’incantatore dei sogni, o qualcosa del genere. Ignorano del tutto l’attitudine dell’illusione e della magia che uso di stordire, spaventare, rendere inferme le persone, portarle sull’orlo della follia.

Buffo come la gente si dimentichi sempre che con i sogni vengono gli incubi …

  • 2 settimane dopo...
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Roscoe e Wilimac GoodBottle

Spoiler:  
Questa è la presentazione che Roscoe fa di sè e di Wilimac in prima persona. Errori di sintassi e parole di uso gergale sono inserite appositamente per rendere idea del PG. Vediamo se capite la classe dei due...

Tratto distintivo: parlano entrambi un sacco senza prendere fiato!!!

Questi due personaggi sono nati dalla contorta mente di Marco e me che abbiamo deciso di tediare un povero master (Andrea) stressandolo all'infinito. Posso senza dubbio affermare che sono stati i due PG più divertenti che abbia mai giocato!!!

Mi chiamo Roscoe Goodbottle detto “Bottillia”,come tutti potrete notare sono un’hin, ma Cuoreforte, quelli del Luiren, quella terra a Sud che anche se nessuno ci crede è la nostra nazione,e lì siamo tutti “halfling”,come ci chiamate voi….si,proprio quella.

Proprio lì sono nato e fino a qualche anno fa ero felice e stabile residente.

Mia madre Perihedra e babbo Compilezion intravidero subito in me una potenziale mente portata allo studio e decisero che avrei seguito la via di zio Scrooge, che poi in realtà era cugino del babbo, studiando la magia.

Ero un bravo hinnino, diligente, studioso, proseguivo il mio apprendistato da mini maghetto, e passavo il resto del tempo col cugino Wilimac e il resto della giovane comitiva di noi piccoli hin, a bighellonare su e giù per i prati e le colline del nostro paesetto di Baleron (ah,non ve l’ho detto, noi siamo nativi di lì), stando attenti a non andare vicini agli stagni, per via di quegli orridi Kammallanus di cui zia Petunia ci parlava sempre quando eravamo piccoli piccoli.

E questa era la mia bella vita finchè pian piano non cambiarono un po’ le cose: intanto quel Saltaboschi del cuginetto Wilimac iniziava ad avere le mani un po’ lunghe; e non è che nel villaggio fossero così contenti….poi iniziava a crescermi una voce dentro che mi diceva “a voler imparare tanto poi vien voglia di andare via” che sembrava tanto la voce di zio Scrooge, che in effetti lo diceva sempre, infatti poi se n’è andato…..ad ogni modo, iniziavo a voler girare il mondo….ma soprattutto il Wilimac aveva le mani un po’ tanto lunghe lunghe lunghe e in paese erano un po’ tanto alterati…..

Così il babbo di “Gotto” (così chiamo il cugino Wilimac) che altri non è che lo zio Vaudeville, ha deciso di iniziare ad inserirci, grazie alle sue conoscenze da buon Goodbottle, come appoggio in gruppetti di scorta, ispezione e lavoretti vari a richiesta di alcune eminenze hin.

Controllare vecchie rovine di qualche nonno hin di qualche hin importante, menare le mani con qualche Scrag uscito da Mortick, scortare da una città all’altra signorotti e mercanti con tutta la loro roba, menare le mani con qualche Merrow di Mortick, perfino qualche ronda intorno a Thruldar! Diciamo che ce la siamo proprio spassata io e il Wilimac: io ad imparare un sacco di cose, lui godeva di una discreta libertà e al villaggio il parentame pareva proprio felice! Poi abbiamo anche iniziato a scortare carovane di cibo da commerciare con i nani della Grande Crepa, o le statuette in legno, che noi hin sappiamo fare tanto bene, e le portavamo fino al Chessenta!

Fino al giorno che ci proposero la missione della vita: scortare il mercante Blazanar Flazanar detto Smellfoot e il prezioso carico di limoni e cedri, che sono tanto richiesti al Nord, in Cormyr…ovviamente chiedemmo e ricevemmo la benedizione per la partenza dai genitori…e la sciarpa Goodbottle, quella che significa che siamo grandi, che possiamo girare finchè vogliamo nel mondo, e che siamo Goodbottle nel mondo!..e poi siamo partiti…lo Shaar e i suoi briganti, il Chessenta e i predoni, il Mare delle Stelle Cadute e il Dragomare con i loro pirati…il Wilimac dice che c’è un sacco di bella gente in questo mondo….a me sembravano tutti un po’ dei perdaballe che potrebbero anche studiare e lavorare…e abbiamo visto e affrontato anche una viverna e una manticora nel viaggio……

Ed eccoci qua nel Cormyr, a missione compiuta, a guardare avanti. Non c’è fretta di tornare a casa, siamo in giro per il mondo e ho visto che anche qua cercano gente avventurosa, domani andremo a vedere, chissà….

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Altro Druido Mezz'elfo.... che ci volete fare: mi piace questa combinazione... :sorry:

Lagwarlance, fin da bambino era vivace e curioso. Cresciuto in un villaggio di aborigeni assieme alla madre, Elenderin, poiché questo era il nome della madre Elfa di Lagwarlance, era una guaritrice senza pari, agli occhi degli aborigeni, che si stabilì in quel villaggio più per compassione che per necessità. Lagwarlance vide per la prima volta la grande città di Cauldron all’età di dieci anni. Anche se ne dimostrava solamente cinque, a causa della sua natura mista, aveva una grande considerazione della vita e alti valori morali.

Venne spedito in città dalla madre, che non riusciva a sopportare l’idea di un bambino che cresceva così in fretta. Esasperata, Elenderin, lo mandò in città con un’elaborata lettera da consegnare alle guardie, per conoscere il proprio padre e trovare un posto nel mondo vivendo in città. Fin dal subito, Lagwarlance non riuscì a sopportare gli odori, i colori e i suoni della caotica città e consegnata la lettera a un imponente uomo in armatura lo seguì riluttante. Costui borbottava indispettito, dall’atteggiamento del ragazzino e ignorandolo lo accompagnò fino alla cerchia interna della grande città, voltandosi si accorse che Lagwarlance era sparito.

Il ragazzino vagò senza meta per giorni e giorni, inoltrandosi nella fitta boscaglia fino a perdersi. Presto fu chiaro, al ragazzo, che sarebbe stato difficile sopravvivere senza un luogo di appartenenza e delle spesse mura che impedivano agli animali selvatici di farlo a pezzi. Un rumore destò la sua attenzione, erano giorni che non mangiava dormendo a malapena, avvicinandosi alle frasche che si muovevano, vide un cucciolo di tigre che tremava. Poco più avanti scorse la madre del cucciolo sventrata e spellata da poco, il sangue bagnava di rosso cremisi il terreno e l’erba circostante. Un verso, una parola, un movimento fece scattare il mezzelfo, perdendosi nuovamente nella foresta con il tigrotto che guaiva, sottobraccio. Trovò una grotta naturale e ci si fermò per riposare, non sapendo che era la dimora di un potente Druido.

Il mattino seguente fu pieno di sorprese per Lagwarlance. In un primo momento fu spaesato dalla presenza di cibo e un fuoco che ardeva vicino. Non fece domande e si guardò attorno solamente un momento per poi buttarsi a capofitto a mangiare. Stava mettendo in bocca un'altra mela quando sentì tossicchiare alle sue spalle, voltandosi Lagwarlance vide una minuta figura vestita di foglie, con un bastone in una mano e l’altra sembrava accarezzare un tronco pieno di peluria.

<< Sei stato coraggioso, ad addentrarti nella giungla e salvare la vita a questa magnifica creatura>> disse, facendo passare il tigrotto che trottò ai piedi del mezzelfo, leccando le gambe procurando un piacevole solletico.

<< Co…come fai a saperlo?>> chiese stupito

<< Me l’ha raccontato Alagaf, la tua tigre. Ma ora non è il momento delle spiegazioni, è il momento di insegnarti a vivere!>> disse lo gnomo e volgendo le spalle a Lagwarlance uscì e quello che sembrava un tronco peloso era in realtà un’enorme orso, che tranquillo passeggiava al passo del Druido.

Passarono diversi anni, e Lagwarlance crebbe fino a diventare adulto. Prese l’impegno di proteggere la giungla come Druido e Alagaf lo seguì nel suo intento. Conobbe diverse persone provenienti dalla città Cauldron, con le quali scambiava pelli, ossa e carne in cambio dei pergamene e altri materiali difficili da trovare nella fitta giungla circostante. Lagwarlance uccideva gli animali vecchi o ammalati che non avrebbe potuto salvarli diversamente limitando la proliferazione di cacciatori di frodo e proteggendo, dalle incursioni di creature ostili, i villaggi di fango degli aborigeni. Ormai Druido autonomo seguiva il suo istinto che lo portò ad un giorno di cammino dalla grande citta di Cauldron in un giorno piovoso.

Erano forse quattro o cinque umani, stavano preparando delle trappole per cacciare alcuni dinosauri, pregiati per le loro scaglie e ghiandole velenifere, quando Lagwarlance si palesò a loro:

<< Liberate gli animali, distruggete le trappole e andatevene: qui non è permesso di cacciare!>> ottenendo come risposta una risata divertita da parte di due umani, mentre un terzo continuava a faccendare.

