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Inviata

ecco il primo racconto che provo a scrivere... beh, spero vi possa piacere... poi ditemi come l'avete trovato

THE LADY IN THE FOG

Una delle sensazioni più strane, particolari, uniche oserei dire, è quella provata camminando nella nebbia dell’autunno inoltrato, sul finire di Novembre, quando ormai il vero gelo invernale è alle porte e pochi osano rimanere per strada nelle tenebre, pochi poeti o folli, che amano accarezzare il velo di nebbia che si solleva dal suolo ancora umido per la pioggia, mentre odono la dolce e lugubre sinfonia della solitudine. E’ strano come l’umido manto grigio si presenti da lontano somigliante ad una parete viscosa, quasi solida, per avvicinarsi poi silenziosa, passo dopo passo, seguendo il ritmo dell’avanzamento scandito dal leggero e pensoso procedere dei temerari che vagano dopo il tramonto, e infine avvolgere l’incosciente creatura senza che nemmeno questa se ne accorga, quasi inglobata da una massa eterea e fredda, che rende umida la pelle delle mani e del viso, e offusca la visuale, isolando così in un mondo parallelo chi vi si addentra, o chi ne viene ingoiato, un mondo buio e umido, viscoso, con la sola presenza solida del terreno su cui si procede incessantemente, e che si vede mutare, dal grigio e liscio asfalto, ultimo segno dell’umanizzazione visibile, fino alla terra gelida e aspra che segna l’avvicinarsi ad una radura.

Così mi accadeva e io, assorto nei miei pensieri, non facevo caso a come attorno a me il paesaggio fosse gradualmente svanito, a come case e cancelli mi avessero abbandonato alla triste sorte di chi sa, intuisce, sente dentro di se, nelle sue ossa, che una parte della sua mente lo abbandonerà presto, cedendo il posto ad oscuri recessi di follia.

Solo procedevo, schivando saltuariamente quei pochi rami che, presentandosi tesi, nodosi e minacciosi di fronte al mio pallido viso mi annunciavano che oramai avevo abbandonato le vie del paese e mi ero avventurato, per volontà non mia, nel piccolo bosco vicino a casa, che tanta allegria mi lascia nel cuore durante le felici passeggiate al sole primaverile, altrettanta cupezza e gelida paura mi innesta nelle ossa in sere d’autunno come quella che ora ricordo.

Riflettevo, come amavo fare, pensavo a ciò che la fantasia, o un sesto senso per l’occulto, mi suggeriva su quella nebbia densa come raramente se ne vedono, tale da nascondermi la vista delle mie stesse dita se osavo tendere il braccio per proteggermi dagli ostacoli imposti dalla radura: sognavo di quella tetra sostanza che mi avvolgeva e mi si insinuava nelle ossa, di come fosse troppo oscura e maligna per trattarsi semplicemente di un comune fenomeno meteorologico dovuto all’evaporazione, di come le origini dell’eterea forma in cui ero immerso fossero da ricercarsi in un modo che non è quello che conosciamo.

Sono, mi dicevo, e tuttora me ne pento, le anime, gli spiriti dei defunti che se ne sono andati da questo mondo senza meriti e senza onori, di quelli che ancora qualcosa hanno da dire ai mortali, o semplicemente di coloro che furono troppo maligni per poter accettare di smettere di causare terrore e sofferenza; e fu proprio mentre formulavo queste demoniache supposizioni, che un alito di vento mi confuse le idee, facendomi udire un sottile e melodioso canto uscire dalla notte. Illusione, mi dissi, devo essermi illuso che il sibilo del vento notturno fra gli alberi fosse una voce; conviene forse tornare a casa, questi pensieri mi stanno portando troppo lontano da casa, ma ora so che mi stavano portando ben più lontano di quanto potessi immaginare, lontano da quanto è lecito che un essere umano minimamente desideroso di mantenere il proprio intelletto dovrebbe osare avventurarsi.

Casa, quanto la desideravo! Il tepore provato nello stare assorto in una lettura, seduto di fronte al camino acceso, il brillare di un fuoco caldo e scoppiettante era per me l’Eden, se paragonato a ciò che mi circondava.

