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Inviata

Questa è una cosetta che ho scritto qualche tempo fa. Mano a mano aggiungerò altri racconti. Con calma. :-p

Spoiler:  
Fabio non andò a dormire. Aveva troppa dannatissima voglia di farsi. Sua madre si coricò presto, e appena chiuse la porta della sua camera (non si erano degnati di uno sguardo) andò in cucina senza far rumore, riscaldò la roba sul fornello e riempì due siringhe. Si iniettò il contenuto della prima. Si sdraiò sul letto e giacque supino per ore, ad ascoltare il ritmo del proprio respiro.

Guardava le macchie d’umido sul soffitto. Da quando il papà era morto non c’era stato più a nessuno a nasconderle con una mano di vernice. Quando la radiosveglia sul comodino segnava le 01: 43 si alzò a fatica. Era quasi ora.

Aveva dimenticato di chiudere le imposte e la luce dei lampioni entrava a illuminare un letto, una scrivania e una libreria.. Lontano, all’orizzonte, celata dalla nebbia, la montagna lo chiamava.

Fabio cercò di bilanciare il peso sul parquet, ma questo scricchiolò. Era troppo fatto. Raggiunse la cucina strisciando per non fare rumore. Gli facevano male tutte le ossa, ma si sentiva piacevolmente leggero, distaccato. Tutto quella ***** non lo riguardava più.

Uscì in balcone e aprì la porta attento a non fare il minimo rumore. Si infilò le scarpe. Tornò dentro e si sedette per terra, in cucina, con la testa fra le mani.

Nei film di solito in quel momento arrivava una ragazza bellissima e ricchissima e americanissima che si sbatteva l’eroe solitario e tutto andava a posto. Fabio voleva solo lei, nessuna ******issimi troietta a stelle e strisce. Lei.

Uno scrittore buonista, di quelli che leggeva ogni tanto, avrebbe svegliato sua madre. Poi lei lo avrebbe preso in braccio e consolato e avrebbe cantato per lui come quando era piccolo e aveva la febbre.

Non accadde nulla. Nessuno scrittore buonista, nessun ******o buontempone amante della vita. Fabio sorrise di un sorriso simile a una crepa nel muro.

L’orologio dell’Inter appeso al muro, sotto il calendario, segnava le due. Glielo aveva regalato sua zia Chiara quando aveva compiuto nove anni, più di sette anni prima.

Era incredibile come fosse passato il tempo. Sembrava un concetto di una banalità sconcertante, a esprimerlo. Era una di quelle tipiche ********* che diceva sua madre quando era in imbarazzo perché il figlio dei lori vicini di ombrellone, al mare, a scuola aveva una media più alta della sua. Ma era vero.

Papà. E poi ce l’aveva quasi fatta. Lei. Con lei si sentiva capace di tutto. E poi un bel giorno lei non c’era più stata. Se n’era andata, come prima aveva fatto suo padre.

Era bello riuscire a pensarci, per la prima volta dopo tanto tempo. NO! NON DEVI!

Forse era la roba, ma non riuscì a non pensare a papà. La roba, già.

Papà, quel figlio di ******* che li aveva lasciati da soli. Correva sempre in macchina, anche dopo la terza bottiglia. Lui e la sua Porsche, la sua ***** di Porsche. A cosa gli servissero, poi, due macchine, lo sapeva solo lui. Non erano nemmeno riusciti a ricucire il corpo per il funerale. E non lo avevano cremato.

Su quel punto era stato chiaro. Voleva che le sue ceneri fossero sparse sulle sue montagne. La mamma si era opposta.

-So che non è mai stato religioso- aveva detto. -Ma io credo gli avrebbe fatto piacere riposare vicino ai nonni, al cimitero.

Fabio si era messo a urlare che se un uomo non poteva neanche decidere cosa fare del suo corpo, l’odiata società occidentale era davvero arrivata alla frutta. Sua madre però aveva risposto con calma che non poteva deciderlo lui. Non era giusto.

-Lui se n’è andato. E visto che ci ha lasciato prima del tempo, visto che ci ha dato metà della gioia che avrebbe potuto darci, ora il suo corpo è nostro.

Fabio non aveva detto niente. Era troppo stanco per ribattere che papà i nonni li aveva sempre odiati, da quando a diciassette anni era scappato di casa. Troppo stanco.

Una sola lacrima gli rigò il la guancia. La asciugò con distacco. Lo faceva sempre piangere, quello *******, ma sapeva di dover risparmiare le lacrime. Se ne sarebbe ritrovato a corto nel momento cruciale.