<< E chi lo impedisce? Forse tu…meticcio?>> disse con disprezzo un quarto uomo, mentre estraeva una balestra.

Ne seguì uno scontro furioso, dove tre uomini morirono, un quarto riuscì a scappare verso la grande città e il quinto uomo non sarebbe sopravvissuto a lungo, grazie all’incantesimo lanciato da Lagwarlance. Ferito com’era, liberò prima gli animali rinchiusi e poi si mise a seguire l’uomo fuggito nella foresta, Alagaf era ancora nel pieno delle sue forze e Lagwarlance aveva altre frecce al suo arco.

Raggiunse il fuggitivo dopo due sole ore di cammino forzato, lo trovò immerso fino alla cintola in una palude che piangendo chiedeva aiuto e perdono.

<< Chi era quello fuggito?>> disse con arroganza altezzosa Lagwarlance, piantando il bastone a terra e sedendosi accanto, senza nessuna fretta.

<< Che fai?...Non mi aiuti?...>> chiedeva esasperato l’uomo

<< Sei tu quello in difetto, non aiuto chi uccide per diletto>> per poi aggiungere << Se il mio aiuto vuoi avere, devi dirmi ciò che voglio sapere>>

Passarono minuti d’insulti e minacce, fino a quando il fango non afferrò alla gola il malcapitato. Solo in quel momento si mise a sbraitare il nome “ Garcal”.

Lagwarlance offrì il suo aiuto, accompagnando però il bandito alle porte della città. Sapeva che faticavano a far entrare una tigre, anche se non ancora adulta, ma ci provò comunque. Discusse, trattenendo il bandito sotto le zampe di Alagaf, con la guardia alle porte di ciò che era successo mentre l’uomo annuiva convulsamente dando ragione al Druido e ammettendo le proprie colpe e quelle dei compari.

Passarono alcuni mesi, dopo la cattura di quel bandito cui, Lagwarlance, non seppe mai il nome, quando lo rivide: morto, caduto in una trappola, che con molta probabilità aveva costruito il bandito stesso. I dubbi del Drudo presto divennero certezze: Garcal era ancora in circolazione e conosceva bene Lagwarlance.

Lagwarlance lo scoprì dopo aver commerciato con i gestori della Scimmia fortunata, i quali avevano costituito una sorta di patto con il Druido: lui forniva la merce su richiesta, in cambio di denaro e altre merci; l’unica postilla era il tempo: non dovevano aver fretta:

<< Trovare ciò che cercate non è dura, l’unica cosa è rispettare la natura>> diceva sempre, quando richiedevano qualcosa di difficile impresa.

<< Garcal, si: è venuto qui meno di una luna fa… carne troppo fresca per provenire nei recessi della jungla. E se non sbaglio credo ti stia cercando>> diceva mentre scambiavano la merce di Lagwarlance con una singolare armatura che sembrava esser fatta con le foglie.

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  • 4 mesi dopo...
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Ecco a voi Khion:

di una ragazza topo-di-biblioteca e di come è diventata una Pixie intermittente, caster all'avventura!

È nata a Ghalburg, una fiorente città portuale costruita su un piccolo promontorio ad ovest, da due giovani umani innamorati. Sin da giovane la sua strada è stata segnata: sua madre viveva e studiava nella grande e celebre Accademia e lei avrebbe seguito le sue orme, e di questo era onorata e contenta.

Ha iniziato a studiare la magia con dedizione sin da bambina (rubando libri e pergamene alla madre quando riusciva) e quando il padre, soldato della cittadella, è stato ucciso da un contrabbandiere (che stava cercando di portare in prigione), sua madre si è chiusa in sé stessa dedicandosi totalmente allo studio. Poco tempo dopo è stata bandita, lei ricorda ben poco in quanto era ancora giovanissima e non le è stato mai detto tutto, ha solo scoperto in seguito che la madre, disperata per aver perso il suo grande amore, aveva iniziato a praticare la necromanzia in modo incosciente e sconsiderato.

Così Khion è cresciuta quasi totalmente da sola, avendo come compagnia soltanto i suoi libri ed i maghi che frequentavano l'Accademia. Si è specializzata nella scuola di magia Divinazione, vietando a sé stessa di avere nulla a che fare con la necromanzia.

È diventata la pupilla dell'arcimago quando ha raggiunto l'età per iscriversi ufficialmente e per il suo sedicesimo compleanno ha ricevuto il suo primo libro degli incantesimi (all'epoca completamente bianco) direttamente da lui.

Da allora, per anni, non ha neanche messo piede fuori dall'Accademia (non che prima fosse un'avventuriera, sia chiaro), perdendo un po' i legami con le altre persone talmente era immersa nello studio.

Questo l'ha resa una ragazza parecchio ingenua ma per niente generosa, poco avvezza ai rapporti umani che non fossero occasioni formali, ma è rimasta una maga molto promettente.

Quando il Custode della Torre della città, luogo per lei affascinante ma non abbastanza da farla partire in esplorazione, è stato ucciso, sono arrivati cinque avventurieri a risolvere i problemi della città che stava per crollare sotto il peso degli scontri tra Governo, Accademia e l'oscura Gilda di ladri che controllava il commercio.

L'Arcimago è sceso finalmente a patti con il Sovrano e insieme hanno concluso che la cosa più saggia e prudente fosse lasciare l'antica spada che avevano riportato alla luce agli avventurieri stessi, ma per precauzione scelsero di inviare qualcuno con loro perché si assicurasse che, una volta compiuto il suo scopo, la spada tornasse alla città.

Khion non capì subito per quale motivo l'arcimago scelse lei, ma obbedì senza discutere ai suoi ordini, lasciando a malincuore la biblioteca e il suo studio, sperando di trovare altrettanta soddisfazione nello studio sul campo.

La compagnia dello stregone è stata da subito il più grande scoglio di questa nuova vita: il suo rapporto con la Magia era così poco organizzato, così rozzo, le era difficile capire come la natura nobile di quell'elfo potesse congiungersi pacificamente ad una simile scelta di vita, soprattutto le era difficile accettare che lui rifiutasse di provare a studiare con lei. Allo stesso tempo, viaggiare per il mondo incontrando una quantità incredibile di persone diverse, mostri che non apparivano neppure sui suoi preziosi libri, e vedendo la magia usata in tanti diversi modi (alcuni terribilmente ingiusti)... beh, le aprì gli occhi e la mente, facendole scoprire di nascondere sotto sotto un carattere curioso. Anche troppo.

Seguendo il gruppo di avventurieri ha scoperto una minaccia che nell'ombra si muove per portare caos e distruzione nel loro mondo: Tiamat, cacciata da tempo immemore dal loro loro piano potrebbe venire richiamata tramite potenti incantesimi. Loro stanno recuperando le armi che la sconfissero, che negli anni si sono perse e hanno servito altri scopi nobili e altri cavalieri, e ora riunite potrebbero sventare la grande minaccia.

Si è affezionata al Paladino che impugna la spada della sua città, e anche agli altri suoi compagni, ha combattuto al loro fianco imparando a sfruttare al meglio ciò che aveva imparato dai libri, scoprendo tante cose che dai libri non si possono imparare.

Combattendo per liberare dalle grinfie di un vampiro un'altra delle armi Khion è morta (per fortuna non per mano del vampiro stesso, ma di un'altra creatura) ma grazie alla dedizione dei suoi compagni è potuta tornare in vita... purtroppo l'incantesimo che doveva legare la sua anima a quella di una nuova creatura non è andato come previsto e si è ritrovata ad essere una piccola Pixie che non sa usare tutte le abilità delle altre della stessa specie, ma soprattutto non sa controllare il suo potere di invisibilità e quindi si trova spesso ad essere vagamente intermittente.

  • 3 mesi dopo...
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Questo è il background del mio primo pg, Aeveer, giovanissimo elfo mago, in viaggio per il mondo.

Aeverr,questo è il mio nome.

Sono un giovane elfo, ancora un bambino peril mio popolo, ma Corellon Larethian ha voluto qualcosa di diverso dauna comunissima vita da elfo nei boschi.

Mio padre, e mia madreinsieme a lui, erano un caso raro tra gli elfi delle nostre terre,normale foresta popolata dagli elfi , erano mercanti.

I loroviaggi li avevano portati sempre lontani dal nostro villaggio, e ognitanto anche io andai con loro, ancora troppo piccolo per comprenderequanto avveniva.

Raggiunta una certa età però iniziai a rimanereal villaggio, non solo per imparare ciò che un giovane elfo devestudiare, ma anche per la mia naturale inclinazione alla magia, nonper poteri, ma per interesse. Ero, come ora, ammaliato dai poteridella magia, di ogni tipo e per questo spesso rimanevo al villaggiocon mia sorella maggiore, sacerdotessa di Corellon Larethian, perimparare qualcosa sulla magia e studiare altro. Già spesso andavo damia sorella al tempio, per via della mia cagionevole salute einclinazione a farmi male facilmente. Ero e rimango piuttostogracile, ma non mi fermerà certo questo!

Ormai giunto ai 24 anni,molto giovane per il mio popolo, chiesi ai miei genitori di andarecon loro, dato che avrebbero intrapreso un lungo viaggio e loaccetteranno, ben contenti di avermi con loro. Il viaggio fuesattamente quello che speravo.