Mi stavo di nuovo perdendo nei miei foschi pensieri quando udii per la seconda volta quella voce, la udii intonare una melodia di altri mondi, una sinfonia tanto lugubre ma tanto bella e attraente che non credo sia possibile per una creatura, se non dotata di una saldezza mentale sovrumana, resisterle; questo canto di sirena suonava così distante che non potevo distinguere le parole pronunciate, ma allo stesso tempo così vicino da indurmi a cercane la fonte.

Camminavo ormai nel fitto del bosco, e la fredda nebbia rendeva umide le membra del mio freddo corpo, vi si attanagliava per poi evaporare e staccarsene, trascinando con sé parti di spirito e di mente.

Quando ormai mi ero sufficientemente avvicinato alla sorgente di quella melodia che di angelico aveva la bellezza, ma una sinfonia degna degli Inferi, iniziai lentamente a distinguerne la forma attraverso la lugubre foschia: lentamente mi resi conto che l’essere creatore di quell’armonia di suoni era una dama che mi volgeva le spalle mentre proseguiva il suo cammino di fronte a me. Poco a poco mi resi conto delle sue splendide fatture, coperte da un manto etereo che pareva della seta più fine, e che dopo essere giunto a coprirle le caviglie, avvolgendola interamente, andava a fondersi con la foschia della quale era formato, come anche colei che magnificamente lo indossava, o almeno così mi pareva data la scarsa possibilità di vedere che mi era fornita dalla nebbia.

Doveva essere una creatura del Paradiso, in quanto solo il cielo è degno d’avere nelle sue genti una creatura di tale soave bellezza e dalla voce così dolce, e queste deduzioni mi indussero ad affrettare il paso per raggiungerla, desideroso di lasciarmi mostrare il suo volto, certamente degno della sua bellezza d’altri mondi.

Una volta raggiuntala le posai la fredda mano sulla spalla per richiamarne l’attenzione, senza pronunciare verbo, a causa del freddo che mi rendeva eccessivamente debole, per trovare che il mantello era più gelido della nebbia che ci circondava.

Ella si girò dunque, e alla vista di ciò che mi si presentò in quel momento non potei che convincermi che alcune anime sono troppo malvagie per lasciare questo mondo, per smettere di infliggere sofferenza. Fui trovato il giorno successivo, svenuto e salvo per miracolo, solo perché trovai nella mia mente la forza per correre via. Appena mi svegliarono riconobbero lo stato di shock in cui mi trovavo e dal quale non mi sono ancora del tutto ripreso, poiché persino ora, a due lunghi anni dall’accaduto, se scruto la nebbia nelle tristi sere di fine novembre, nella mia mente si proiettano le immagini di quella creatura coperta di un sottile manto e incappucciata dallo stesso che, liberatasi da quella maschera, mi rivela non un angelico corpo, ma un’informe accozzaglia di volti di spirito, dalle orbite vuote e dalle membra tese, dalla cui bocca spalancata esce quella che, distorta, poteva sembrare una dolce melodia, ma che ora si rivelava essere nient’altro che il loro lugubre invito ad unire la mia anima alla loro schiera di dannati, e ancora prima di lasciarmi cadere nelle braccia d'Orfeo, odo la loro voce: ”Vieni, lascia il tuo corpo mortale, unisciti ai morti, cedi la tua anima alla nostra nebbia, unisciti ora a noi”.


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Principali partecipanti

Inviato

O-o... Uno stle fluente e leggibile, un tocco di suspence, il nebbioso brivido che cala sulla scena... un ottimo racconto. Unico appunto è il vocabolario: in diversi punti una più attenta scelta delle parole avrebbe dato un effetto migliore...

Comunque complimenti!

Inviato

grazie dei complimenti... sentendo cosa ne pensi, come primo racconto direi che sono soddisfatto :-D

penserò meglio al lessico la prossima volta... diciamo che mi sono voluto concentrare più sull'atmosfera

:bye:

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