Alle 02: 38 capì che non sarebbe successo nulla. Strisciò di nuovo sul parquet, le ossa in fiamme, fino alla sua camera. Prese lo zaino dalla sedia vicino alla scrivania e se lo mise in spalla.

Com’è leggera la morte! Rise. Il raspare degli scarafaggi su di un pavimento sudicio.

Nell’ingresso riusciva a sentire il respiro regolare di sua madre che dormiva. Aprì la porta e se la chiuse alle spalle. Non fece nessun rumore. Era tutto così definitivo. Accese la luce nel giroscale e discesi un paio di gradini, tornò indietro. Doveva vedere la mamma per l’ultima volta.

Si infilò la mano nella tasca dei jeans per prendere la chiave, ma non c’era. Se l’era dimenticata in camera, nel vaso sulla scrivania. Ma perché non l’aveva presa assieme allo zaino? Effettivamente, pensò, non gli sarebbe servita a molto.

Una vocina sottile e sadica gli sussurrava che c’era una altro motivo: vedere sua madre gli avrebbe tolto anche il poco coraggio che conservava ancora. Come diceva lo psicologo da cui l’avevano mandato a scuola, c’era sempre un motivo. Gli pareva di sentirlo, quel ********.

Peccato che fosse una gran cazzata, però, si disse tentando di mettere ordine nel flusso in piena di pensieri persi nella sua testa. Non aveva preso la chiave perché non gli sarebbe più servita. Mai più.

Fabio rimase un minuto davanti alla porta. Desiderava che qualcosa lo costringesse a suonare il campanello come mai aveva voluto qualcosa nella propria vita, ma non c’era nulla a costringerlo.

Affanculo, allora, tutti voi, anche tu, mamma, anche lei, ma io per primo e soprattutto, pensò. E tornò nella sua bolla di ovattata apatia. Scese le scale di fretta, correndo, e prima di avere la possibilità di fermarsi aprì il portone e uscì nella notte gelida.

L’aria invernale gli punse la pelle. Faceva un freddo maledetto, nonostante la roba, e si era dimenticato di prendere la giacca. Incominciamo male. Sentiva cento e mille voci che gli urlavano in testa, ma era come se la testa non fosse la sua. Era tutto così leggero!

Che botta.

Tremando si incamminò nella città che sognava i suoi sogni obliati. Il suo respiro sibilante diventava vapore a contatto con la notte fredda. Non c’era nessuno in giro. Come poteva essere altrimenti, alle tre di notte di un mercoledì di dicembre?

Prima di salire, voleva tornare in tutti i posti che avevano significato qualcosa per lui, per loro. Aveva il diritto (o il dovere) di piangere per lei ancora una volta. E ogni volta che si fermava a contemplare una scalinata, una panchina o un albero in un parco che dormiva nella brina, gli occhi gli si facevano umidi, e il freddo non c’entrava nulla.

Lei era ovunque. NO!

In ogni angolo della città addormentata c’era un fantasma ad attenderlo, sempre lo stesso fantasma, ammantato nell’ombra, uno spettro che risvegliava in lui sensazioni antiche. Da mesi si era costretto a dimenticare, a dimenticarla, e ci provava anche in quel momento, mentre camminava, ma era come respingere una tormenta a mani nude, come tenere un lupo ringhiante stretto al petto e lasciarsi dilaniare.

Non aveva visto nemmeno la metà dei posti a cui voleva dire addio, ma il freddo era insopportabile e lo feriva con lame d’acciaio e all’improvviso tutta quella ricerca, quel rincorrere il tempo perduto gli sembrò inutile. Era sale sulla ferita di un arto che presto avrebbe amputato. Ringraziando Dio. E la roba.

Aveva un compito da portare a termine. Ormai, lui era quel compito. Si foderò di distaccò e con uno sforzo immane scacciò i rimpianti. Fu uno sforzo che prosciugò quasi tutta la sua esile volontà, ma ci riuscì.

Accelerò il passo. Gli edifici si facevano sempre più radi. La montagna era vicina, incombeva sulle strade con i suoi pascoli e i suoi boschi, innevata.

La strada divenne più stretta e incominciò a salire con lunghi tornanti. C’era neve ai margini della strada e sugli alberi. Fabio la distingueva anche nel buio. All’inizio formava solo uno strato sottile, ma via via che saliva aumentava fino a gravare gli alberi con il suo carico immacolato e a monopolizzare il paesaggio con il suo candore accecante.