Come non rimanere stupiti dallabellezza del mondo! Le lande che attraversavamo erano stupende. Ognipiccolo particolare, un ruscello, un monte, un fiore o un gruppo diviaggiatori attiravano la mia attenzione e mi chiedevo come mairaramente il mio popolo abbandonava le nostre terre. Incontrai ognigenere di persona e razza, non sempre tutti amichevoli, ma questa erala vita che volevo condurre

La svolta nella mia vita avvennegiunti nella città in un territorio lontano, terra di umani, dove imiei genitori erano diretti, dopo un lunghissimo anno diviaggio.

Passamo lì oltre tre mesi, fino a quando chiesi ai mieigenitori di proseguire senza di me, sapevo badare a me stessononostante la mia poca resistenza fisica, e volevo godere ancora unpo' di questo mondo stupendo.

Essi sono sempre stati moltoaccomodanti con me, perciò mi lasciarono libero di restare lì, miritenevano ormai maturo, anche se ancora un ragazzino.

Dopo pocotempo però, dovetti iniziare a occuparmi di procurarmi un po' didenaro, e cosa c'è di meglio di inscenare qualche spettacolo dimagia?

D'altra parte la magia stupiva i passanti più semplici,l'appartenenza alla razza elfica e il mio aspetto, curioso eaffascinante per gli uomini, attiravano l'attenzione in un paese incui pochi erano i non umani

Ma sopratutto, attirarono l'attenzionedi Turumar, un mago del luogo.

Mi avvicinò dopo la fine di un miospettacolo e mi chiese di seguirlo. Io lo seguii, anche se un po'cautamente, ma in fondo sembrava solo un normale anziano desiderosodi chiacchierare. Almeno fino a quanto, dentro ad una taverna, alsicuro da sguardi indiscreti, mi mostrò il suo libro, ricolmo diogni formula e incantesimo; il mio libretto con pochi scarabocchi suvarie pagine non era degno di essere detto libro al confronto. Rimasiaffascinato.

Mi chiese di divenire suo allievo, gratuitamente.Slancio di generosità, mi sono sempre chiesto in quel periodo, osemplice fortuna? Resta che divenni un allievo di questo mago.

Quandoarrivai alla sua dimora, rimasi assai sorpreso di quello che vitrovai. Non era una torre di un mago solitario poco incline airapporti sociali, era un grande casa, con oltre una decina di personeche vi vivevano! Il mio nuovo maestro oltre ad essere un mago famosonella regione era molto vivace socialmente. Viaggiava spesso, equando non lo faceva molti altri maghi, stregoni, bardi, artigiani,inventori, poeti, studiosi, medici e persino nobili passavano atrovarlo. Inoltre, i miei nuovi coinquilini erano altri apprendistimaghi. Che stimoli! C'erano persone d'ogni razza e cultura, un verocrogiolo di magia e saggezza.

Tra i vari personaggiincredibili, e che senza dubbio vivranno grandi avventure, il miocuore però ricorda con passione e amarezza Lavina, una giovaneumana. Era l'ultima arrivata, senza contare me. Una ragazza freddaall'apparenza, ma vivendo con lei riuscì ad attirare la suaattenzione. Era simpatica, irascibile, imprevedibili, vivace eincredibilmente affascinante.

La differenza più grande tra noiera... la razza. Con i suoi 24 anni era una donna fatta e finita,mentre io con la stessa età ero visto come un ragazzino. Macomunque, con il tempo, l'addestramento e la magia nell'aria riuscìa vivere una storia con lei. Continuavamo però i nostri studi, invista di cosa, non si sa.

Con lo scorrere dei tempi nuovi studentiarrivarono e altri andarono via. Tra questi, Lavina.

Mi salutòappena, quando se ne andò. Ancora sento il dolore apensarci.

Proprio in quel periodo il maestro iniziò ad ammalarsi,e nemmeno i sacerdoti sapevano cosa fare. Mi chiesi come mai Lavinalasciò proprio in quel periodo la casa... - (NB: Lei sapeva dellamalattia e partì alla ricerca di una cura, senza dire nulla anessuno. Questo particolare verrà rivelato al pg in futuro, in vistadi un'avventura programmata per me) -

Il tempo passò ancora, eormai potevo definirmi un vero mago, e tra gli altri visitatoriarrivò mia sorella. Non aveva fatto tutta quella stradasemplicemente per salutarmi e chiedere come proseguiva la miaistruzione, ma per raccontarmi gli ultimi tempi e avvenimenti nellenostre nostre terre...

Sorpreso, venni così a sapere che i mieigenitori avevano organizzato tutto per farmi incontrare il maestro,loro buon amico – (altro dettaglio che si legherà alla sopracitataavventura). Ma tristemente, la guerra condotta da un signore dellaguerra barbaro, imperversava ai confini del nostro regno, e i mieigenitori, di ritorno da un viaggio, non erano tornati acasa.

Raggelai. Dopo qualche settimana mia sorella si avviò versocasa, giurando di continuare a cercare i miei genitori, mentre iosarei dovuto rimanere li, senza fare nulla e senza nemmeno la donnache amavo. Ma csa potevo fare ai suoi occhi, io, che ero poco più diun bambino?

Ma no ne ebbi il coraggio, non potevo rimanereindifferente. Salutai il mio maestro e gli giurai che sarei tornatoun giorno, magari pronto a dare io stesso lezioni. Come stavo peruscire mi sorrise e disse “Lavina. Non dimenticarti di lei. Non tiha abbandonato”. Quasi piangente uscì di lì, con pochi soldi, ilmio mantello e il mio libro. Non potevo tornare al mio villaggio,perché le milizie elfiche non mi avrebbero preso per combattere.Inizia quindi un viaggio verso nord, dove sempre Lavina diceva divoler tornare. Così è iniziato il mio viaggio. Per cercare i mieigenitori? Per lasciar libero sfogo alla mia rabbia e frustrazione?Per cercare Lavina? Per vivere quel mondo che sognavo da anni? Persete di conoscenza? Per diventare più potente e tornare glorioso inpatria e combattere i nemici del mio popolo? O forse e per imparare isegreti magici che nonostante tutto una scuola non poteva darmi?

Chilo sa? E' da poco tempo che ho lasciato il mio apprendistato, e lamia strada è ancora tutta da disegnare.

Questo era il bg, ora Aeveer è ormai ben al 4 (WOW), e fa parte di una più o meno di gilda fondata insieme dai compagni della sua prima avventura, un viaggio verso un tempio misterioso per scoprire cosa stava accadendo in quella terra. Che per la cronaca erano riti per invocare un antico male, che si sta per risvegliare...

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E siccome ci sono, questo è il mio secondo pg, in una campagna ambientata in un altro mondo random inventato! (La campagna iniziava da un viaggio in nave già dal livello 3)

Ilmio nome è Tyhael, e sono uno spadaccino elfo.

Esatto,spadaccino. Combattente corpo a corpo. Spada contro spada, lama contro lama. Sono la prova vivente che noiElfi siamo anche guerrieri, più di qualche stupido rissoso mi hasottovalutato, e non gli è filata liscia.

Non sono ancora unadulto per i miei compatrioti, ma ho viaggiato molto, e sono suquesta nave per recarmi ad ovest, dove spero di poter trovare paneper i miei denti e diventare sempre più forte.

Come mai dici?Semplice, il mio sogno è diventare un Campione di CorellonLarethian, Padre degli Elfi e nostro protettore. Come mai, chiediancora? Semplice, ti racconterò la mia storia. E.. taverniere,qualcosa di fresco per la mia gola!

Provengo dal nord, dalleterre degli elfi artici, terre fredde ma piene di vita, piùprecisamente da Acquagelida, un semplice villaggio immerso in una foresta perennemente bianca. Li ho passato lamia giovinezza con mia sorella Claarad, una normale vita da giovaneelfo, fino a quando, come tradizione, lasciamo la casa perfrequentare altri villaggi e vivere con altri parenti o amici perapprendere e trovare la nostra via. Visitammo molte terre e popoli,incontrammo anche altre razze, a noi sconosciute, e iniziammo adapprezzare le arti, il mondo, la musica e tutto ciò che è vita,oltre a imparare a difenderci, ovviamente. Il mondo è un postopericoloso, in particolare quando la gente ti crede un debole.

Il nostro peregrinare ci portò fino alle terre piùmeridionali, dove fummo accolti da due nostri zii, un' esperta rangere arciere dei boschi e l'altro zio, un combattente. Concludemmo qua ilnostro viaggio, perché le armi si rivelarono il nostro futuro. Miasorella si dedico all'arco e alla magia, come apprendista di mia zia,e io imparai l'arte della lama di mio zio, non la brutale tecnicadegli umani e dei nani fatta di forza e grande potenza, ma divelocità e tecnica. Diventai sempre più abile a combattere con armileggere, a schivare gli attacchi nemici, a prevederli, a capire leintenzioni del mio avversario e dove il mio colpo può fare i danni peggiori. Questa mia ostenta superiorità tecnica spesso mi feceguadagnare l'appellativo di spaccone, ma ne vado tuttora fiero, perché se lo posso portare vuol dire che è così. Nonmi ritengo solo un guerriero, ma anche un appassionato di ciò che èbello. La guerra non è il mio motivo di vita, ma un modo peresprimermi e difendere me e ciò che ritengo giusto e degno, infattiassieme a mia sorella e gli altri nostri coetanei combattemmo piùvolte orchi, goblin e altre creature che minacciavano le nostreterre, diventando esperti combattenti, più che normali soldati eguardie, eravamo quasi un elitè.

Rapide azioni di schermaglia,esplorazioni, assalti e agguati; così combattevamo. Tutto ciò era mischiato ai mieiamati duelli da taverna. Rimanevo ancora un idiota in effetti.

I nostri addestramenti procedevano aritmo serrato, fino a un terribile giorno. Un'orda di orchi stavaassalendo le terre a est, terre di signori umani nostri amici. Erauna tribù immensa. Le nostre armate e quelle degli umani riuscironoa metterla in crisi in seguito a varie battaglie vinte, ma eranotroppi, talmente tanti che se avessero semplicemente continuato avrebbero sicuramente vinto. Ma molti orchi non volevano morire nel tentativo, e così l'orda in seguito a liti per il potere si separò in tante tribù più piccole e tuttele città si serrarono a loro difesa.

Gli dei vollero che laparta più massiccia dell'orda si diresse verso la città doveeravamo. Il Re, e quindi l'esercito, era occupato a inseguire una falsa pista e anche se avvisato sarebbe arrivato tardi. Per noi nonsembrava prospettarsi un futuro roseo, ma non ci saremmo maiarresi a quei mostri.

La guerra iniziò e noi potevamo soltanto rallentarli, e sperare che la città resistesse. Le battaglie proseguivano e riuscivamo a batterli ma nonostante ciò, a nostro rinforzo arrivò uncontingente di rinforzo. Maestose figure in corazza e a cavallo, nemmeno troppe,arrivarono giusto il giorno prima degli orchi. Nemmeno 150 tra uomini edelfi, penso. Ma erano guidati dai Campioni, elegantissimi guerrierielfi, armati di spade e corazze, come i cavalieri umani.

I Campionidi Correlon Larethian. Tutti sembravano speranzosi alla loro vista,ma io all'epoca non conoscevo ancora la loro prodezza e potenza.

Ilgiorno della battaglia mi rimarrà sempre impresso, d'altra parte fuil mio primo vero scontro sul campo di battaglia.

Noi eravamoforse 3000 combattenti, più i gruppi di disturbatori nelle foreste,loro più di 12000.

E non erano soli, portavano con se Ogre ealtre creature mostruose, reclutate durante le razzie in altre terre. Non osavo immaginare gli orrori.

Quando la battaglia scoppiò, mia sorella era a combattere con gli altri arcieri per rallentare i varigruppi e io seguivo i gruppi di schermaglia per proteggere i confinidella città, i nemici infatti arrivarono da ogni direzione. La città non aveva mura, ma trappole, incantesimi, agguati, fiumi e altri ostacoli avrebbero rallentato i nemici, mentre noi ne uccidevamo il maggior numero possibile.

Fuquasi divertente vedere i miei nemici cercare di colpirmi mentre leloro pesanti asce e mazze colpivano l'aria mentre io schivavo,saltavo e quasi danzavo intorno a loro colpendoli con perizia etecnica.

Non avevo paura, combattevo per il mio popolo. Labattaglia fu lunga e cruenta, e nonostante la mia tecnica fui feritoanche io, ma comunque nelle mischie rimasi meravigliato a vedere ilmio capitano, Thalen “Spada d'autunno”, un Campione, checombatteva con uno stile simile al mio, ma con più forza, più furiae precisione, e in armatura pesante. Già la sera prima avevoconversato con questo individuo: arguto, posato, gentile, amantedella bellezza, ma come avevo già intuito, anche un terribileguerriero.

Quando ovviamente fummo costretti a ritirarci nelle viedella città, noi normali soldati, non i Campioni , ebbi però paura.Per mia sorella. La sua compagnia infatti era stata raggiunta inmischia da un gruppo di ogre e stavano venendo decimati, e lei eraferita che si difendeva a colpi di magia da gruppi di goblin cheavanzavano verso le loro posizioni sfruttando gli ogre. Nellaconfusione non seguii più gli ordini e corsi verso di leiignorando i nemici. Dovevo proteggerla. Dovevo correre da lei esalvarla. Ma era lontana. Davvero lontana. Non ce la avrei fatta. Ipolmoni mi esplodevano, ma non potevo fermarmi, continuai a correree a correre. Non ero distante, ma non sarei arrivato in tempo, urlaicercando di attirare almeno uno dei nemici, ma ovviamente non servivaa nulla. Stavo per maledire chiunque...

Quando Thalen sbucò dallamischia e volteggiando abbatte i nemici con una potenza indicibile,gli occhi rivoltati e una energia proveniente dalla spada. La lamarisplendeva di fiamme divine e i nemici non potevano resistere,quella era la furia di Corellon stesso, infusa nella lama di un suorappresentante.

Decapitò l'ogre che stava minacciando miasorella con un solo colpo di spada, così grazie a lui io riuscì adarrivare in tempo, alzare mia sorella e sorreggerla mia sorella ecorrere via, come lui mi urlò. Lui rimase lì a combattere percoprire la fuga.

Del dopo ricordo poco, le mie feriteevidentemente erano ancora più gravi del previsto, e non avevonotato varie frecce che mi avevano raggiunto nella corsa.... Mariuscì a portarci entrambi in città.

Quando mi svegliai, lamattina dopo, la battaglia era finita. E a svegliarmi fu Thalen,ancora vivo.

La battaglia fu vinta, e l'orda respinta. Non micapacitavo di come, ma esplosi di felicità. Passò il tempo, lebattaglie smettevano ovunque, e noi ci eravamo nel frattempo dedicatialla pace, agognata pace. Quando Claarad si fu ripresa dovemmodecidere cosa fare.

Pensavamo di riprendere la peregrinazioneappena possibile e recarci altrove, così anche per lasciare in pacei nostri zii, anche loro bisognosi di pace. Ma Thalen ci chiese didiventare suoi allievi.

E così, ovviamente, andammo con lui.Come rifiutare l'invito di tale eroe? Se eravamo vivi, lo dovevamo alui e agli suoi compagni. Lo seguimmo per oltre un anno, prima chelui ci lasciasse per tornare alla capitale. Io e lei allora abbiamoproseguito i nostri viaggi, andando ovunque, a est, nelle terre degliuomini, più a ovest, nelle terre selvagge e dei nani, e infine asud, nel lontano sud, terra delle grandi metropoli e immensi portidove qualsiasi cosa poteva avvenire. Duelli, mostri, città,popoli.... nemmeno adulti e avevamo già vissuto così tanto... E ucciso così tanto...

Doveè mia sorella allora chiedi? Ci lasciammo 6 mesi fa, lei riprese glistudi di magia e della Via dell'arco ad Acquagelida, mentre io rimasial sud battermi e diventare sempre più abile, per poter pareggiareil mio maestro, e unirmi, un giorno, al suo ordine. La mia vita ormaiè ormai nel nome della spada.

Spesso mi chiedo come stia, ma sai,la rivedrò certamente, lo abbiamo giurato.

Non intendo morire, manemmeno vivere una vita ordinaria. Come se ormai potessi sperare difarlo.

Cosa è questo rollio? Sembra aria di tempesta...Taverniere, un'altra!

  • 2 mesi dopo...
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Scusate eventuali errori grammaticali e la forma non molto curata, ma ho scritto questa biografia 30 minuti prima di giocare la sessione in cui ho usato questo PG

Talor, Il ladro

-Vita

Trovato quand’era ancora in fasce da Geel-Kajin, un uomo-lucertola, Talor venne da questo cresciuto assieme ad altri 3 ragazzi: un’umano, un’umana e un volpinide*1. Ciò che spinse Geel-Kajin a crescere quei ragazzi, tutti trovatelli abbandonati a se stessi, fu tutt’altro che carità: Li addestrò ad essere ladri e li sfruttò per arricchirsi. A 6 anni Talor compì i primi borseggi, a 11 anni i primi furti con scasso, a 13 i primi furti con scasso in casa di nobili . Arrivò però il giorno in cui i ragazzi, stanchi di sottostare al volere di Geel, ormai divenuto un despota, si ribellarono di comune accordo (al tempo Talor aveva 14 anni). Purtroppo le cose non andarono come sperato: alla richiesta di libertà, che avrebbe comportato la perdità di diritto da parte sua ad una parte del bottino, la lucertola divenne violenta, e Talor lo uccise perché costretto dalla situazione. La banda, senza più Geel, continuò a fare colpi e nel frattempo, con l’arrivo della pubertà, Talor iniziò a provare sentimenti per Eleonore. Ella ricambiava, ma anche Jared, suo migliore amico fin da bambino, se ne innamorò. Jared, sapendo di non essere ricambiato dalla ragazza, iniziò a covare dentro di sé un profondo odio verso Talor che non mostrò quasi mai, ma che culminò 2 anni dopo nell’evento che avrebbe cambiato tutto: I ragazzi avevano pianificato di derubare un nobile di passaggio in città, ma Jared (la cui avidità, alimentata da odio e frustrazione, aveva ormai inghiottito qualunque altro sentimento) vendette il gruppo alle guardie che catturarono Eleonore e Zaphara. Talor riuscì a fuggire. Capito l’accaduto, trovò l’ex-amico e combattè contro di lui. Quest’ultimo, giocando sporco, fuggì, lasciandogli anche una ciccatrice sulla guancia. Nonostante gli sforzi di Talor per salvare gli amici, i 2 vennero giustiziati il giorno dopo. Da allora il giovane ladro, abbandonata la città, vagò in giro per il mondo cercando di dimenticare e di dare nuovamente un senso alla sua vita distrutta e a pezzi, coltivando però inconsapevolmente un’odio che, se non avesse presto lasciato alle spalle, lo avrebbe prima o poi distrutto.