Non giunse un rumore a rompere la quiete. Il silenzio era intervallato solo dal suo respiro reso affannoso dalla salita. Sudava e il sudore gli si congelava addosso. Tremava, ma non gli importava. Quello non era il suo corpo. Lui non aveva corpo.

La strada tornò pianeggiante e Fabio arrivò in paese. Fu accolto dal consueto odore di fieno e *****, un olezzo che gli era familiare. Ai lati delle strade e nei giardini la neve era alta mezzo metro.

Erano le cinque, e la notte ancora non accennava ad arrendersi. Qualche Bauer, qualche contadino, camminava con aria stanca, immerso nelle proprie incombenze. Un uomo sulla cinquantina con un ridicolo cappello da cow-boy sul capo lo squadrò con aria xenofoba passandogli accanto. Che ci faceva lì, quel dannato Walsche? Un drogato, per giunta!

Le sue gambe sapevano dove andare. Lo condussero fuori dal paese senza esitazioni. Imboccò una strada sterrata che entrò nel bosco e divenne un sentiero. Il bosco era oscuro, ma gli uccelli e gli insetti cominciavano a svegliarsi. Fabio lo sentiva. La neve gli arrivava al polpaccio. Dopo tre passi era fradicio, ma non gli importava.

Ogni tanto incespicava, incerto sulle proprie gambe, immerso nel buio dell’ora che precede l’alba ma non che è la parte più nera della notte, quella dove anche il sole sembra essersi arreso.

Sarebbe quasi stato felice, ma c’era lei dietro ogni svolta del sentiero, nascosta dietro ogni tronco. La sentiva, pronta a saltargli addosso ridendo e a baciarlo con foga con le sue labbra rosse come mele mature.

E sapeva che una parte, la gran parte, avrebbe ricambiato il contatto di quei denti dritti e bianchi e avrebbe socchiuso la bocca alla sua lingua leggera… LA DEVI FINIRE!

Si riscosse e continuò a camminare. Amava quei pini coperti di neve. Amava i corvi e le gazze e i passeri che incominciavano a cantare, incuranti dell’oscurità. Come tutti i giorni, nonostante il freddo e l’effetto serra e gli inverni che non erano più quelli di una volta e le mezze stagioni che non c’erano più, cantavano. Non dubitavano che il sole sarebbe sorto presto.

Ne aveva da imparare, lui, da loro! Se solo avesse potuto trasformarsi anche lui in un passero! Ma quanto sei gonfio?!

La natura era così perfetta, così calibrati i suoi perenni equilibri, che a Fabio saliva spontanea una domanda alle labbra. Cosa c’entrava lui con tutta questa perfezione, con tutta quella sacralità?

L’Eden era la natura e Eva, ascoltando il Serpente, ci aveva precluso la possibilità di farne parte, o di sentirci tutt’uno con essa? Fabio lo credeva.

Dio, perché hai creato l’uomo? Perché hai dato vita a qualcosa che non è bestia e non è spirito, non è istinto e non è calcolo?

Come una risposta alle sue domande, un pino silvestre gli scaricò il suo carico di neve in testa. Fabio cadde a terra, travolto. Se prima congelava, ora gli mancava poco all’ipotermia. Si rialzò e riprese camminare nel bosco silenzioso. Il cielo a Oriente cominciava a schiarirsi. Ancora qualche minuto e sarebbe arrivato.

Gli alberi finivano e oltre un basso steccato si stendeva un enorme pascolo in leggero declivio. Fabio se lo ricordava verde e umido di pioggia o rugiada, con i fiori gialli e rossi e blu che facevano capolino. Ricordava i cavalli e le mucche che brucavano e il ding-dong delle campanelle appese al collo e il frinire dei grilli. In quel momento era bianco, e i il verde e fiori dormivano in letargo sotto più di mezzo metro di neve.

Oltrepassò lo steccato come aveva fatto mille volte quell’estate con il cuore traboccante di felicità. Camminava assaporando la tristezza e la nostalgia che lo colmavano a ogni passo. Sprofondava nella neve fino alle cosce.

Il prato finiva con un’altra staccionata. Fabio la scavalcò e si fermò davanti alla Roccia.

Era lì che…


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Inviato

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Si avvicinò di qualche passo per vederla meglio. Era un’enorme pietra alta una ventina di metri. Il lato rivolto verso di lui era dritto e scosceso, impossibile da arrampicare, ma dall’altra parte la roccia (la Roccia) formava una sorta di scala naturale e Fabio si arrampicò.