*1 Jared (umano maschio, stessa età di Talor), Eleonore (umana, un anno in più di Talor), Zaphara (volpinide, 5 anni più grande di Talor)

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Scusate eventuali errori grammaticali e la forma non molto curata, ma ho scritto questa biografia 30 minuti prima di giocare la sessione in cui ho usato questo PG

Talor, Il ladro

-Vita

Trovato quand’era ancora in fasce da Geel-Kajin, un uomo-lucertola, Talor venne da questo cresciuto assieme ad altri 3 ragazzi: un’umano, un’umana e un volpinide*1. Ciò che spinse Geel-Kajin a crescere quei ragazzi, tutti trovatelli abbandonati a se stessi, fu tutt’altro che carità: Li addestrò ad essere ladri e li sfruttò per arricchirsi. A 6 anni Talor compì i primi borseggi, a 11 anni i primi furti con scasso, a 13 i primi furti con scasso in casa di nobili . Arrivò però il giorno in cui i ragazzi, stanchi di sottostare al volere di Geel, ormai divenuto un despota, si ribellarono di comune accordo (al tempo Talor aveva 14 anni). Purtroppo le cose non andarono come sperato: alla richiesta di libertà, che avrebbe comportato la perdità di diritto da parte sua ad una parte del bottino, la lucertola divenne violenta, e Talor lo uccise perché costretto dalla situazione. La banda, senza più Geel, continuò a fare colpi e nel frattempo, con l’arrivo della pubertà, Talor iniziò a provare sentimenti per Eleonore. Ella ricambiava, ma anche Jared, suo migliore amico fin da bambino, se ne innamorò. Jared, sapendo di non essere ricambiato dalla ragazza, iniziò a covare dentro di sé un profondo odio verso Talor che non mostrò quasi mai, ma che culminò 2 anni dopo nell’evento che avrebbe cambiato tutto: I ragazzi avevano pianificato di derubare un nobile di passaggio in città, ma Jared (la cui avidità, alimentata da odio e frustrazione, aveva ormai inghiottito qualunque altro sentimento) vendette il gruppo alle guardie che catturarono Eleonore e Zaphara. Talor riuscì a fuggire. Capito l’accaduto, trovò l’ex-amico e combattè contro di lui. Quest’ultimo, giocando sporco, fuggì, lasciandogli anche una ciccatrice sulla guancia. Nonostante gli sforzi di Talor per salvare gli amici, i 2 vennero giustiziati il giorno dopo. Da allora il giovane ladro, abbandonata la città, vagò in giro per il mondo cercando di dimenticare e di dare nuovamente un senso alla sua vita distrutta e a pezzi, coltivando però inconsapevolmente un’odio che, se non avesse presto lasciato alle spalle, lo avrebbe prima o poi distrutto.

*1 Jared (umano maschio, stessa età di Talor), Eleonore (umana, un anno in più di Talor), Zaphara (volpinide, 5 anni più grande di Talor)

Sembra preso dal film "The milionaire" (quello indiano del 2008).

Ciao, MadLuke.

  • 2 mesi dopo...
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Ambientazione "a caso", pg: umano Lama iettatrice da biclassare con negromante del terrore

"Fin dabambino, Alfons Etrom è sempre stato perseguitato dalla sfortuna, piccoli incidenti, coincidenze, sembrava tutto contro di lui, finchè un giorno la sfortuna non gli salvò la vita. Stava lavorando come al solito all'agenzia di pompe funebri di famiglia, quando, inalando i fumi di un nuovo preparato per imbalsamazioni, svenne cadendo dentro una bara. Il padre, un vecchio becchino quasi cieco, non si accorse che nella bara oltre la salma c'era anche il corpo del figlio, così senza troppi complimenti òla sigillò con un pesante coperchio di legno. Passò ... quanto? Ore, giorni? Alfons non lo scoprì mai. quando rinvenne, resosi conto della sua condizione, scardinò il legno del coperchio a calci e pugni, poi urlò il nome di suo padre. Nessuno gli rispose. Uscì dal laboratorio, e si guadagnò l'aria fresca, aria colma dell'odore della morte. Mentre giaceva chiuso nella bara, qualcuno, o qualcosa aveva ucciso tutti gli abitanti del villaggio, la sfortuna gli aveva salvato la vita, ma a quale prezzo? Istintivamente Alfons portò la mano ad una tasca, dove teneva l'anello destinato alla sua amata, aveva sempre rimandato il momento della dichiarazione, ma quel giorno, prima di cadere nella bara,si sentiva pronto. Ora lei giaceva nella polvere, la chioma rossa come il sangue, il corpo freddo come pietra. Piangendo ed imprecando portò il cadavere della ragazza al tempio del villaggio. Prese a pugni le statue degli dei fino a rompersi le nocche, gridò bestemmie fino a perdere la voce mentre fuori dal tempio si addensavano le tenebre e il vento iniziava a soffiare più forte, poi semplicemente crollò a terra, esausto. Qualcuno, lo ascoltò. Dalle tenebre uscì una voce. C'era ancora qualcuno di vivo oltre a lui "Vattene e torna domani quando il sole sarà morto, e lei sarà ancora tua". Alfons guardò il corpo della sua amata poi guardò nelle tenebre. Non ci pensò molto ed annui con un cenno del capo. La voce parlò ancora "Ogni desiderio ha un costo". "Lo so..." sussurò Alfons accarezzando le rosse ciocche che ricadevano sul volto morto. Poi, ubbidendo alla voce si alzò. Quando stava per varcare la soglia del tempio la voce gli parlò un ultima volta. "Non vuoi sapere il prezzo del tuo?". Alfons si girò verso le tenebre. "Sono disposto a pagare il prezzo più alto, qualsiasi esso sia" Detto questo sparì nella notte. Il giorno seguente Alfons lo passò dormendo, il sonno tormentato da orribili visioni, sogni alieni di freddo e morte. Al tramonto si recò al tempio. Qualcuno aveva acceso delle candele, e al centro del tempio stava lei, vestita da sposa. Con il cuore in gola, Alfons le si avvicinò, senza accorgersene aveva preso in mano l'anello. "Si" si limitò a dire lei. Poi lo baciò. Le sue labbraerano fredde come una tomba. Passarono dei giorni felici, alternati a notti di sogni di follia. E nei sogni Alfons riceveva degli ordini. Con la sua amata al fianco cominciò ad imbalsamare uno ad uno i corpi di tutti gli abitanti. Ci mise un'anno. Un anno felice, un anno d'amore, nel quale provò senza riuscirci a scaldare il freddo corpo della sua sposa. Quando anche l'ultima salma fu pronta, il cielo si oscurò ancora, riempiendo gli spazi tra le stelle di un paesaggio alieno, visioni, che schiacciarono a terra Alfons annichilendolo con la loro irreale follia. quando riaprì gli occhi il villaggio era vuoto, al posto della sua sposa solo l'anello che lui le aveva dato."

Purtroppo la campagna è "a caso" ottenuta incollando avventure prefabbricate alla buona, quindi dubito che il background si rifletterà in qualche modo nella campagna.

  • 3 mesi dopo...
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SARABI - Druida - Forgotten Realms (alcune location/nozioni corrispondono a "realtà" altre sono inventate)

La storia di Sarabi nasce in una terra molto lontana da quella in cui si trova ora. A sud della città di West Gate,

insinuata tra le coste di Long Arm Lake e la foresta di Gulthador sorge il villaggio di Nathlekh. Originariamente

c’era soltanto la sabbia e nulla più, finchè alcuni viaggiatori -per lo più esploratori ed alcuni druidi- non

decisero di stabilirsi lì e farne un rifugio sia per loro, sia per gli avventurieri che osavano spingersi nelle aspre

e desolate lande del deserto di Nathlan.

I genitori di Sarabi, Bul Khatos e Sazabi, furono i primi ad insediarsi li; si erano conosciuti anni prima in una

giornata fredda e piovosa nella foresta antistante le rovine di Star Mantle, lui sembrava essersi perduto e lei

stava aiutando un’orsa ferita a partorire… inizialmente Bul pensava che fosse in pericolo, ma resosi subito

conto della situazione, stupefatto dal suo coraggio, decise di aiutare come poteva quell’intrepida donna; lei

era una druida appartenente all’ordine del Monte dei Paschi di High Forest e viaggiava in tutto il Faerun per

diffondere la propria fede ed agire ove la Natura esigeva il suo intervento.

I 2 si piacquero subito e da quel giorno furono come una cosa sola, alcuni anni dopo ebbero una figlia, Sarabi.

Sarabi era una ragazzina vivace ed empatica, sotto l’egida dei suoi genitori -che gettavano le basi sull’oasi che

poi sarebbe diventata il villaggio di Nathlekh- crebbe con lo spirito di esploratrice del padre e l’amore per la

natura della madre, imparò da lei l’antico linguaggio druidico, il mondo delle piante e degli animali e come

dialogare con essi; dal padre invece sviluppò l’istinto di sopravvivenza con tutto ciò che ne deriva.

All’età di 16 anni aveva imparato tutto ciò che poteva e, in accordo con i genitori, partì da sola per la High

Forest in compagnia di Nala, la cucciola d’orsa che nacque il giorno in cui i suoi genitori si conobbero, con la

promessa che un giorno sarebbe tornata da loro. Arrivata a destinazione e presentatasi all’Ordine venne

accolta ed iniziata ufficialmente alle arti druidiche; il talento della giovane era evidente e, raggiunta la

completa maturità, ebbe l’opportunità di decidere cosa fare della propria vita: l’Ordine di High Forest infatti

suddivideva i propri druidi e ranger a seconda delle loro attitudini e inclinazioni, per meglio servire Obad-Hai.

La Mente, che comprendeva i druidi più ereduti e lungimiranti che si occupavano della gestione del territorio;

il Cuore, che comprendeva i druidi più anziani, saggi e potenti che si occupavano degli insegnamenti;

infine vi era il Bastone, ovvero quei druidi e ranger –e di rado barbari- che agivano e portavano a

compimento le missioni in tutto il Faerun; fu proprio il Bastone che Sarabi scelse come suo destino.

Negli anni al servizio del Bastone ebbe modo di incrementare il suo potere e le sue conoscenze oltre ogni sua

più rosea aspettativa, nonché di incontrare esseri e persone straordinarie tra i quali Markas, un barbaro

anch egli al servizio del Bastone, ma con un’indole decisamente più impulsiva ed una visione delle cose

decisamente meno “morbida” della sue. Ciò nonostante Sarabi rispettava la sua forza così come lui rispettava

quella di lei; i loro cammini si incrociarono più volte ma non si legarono mai.

Diversi anni sono trascorsi ed un’ombra oscura cala il suo sudario sulle terre della Marca d’Argento, sinistri

eventi si compiono, apparentemente sconnessi ma tutti dallo stesso tragico epilogo… morte.

Sarabi è dunque in missione, così come molti altri druidi e ranger dell’Ordine, per venire a capo di chi o cosa

stia orchestrando tutti questi omicidi… e fermare queste efferatezze prima che sia troppo tardi.

  • 6 mesi dopo...
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Laskan, questo è il mio nome. Ultimo di tre fratelli ho vissuto la mia vita tra un battesimo di vita e fughe rocambolesche.

Ricordo ancora il mio battesimo di fuoco, avevo appena sette anni quando mio padre, un cacciatore di frodo, mi portò all’interno di un bosco ad inizio inverno togliendomi l’acciarino dicendomi “ Tra poco scenderà il buio, trova un riparo e un modo per fare il fuoco: io tornerò domattina per vedere se sei ancora vivo” e detto ciò mi lasciò solo. Provai a seguirlo ma in risposta trovai il suo coltello puntato contro e la frase “potrei dire a tua madre che sei scappato…”.

Un’altra volta mi prese, avevo dieci anni, mi porse il suo lungo arco e ci dirigemmo a caccia. Eravamo nei pressi della foresta reale, chi veniva sorpreso a cacciare al suo interno veniva impiccato sul posto, indipendentemente che fosse donna, uomo o bambino. Riuscii a tornare a casa con due grasse lepri ed in risposta ottenni delle imprecazioni e un paio di cinghiate. Lo chiamava “il battesimo della caccia di frodo”.

A tredici fummo attaccati da un gruppo di goblin, per poco non persi mia madre. Uccisi due di quelle verdi creature…credo che fosse stata l’unica volta in cui mio padre mi guardò, mi dette una pacca sulla spalla dicendo fieramente “ah…figliolo, hai superato il tuo battesimo di sangue”.

Ultimo dei tanti, che mi fece fare mio padre fu a sedici anni: “il battesimo del destino”. Eravamo a caccia da giorni, lui era ubriaco come molte volte, stavamo rientrando a casa, un rifugio posticcio, con un magro bottino (un cerbiatto talmente magro che nemmeno con le interiora avremmo potuto mangiare per più di due pasti). Sentimmo dei rumori, mio padre divenne lucido in un attimo e acquattandosi si portò il dito sulle labbra per farmi capire di far silenzio. In lontananza un bianco manto passò tra due alberi, non dimenticherò mai quella maestosa creatura, ignara della nostra presenza, brucare l’erba per poi grattare il suo lungo corno contro la corteccia di un albero. Quell’essere immondo di mio padre estrasse l’arco ed una freccia, si passò il piumaggio tra le labbra e incoccò il dardo sul budello dell’arma. Fu un istante di lunga attesa e poi scoccò. Lo strale sibilò tra i cespugli conficcandosi nel ventre dell’animale, a pochi centimetri dal cuore. Un nitrito, quasi un urlo, squarciò l’aria come se il suono fosse stato lui stesso vivo. Guardai mio padre esultare e scattare in avanti e cadere subito dopo: una tagliola lo agganciò su un piede; la tagliola che aveva messo lui stesso mezza mattinata addietro. Dopo mille imprecazioni mi guardò come se fosse stata colpa mia e indicando il folto della boscaglia mi urlò “vai…vai e prendi quel corno…vale molto…se non ritorni a casa con quel corno: non tornare affatto…corri e non guardarmi così…io mi arrangerò” io scattai in avanti e appena mi volsi indietro mio padre si era già liberato, zoppicando appena mi fulminò con lo sguardo “muoviti… o la prossima sarà per te.” Camminai per tutta la notte, cercando le tracce di quel bellissimo animale, notai che il sangue era meno copioso, notai che il sangue era argenteo e non rosso.

Trovai l’unicorno a mezzodì del giorno seguente. Stremato mi avvicinai col coltello in mano, ma appena posai lo sguardo sui suoi grandi occhi neri capii. Capii che non era quella la via. Tolsi la freccia e tamponai la ferita con delle erbe che si trovavano li vicine. Passai una paio d’ore a cercare di tamponare il suo candido manto sporco di argenteo sangue. Non mi accorsi nemmeno che una figura mi stava osservando da diverso tempo. Un’elfa di immane bellezza, vestita di foglie e corteccia, con un copricapo a forma di corna di cervo. Appena mi alzai, lei si voltò parlando in una lingua a me sconosciuta, l’unicorno nitri, si alzò togliendosi l’impiastro con un tremito: era completamente guarito; fuggì in un batter d’occhio.

Lei non mi fece capire di andarmene, ma nemmeno di seguirla. Io la seguii fino ad un vecchi, grosso e nodoso albero. Ad un suo comando la corteccia si aprì, rivelando una scala. Alla fine della scala c’era la sua dimora. Attesi che fosse lei a rivolgermi la parola. Attesi fino a quando non si tolse l’elmo, riponendo la sua scimitarra in una fessura tra il legno, e sedendosi su un ceppo ( tutto all’interno dell’albero). “Ehlonna ti ha scelto. Obad-Hai è contento. E tu hai fatto la cosa più giusta” rimasi li con lei per diverso tempo, parlammo molto e seppi che ella era una druida. Una druida che proteggeva… protegge… qulla porzione di foresta. Passai con lei quasi un anno, la conobbi in maniera molto personale. Mi insegnò a leggere e scrivere, a vivere la natura in maniera selvaggia, a conoscere il vero amore, per lei e per tutte le creature. Mi istruì sul culto di Obad-hai e quello di Ehlonna. Di tanto in tanto riceveva dei messaggi, portati da gufi, furetti, addirittura un lupo una volta. Partiva per una paio di giorni, al massimo due settimane, dicendomi “devo andare al mio circolo, la mia gente ha bisogno di me e delle mie indicazioni” credo fosse un personaggio di rilievo ma non seppi mai quanto. Non mi parlava mai dei suoi obblighi. L’ultima volta che la vidi fu un paio di mesi addietro. Non capii che fosse un addio, ma dovevo immaginarlo.

Lei si avvicinò a me e ì mi baciò appassionatamente, la sua bocca sapeva da sottobosco, i suoi capelli da muschio selvatico e la sua candida pelle da menta, si portò una mano sul ventre prominente, ma questa volta disse: “tornerò, come sempre…addio” si avvicinò all’albero e dopo aver pronunciato una frase di potere attraversò il tronco come se non esistesse. Una lacrima cadde dalla guancia bagnando il terreno prima che lei potesse attraversare del tutto il druidico portale. Una viola ora nasce ai piedi di quella quercia.

Lei si chiamava. si chiama…non lo so proprio, nulla ha più importanza, tranne che servire Ehlonna…credo che dovrei andarmene, ma non trovo il coraggio: e se ritorna?

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  • 1 mese dopo...
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Janus Davakas, ranger (malvagio):

 

Lo stavano venendo a cercare e non sarebbe stata una visita di cortesia.
Aveva esagerato quella mattina, adirittura colpire con un pugno in faccia il garzone del macellaio, un ragazzotto da cui stare alla larga se si vogliono evitare guai. 
Ma del resto quel grasso stolto aveva insultato - ancora una volta - lui e i suoi famigliari deceduti... non che di quest'ultima cosa gliene importasse gran che.