In cima pianse. Era un pianto distaccato, somigliava più a una secrezione liquida che a qualcosa di emotivo. Non si sentiva coinvolto. Tutta quella ***** non lo riguardava più.

Dalla sommità piatta della Roccia vedeva tutt’attorno i pascoli innevati e più lontano le baite dei contadini. Si stagliavano nere sullo sfondo bianco accecante.

Un cane abbaiò, come a salutare l’alba. Infradiciandosi completamente i pantaloni (no, stavolta la sua ***** di salute cagionevole che faceva tanto ridere suo padre, prima che due metri di terra e tre centimetri di legno, insieme a un frontale contro una SUV, gli rendessero il riso difficoltoso, non avrebbe avuto il tempo di rifilargli un’influenza), si sedette gambe incrociate e prese lo zaino in grembo.

Armeggiò qualche secondo con la cerniera che non si lasciava aprire dalle sue mani intirizzite (anche lo zaino gli diceva di non farlo, forse. No, era la roba.) ed estrasse un laccio emostatico e la siringa che aveva conservato. Grazie a Dio era arrivato, perché la scimmia cominciava a mostrare i primi segni di presenza. Si grattò.

Ce n’era abbastanza da uccidere un elefante, comunque. Voleva andare sul sicuro. Che botta!

I primi raggi del sole che gli nasceva di fronte si riflettevano sull’ago di metallo, accecandolo. Le lacrime nei suoi occhi scomponevano la luce riflessa dalla neve e dall’ago. Trasfiguravano il paesaggio e l’orizzonte in una landa bianca punteggiata di tenebra.

Si tolse la felpa e rimase in maglietta. Tremava come una foglia. Indossava la stessa T-shirt a maniche corte che aveva addosso quando… (NOOOOO!!!) … l’aveva baciata la prima volta, al concerto.

Tanto, che importanza aveva se si affidava ai ricordi per vincere il freddo e la paura? Non temeva più di perdere la forza. Non era nemmeno stato così difficile.

Era arrivato al capolinea, e aveva tutto il diritto di pensare a quello che voleva. A lei.

Quanto coraggio gli ci era voluto per chiamarla quel sabato pomeriggio di dieci anni (meno di uno) prima!

-Pronto-sono-fabio-sai-quello-del-classico-in-classe-con-la-Laura-non-è-che-stasera-lo-so-che-hai-il-ragazzo-però-non-è-che-stasera-dicevo-volevi-venire-al-concerto-con-me-quello-al-Cubo?- *****, se non respiro subito svengo!

-Mmmh… OK, per me va bene... Tu co…

-Sì? Cioè sul serio? OK. Fatta. Allora-ti-vengo-a- prendere-sotto… Fatta. Dove-abiti? Cioè-scusa-sono-un-po’-nervoso, sai com’è? Comunque adesso parlo più piano, ci provo… Dove è che abiti? via della Mostra? Fatta. Nove meno un quarto? Fatta?- No! Cretino! Dovevi lasciarla finire! Idiota!

-Ah, OK, sennò potevamo anche vederci da qualche altra parte…

-No. No, va bene così. Nove meno un quarto via della Mostra? Fatta?

-OK.

-Fatta-

-Però se dici ancora fatta ci ripenso…- Oddio no! S-T-A S-C-H-E-R-Z-A-N-D-O! Sicuro? No!

-Cosa? No! Scusa! Oddio!

-Scherzavo! Niente. Allora alle nove meno un quarto sotto casa mia.

-Fatta, no cioè, scusa, OK. Ciao.- Sei un imbecille imbecille imbecille ********!

-Ciao. Ci vediamo dopo.

-Ciao.

-Ciao.

-Ciao.- Basta. Metti giù, sennò fai la figura del *****!

Adesso vado in strada nudo e se avete dei problemi con me venite qua io valgo mille di voi alla seconda perché stasera fra sei ore e ventitré minuti esco con la Sonja sì avete capito bene stasera con la Sonja che sta con un di diciannove anni esce con me capito bastardi?

Continuando a tremare fortissimo, si legò il laccio emostatico poco sotto la spalla sinistra. Lo strinse il più possibile.

Non aveva avuto il tempo di diventare un vero tossicomane. Tre mesi di dipendenza dall’eroina non erano bastati a trasformarlo nell’ombra di un essere umano, ma conosceva bene a sufficienza la forza del richiamo di quella polvere bianca, e non era obnubilato a sufficienza per non capire che era gran parte colpa di quella *****.

Senza, forse, avrebbe ancora potuto avere un senso. Forse. Forse no. Nevermind, diceva qualcuno, e Fabio era d’accordo. E’ troppo tardi per pensarci.