Il vecchio focolare riscaldava l'ambiente spoglio e spartano di casa sua, se cosi si può chiamare: una catapecchia mezza diroccata oltre il limitare del bosco al confine più esterno di Trenz. Un luogo molto "appartato", si può dire.
Il poco più che ventenne stava aspettando che venissero - perchè sicuramente il garzone non sarebbe venuto solo - per restituirgli il maltorto, più gli interessi naturalmente. Si mise ad osservare il fuoco di casa sua e a poco a poco tornò con la mente al suo passato...

...un passato che sembrava piuttosto tranquillo, inzialmente. 
Suo padre, uno dei più validi guardia caccia del bosco, era un tipo burbero e robusto che sposò una contadina e insieme a lei andò a vivere al limitare del bosco. Era un uomo riservato e solitario, aveva poco a che fare con la vita cittadina, sebbene si dimostrasse sempre solare e disponibile ad aiutare il sindaco o chi gli chiedeva aiuto, spesso anche gratuitamente. Un buon uomo insomma. E con la moglie visse tranquillamente ed ebbe un figlio a cui insegnò ad usare l'arco, alcune tecniche di sopravvivenza nelle terre selvagge e in generale il suo mestiere.

Tutto procedeva bene... Almeno fino a qualche anno fa. 
Quando Janus aveva solo 8 anni, il padre dovette dare per ordine del sindaco la caccia ad alcuni braconieri. Lo fece, ma per sua sfortuna alcuni non meglio identificati colleghi dei malviventi catturati vollero dargli un ricordino per l'accaduto e mentre l'uomo era a caccia con il figlio, entrarono in casa sua ed stuprarono e sgozzarono la moglie; per il padre del ragazzo fu un vero shock, da cui non si riprese e che lo portò ben presto a chiudersi sempre più in se stesso e isolarsi ancor di più dalla comunità, evitando di lavorare ancora per il sindaco (al quale dava in parte la colpa dell'accaduto) o per chicchessia. Non solo. Cominciò a bere fino che l'alchol non diventò l'unica ragione di vita.
Questo suo autodistruggersi non fece per niente bene neanche all'ancora giovane Janus, che oltre alla perdita della genitrice sovente veniva maltrattato e picchiato in continuazione dal padre ormai in preda alla disperazione e all'ubriachezza. Una spirale d'odio e violenza verso il prossimo aleggiava nella casa dell'ex guardiacaccia, la quale entrò nella mente del giovane, che dal padre imparò ben presto a odiare e diffidare il prossimo, diventando riservato e introverso. 
Con gli anni - in cui continuava a subire i maltrattamenti di genitore ormai ubriacone - cominciò ad arrangiarsi sempre più, a vivere per il bosco e tornare a casa sempre meno per evitare proprio il contatto con il padre. E anche lui ovviamente non volle mai avere troppo a che fare con il villaggio di Trenz e i suoi abitanti, e vi si recava solamente per le esigenze o per rimediare qualche soldo ai mercati vendendo le sue prede di cacciagione.

Ma è proprio tornando a casa una sera dopo essere stato al villaggio che trovò suo padre ancor più ubriaco del solito il quale cominciò subito a picchiarlo e a bestemmiarli contro insulti per essere stato la, la dove risiedeva il sindaco e i suoi colleghi! E in un raptus di follia, spaccò sul tavolo la bottiglia di rum che aveva in mano, sfregiando il volto del ragazzo nella zona dell'occhio sinistro: Janus non era molto forte, è vero, ma sapeva virbare all'occorrenza la lama di un pugnale, la quale aprì in due la giugulare del padre, imbrattando di sangue lui e tutta la stanza in cui era. 
Ed è la che la vera natura del giovane prese finalmente forma concreta. Con sangue freddo prese il corpo del padre e lo trascinò nel fitto del bosco, lasciandolo la una notte intera: il giorno dopo, i lupi avevano già fatto pulizia del corpo. Nessuno avrebbe sospettato di lui e in pochi volevano ancora aver a che fare con il vecchio guardia caccia, quindi non ci sarebbe stato nessuno ad indagare e anche in quel caso, dire che si era spinto nel mezzo del bosco ubriaco fradicio e che in quello stato non è riuscito a difendersi dai lupi, sarebbe più che bastato.
Per gli anni a seguire continuò a provvedere a se stesso come faceva ormai da diversi anni, visto che era ormai considerato un ermarginato e come tale si comportava; entrava di rado al villaggio, per lo più a scopo "mercantile". Ma essendo cosi riservato ed emarginato rispetto alla vita cittandina, qualcuno cominciò a deriderlo, dandogli un soprannome singolare, per via di quel brutto taglio sulla parte sinistra del viso: "Occhio da serpente" o semplicemente lo chiamavano "il serpente". Non gli importava cosa dicessero gli altri di lui. Non se ne curava affatto.
Ma quella mattina... qualcosa è scattato in lui, e in seguito ai sempre più fastidiosi sbeffeggiamenti del garzone, non ha resistito alla voglia di spaccargli la faccia una volta per tutte...


"Crak"
Un rumore fuori casa.

Il ragazzo era talmente assorto nei suoi pensieri, che quasi non ha avuto nemmeno il tempo di capire cosa sia successo esattamente, mentre un mattone aveva fracassato il vetro della finestra di casa sua andandosi a spaccare sopra il caminetto e qualcuno buttò giù la porta di legno marcia dell'ingresso che finì proprio difronte al caldo del focolare: questo "qualcuno" però rimase sull'uscio e fu sorpreso di vedere che... in casa non c'era nessuno.
Ma lo stupore durò poco. Una freccia gli aveva trapassato il collo da parte a parte, uccidendo cosi sul colpo il grosso stolto che era venuto per punirlo. L'altro collega del garzone invece, che aveva rotto il vetro di casa, spaventato si girò per un istante verso il fitto e buio del bosco, dal quale partì un altra freccia che gli si conficcò su una coscia: Ansimando e singhiozzando per il dolore e la paura, si stava trascinando sulle braccia lontano dalla casa: ma il giovane Janus, avanzando lentamente e uscendo dal buio del bosco come un predatore che si gode la paura negli occhi della sua preda che non può più far nulla per salvarsi, incocca un altra freccia al suo arco: una volta sopra di lui - mentre questo lo fissa negli occhi implorando pietà - rilascia la corda dell'arco, lasciando che la terza freccia faccia il suo dovere.

Ora bisognava liberarsi dei cadaveri. 
Avrebbe fatto come nel caso di suo padre, portandoli nel bosco e lasciando che i lupi facessero il resto. Ma sta volta sarebbe stato diverso. Sarebbero venuti ad indagare e quindi prima avvolse uno ad uno i corpi in una grossa e vecchia coperta, evitando di lasciare troppe traccie di sangue da casa sua alla selva.
Fece l'operazione per entrambi i cadaveri e si appostò sopra un albero, a distanza da eventuali predatori: attese l'arrivo dei lupi e li guardò, alla luce di quella splendida luna piena, divorare i suoi nemici, e prima che potessero andarsene, uccise con un paio di frecce anche un lupo: Il resto del branco dopo qualche ora si stancò di dare la caccia al ranger che non riuscivano a raggiungere la in alto e si disperse, cosicche alle prime luci dell'alba Janus prese il cadavere del canide e lo portò fuori casa sua.
Si sarebbe preoccupato poi di mascherare e eliminare alcuni indizi troppo ovvi, ma aveva la scusa pronta nel caso le guardie fossero venute ad indagare: Un branco di lupi aveva attaccato i due poveri malcapitati mentre se ne andavano a zonzo per la foresta e un lupo adirittura si spinse fin casa sua per attaccarlo, sfondandogli persino la porta d'ingresso dopo aver rinunciato ad entrare dalla finestra...

Ma anche se gli andava bene questa - stava pensando il ragazzo - sarebbe stata ora di andarsene dal villaggio... aveva sentito parlare di una gilda chiamata "ombra". Una gilda di assassini e ladri... e che forse poteva fare al caso suo. L'avrebbero pagato anche bene probabilmente...

  • 4 settimane dopo...
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Lauren Aghram, Paladino in una campagna decisamente dark e senza pietà, sperduto, in compagnia solo di un gruppo di scapestrati viandanti, in un regno caduto 10 anni prima a causa di ricerche magiche che non dovevano essere fatte, dove creature uscite dai peggiori incubi umani (e dal Piano Remoto, ma questo è metagaming!) infestano le notti, dove cultisti folli ma freddi controllano intere città, dove i pochi abitanti di villaggi rimasti temono anche di uscire di casa, dove uno spietato ordine di cavalieri caccia e brucia indistintamente cultisti, mostri e chi non aggrada la loro Contessa.
Già, non sembra messo bene, ma nonostante tutto è arrivato al livello 4, vedendo morire SOLAMENTE 3 dei compagni di viaggio iniziali. Scusatemi il preambolo.
 