Poi con la mano destra prese la siringa, guardando senza vederlo l’ago che lo avrebbe sparato in paradiso. O all’inferno.

No, non dire *******, ci sarà solo il nulla. Soltanto il niente sarà oltre ad attendermi, ad attenderci tutti.

Ringraziò il Signore e Satana e Madre Natura e il Re delle Tenebre e la Brodaglia Primordiale che ci fosse un modo così caldo di morire. Continuando a non vedere ciò che stava facendo, si tastò il braccio per far spuntare la vena.

Vedeva l’interno di un locale. Vedeva una ragazza bionda, bellissima. Vedeva una ragazza che si era truccata e messa la minigonna e le ballerine per lui. Era la più bella quindicenne del mondo, lì per lui.

Vedeva tantissima gente, quasi tutti erano più grandi di lui. Vedeva gli sguardi che gli altri ragazzi le lanciavano. Se la faceva addosso, ma non era mia stato così orgoglioso di sé stesso, così felice di essere vivo.

All’inizio erano rimasti in silenzio, ognuno da solo con il proprio imbarazzo. O, forse, lui con il proprio imbarazzo e lei con la propria noia. Poi… la musica, la vodka, le loro mani intrecciate…

-Vuoi che balliamo?

-Sinceramente, no. Però se vuoi lo faccio.

-Andiamo!

-Fatta!

E giù a ridere. E avevano ballato.

-E’ l’una! Devo tornare a casa che sennò mio padre pensa che mi abbiano stuprata e chiama la Polizia…

-Aspetta un secondo, che ‘sta canzone è bellissima. Soldier Of Love, si chiama, dei Pearl Jam.

-Va bene.

E poi l’aveva baciata, mentre un diciottenne con i capelli lunghi fino alle spalle faceva venire gli incubi a Eddie Vedder.

Bebi lei daun iur arms end sarrender tu mi...

Il resto era bianco. Gioia pura.

Erano stati gli otto mesi migliori della sua vita, della loro avrebbe detto un tempo, ma ormai non era più sicuro di niente. Quando era venuta la bella stagione, avevano incominciato a venire là insieme, a fare l’amore nei pascoli, con le mucche i cavalli e le api a guardarli.

E l’ultima volta, quando Fabio aveva avvertito nel corpo caldo di lei qualcosa di diverso dal solito, qualcosa che stonava con l’armonia perfetta dei loro corpi legati insieme per la centesima volta, era stato là, sulla Roccia.

-Fabio, io ti amo, davvero, ma non riesco più a stare con te. Non chiedermi perché, non lo so.

Si era rivestita ed era andata via da sola. Fabio aveva visto delle lacrime sul suo bel viso, a offuscare l’azzurro stupendo dei suoi occhi, di questo era sicuro. Ne era dannatamente sicuro.

Anche più tardi, quando il mondo intero rotolava su sé stesso per schiacciarlo, quando la terra sotto di lui si era aperta in due e una nera voragine l’aveva inghiottito, avrebbe continuato a credere di aver visto il suo bel viso rigato di lacrime.

Quando una settimana prima sua madre lo aveva trovato svenuto nel bagno e lo aveva adagiato sul letto, Fabio aveva capito che lei non stava piangendo. Aveva avuto una specie di visione, uno di quegli strani caldi sogni che ti manda la roba quando sfiori l’overdose.

Non l’aveva vista piangere, l’aveva voluta vedere. Questo aveva capito. Quelle lacrime, l’unica ragione, l’unico barlume di speranza per il quale avesse un senso vivere, non erano mai esistite. Da allora non sapeva più nulla. Non credeva più in niente. Aveva realizzato che c’era una cosa sola da fare.

E mentre infilava l’ago nella vena del braccio sinistro un vortice infinito di ricordi e rimpianti gli sgorgò da dentro come lacrime. Erano lacrime vere, piangeva con tutto sé stesso, per tutti i suoi sbagli, i suoi rimorsi, i suoi rimpianti. Piangeva come lei aveva pianto, quel giorno. Nell’attimo più estremo di tutti, ne era certo.

Poi una dolce vampata di fuoco bianco lo bruciò, lo consumò tutto in un secondo. Prima di andarsene, dimentico di tutto, mentre per metà era qui e per metà Là, dove tutto è nulla e nulla è tutto e i sogni sono aquiloni variopinti, ebbe il tempo di pensare ai suoi occhi azzurri, dello stesso azzurro del cielo alle prime luci dell’alba.

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