E' sempre bello avere dei compagni di viaggio, signore, quindi faccia pure la strada con me!
Chi sono io? Un umile viaggiatore, come lei. Non mi crede? Oh beh, direi che posso dirle chi sono.
Mi chiamo Lauren Agrham, dei Guardiani Bianchi. Già, sono un cavaliere. Un paladino, per la precisione. La mia via non è una che si sceglie perché sì, si è chiamati ad esserne parte.
E per me fu la cosa più naturale della vita. Non sono figlio di un nobile o di uomo di potere.
Per gli dei, in realtà lo sono, ma non agli occhi del mondo. Sono un figlio bastardo. Mia madre è di nobili natali, Laura da Ivalist, sposa di Granon di Mirdral, barone di quelle terre. Lui è un uomo molto austero, duro, ben poco gentile e misericordioso. Non so dire se un tempo amò mia madre, spero di si, ma con il tempo si allontanarono. Un giorno, ormai 20 anni fa, alla corte di Mirdral giunse un cavaliere, come me. Egli si era recato là per ordine del suo ordine, i Guardiani Bianchi, per svolgere alcuni compiti a me sconosciuti e servire a corte nel frattempo. Granon era preso da chissà che questione politica, e nel frattempo mia madre e quel cavaliere si innamorarono. Chi lo sa se ci speravano in un amore, ma temettero sempre il peggio. A buona ragione. Mia madre rimase incinta, ma non del marito. Alla mia nascita finse la mia morte, affinché potessi scappare con quel cavaliere che è mio padre, Lavarre Agrham, che mi diede questo nome in onore della donna amata. Fu così che crebbi con mio padre, un uomo imponente, dallo sguardo fiero, serio ma anche dolce e gentile. Molto spesso lui però non era con me, dovendo partecipare alle cerche affidate a lui dall'ordine, quindi spesso ero con altri membri dell'ordine: pacciosi chierici, serissimi cavalieri, giovani reclute o anziani paladini ormai troppo vecchi per continuare le loro gloriosi vite.
Il mio ordine infatti racchiude molti uomini e donne: chierici e paladini di numerose divinità votate al bene, quindi dentro la varietà di individui e razze non manca. Non ho avuto una famiglia tradizionale, ma sicuro non mancava la compagnia, anche di altri bambini: orfani, figli che non potevano essere mantenuti dai genitori, cadetti di cavalieri, iniziati di varie religioni...
Molti di loro erano volenterosi e spinti da una passione incredibile... e tra essi, anche io.
Crebbi con dentro di me una vocazione unica. Sentivo dentro di me lo spirito del cavaliere, del guerriero divino, dell'eroe. Così mio padre stesso, quando possibile, mi addestrava con altre reclute all'arte delle armi e della battaglia. Tra le altre reclute, vi era Laya. Una ragazzina, arrivata pochi giorni prima del inizio del nostro vero addestramento. Non sapevo nulla di lei, ma come la vidi capii che era come me. Nello sguardo e nella sua postura di ragazzina magrolina di forse tredici anni vi era un orgoglio e una forza indescrivibili, molti altri non avevano praticamente il coraggio di fissarla. Io però non percepivo tutto ciò, anzi, con lei mi sentivo più a mio agio che con altri...
Non so come, ne perché ci volle questo tempo.. ma mi innamorai di lei. Della ragazzina che mi picchiava con la spada e che con cui facevo a gara di tiro con l'arco. Eh già, non mi posso lamentare della mia infanzia, decisamente poetica, ah! Ma non ebbi mai il coraggio di parlare, se non quando, 1 anno fa, lei fu trasferita in un'altra sede dell'ordine, per finire l'addestramento. Quella sera, la incontrai nel tempio del nostro monastero, mentre era immersa nella preghiera, e le raccontai tutto. Che follia, mi dissi sul momento. Mi sentivo tremare, come fossi un ragazzino, non l'uomo che ero diventato. Ma quanto ero in errore, lo capii solo dopo. Anche lei provava i miei stessi sentimenti. Amore. Ci baciammo, ma poi lei dovette partire. Per molto tempo fui tristissimo, sentii vacillare lo spirito che mi aveva animato fino ad ora. Dubitai di me stesso. Ma poi mi ripresi. Ero più di un semplice soldato, sentivo dentro di me la chiamata degli dei, e sapevo come anche Laya la sentisse. Se volevo onorarla, avrei dovuto impegnarmi. E così ripresi ad addestrarmi seriamente. Tutto questo fino a tre mesi fa, quando sono stato ufficialmente ordinato Cavaliere dell'Ordine dei Guardiani Bianchi. Quella era anche la sua investitura. E' così, fianco a fianco, desiderosi di parlarci ma troppo presi da ciò che ci aspettava (e anche impossibilitati a distrarci davanti ai nostri superiori), venimmo nominati cavalieri. Eravamo pronti. Ci scambiammo una promessa prima di venire di nuovo separati dal destino: ci giurammo che saremo diventati grandi cavalieri, degni del nostro titolo, che non saremo caduti come degli idioti sul campo di battaglia. Un giorno ci saremo rivisti, finalmente divenuti veri eroi, veri cavalieri. Ci saremo riuniti, per sempre. Per questo ora sono in viaggio, questa è la mia prima missione affidata dal mio Ordine. La prima vera occasione di provare a tutti di essere all'altezza del mio titolo, e per non tradire la promessa fatta a lei. Ora sono in partenza, la città di Zina è a soli due giorni da qua, da lì cercherò qualcuno che possa unirsi a me per scoprire cosa sono le creature mostruose che infestano l'Est di questa città, e possibilmente di scoprire da dove arrivano. Dei, Padre, amici, Laya... datemi la forza di brandire la mia arma, perché

Sul nome degli dei giuro di vivere come più degnamente sia possibile per un mortale,
sempre sia la mia fede rivolta agli dei della Luce, che guidano l'umanità in questa tetra landa mortale e ci liberano dall'Oscurità.
Fino a quando il mio cuore batterà, fino a quando avrò la forza di impugnare la spada, fino a quando le mie gambe mi reggeranno,
che io possa essere la spada con cui Essi squarciano le Tenebre!

Pace attraverso l'Ordine,
Ordine attraverso la Giustizia,
Giustizia attraverso la Forza,
Noi siamo lo scudo che difende i deboli
Noi siamo la spada che distrugge il male
Noi siamo i Bianchi Guardiani, e mai verremo piegati!

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  • 1 mese dopo...
Inviato

Nata da l'incrocio tra un Kyat, Leoian “Catslove”, un bardo rinomato tra la sua razza per le famose epopee con protagonisti come Faina, Haseo, Aleka e Nikaiao; ed un'elfa, Ellenrow, la sola discendente della casata dei Yllallynn caduta in rovina molti anni fa. Il padre vagabondando per la regione elfica, conobbe la madre e s'innamorarono.

La madre, originaria di Eylin, fu cacciata da casa per aver disonorato la famiglia e costretta ad abbandonare la propria città, a causa del compagno che non rispettava i canoni della razza e seguì l'innamorato nei suoi viaggi. Quando si scoprì incinta decisero di stabilirsi vicino alle Rovine di Bellodon, dove aveva sede un insediamento Drow che conviveva con dei Kyat, del quale era natio il padre.

Alla nascita si scopre che non era un bimbo solo, bensì due gemelli, un maschio ed una femmina con delle strane particolarità: il maschio aveva preso le caratteristiche razziali della madre, ovvero un elfo; mentre la femmina quelle del padre, un Kyat; entrambi avevano ereditato, inoltre, delle particolari discendenze: possedevano una predisposizione alla magia e dei tratti derivanti ad antichi progenitori della madre.

Le nutrici che aiutarono la madre nei mesi successivi notarono come il piccolo Liam Meadow seppur con gli occhi aperti non riuscisse a seguire alcuna forma o luce: era nato cieco. I Bambini crescevano in simbiosi, la piccola Evaine Miriia, raccontava tutto ciò che vedeva al fratello e cercava di rendere la sua vita il più normale possibile, tanto che molti stranieri non comprendevano subito che il ragazzo fosse cieco. All'insediamento arrivò anche una famiglia di Dvati con le figlie e i quattro bimbi diventarono inseparabili, difatti Evaine era l'unica a riuscire a distinguere le due gemelle Drusilla e Dravinia per di più la piccola regalò alle due, un orecchino con presente un cuore sul lobo a cui seguiva una catenella ed infine un semi anello da incastrare sulla parte superiore del padiglione auricolare, e per differenziarle meglio impose che lo dovessero mettere su l'orecchio opposto. 

All'età di 10 anni avvenne la tragedia: i genitori e il fratello furono portati via e di loro non si seppe più nulla. La piccola invece fu salvata dal semplice fatto che in quel momento si trovata non molto lontano da casa, dunque vide la scena ma venne portata in salvo da dei Drow consci della situazione e che l'allevarono fino all'età di 15 anni. I Drow le hanno inculcato l'odio vero i Tiefling seppur però essa non li attacca se non provocata, oltretutto la bimba, convinta della morte dei genitori e sconvolta dalla perdita del gemello si avvicinò sempre di più alle pratiche della necromanzia, fino a decidere di farla diventare parte di sé. 

Al compimento dei 15 anni, ricevette una lettera dal fratello, dove le diceva quanto le voleva bene e che era felice che fosse riuscita a fuggire allo stesso destino a lui riservato. Ciò rinvigorì di speranza la piccola Evaine e la istigò a partire verso l'ignoto alla ricerca del fratello e delle risposte su quanto le era accaduto.
 

La mia piccola Evaine, necromante del terrore. Il background era stato fatto per incastrare dettagli e varie conoscenze dei componenti del party. Mentre i luoghi sono parte dell'ambientazione del nostro DM.

 

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