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Draghi d'inchiostro – Novembre: Rapsodia


Samirah

Messaggio consigliato

Ognuno di noi ha una propria colonna sonora, una sequenza di canzoni che potrebbe descrivere la nostra vita e le nostre esperienze. Alcune di queste ci ricordano momenti allegri, altre ci riportano a periodi tormentati o malinconici, altre ancora fanno rinascere in noi una profonda nostalgia.

Ebbene, è proprio alle canzoni e alla musica che vogliamo dedicare il contest di novembre, il primo dei sette che andranno a comporre il concorso.

Ogni concorrente dovrà scegliere una canzone e, su questa, costruire un racconto, facendo citazioni dirette o richiamando semplicemente il ritmo o l'atmosfera che quel brano gli ispira.

Potete scegliere se specificare la canzone all'interno del racconto (nel modo e nella posizione che preferite), oppure se lasciare al lettore il divertimento di indovinarla.

E ora, passiamo a qualche esempio.

Mettiamo che un partecipante scelga "Too Old to Rock 'n' Roll: Too Young to Die" dei Jethro Tull. Potrebbe creare un racconto che parli di nostalgia, oppure, se si vuole rimanere aderenti al testo, potrà essere la storia di questo vecchio rocker che alla fine scopre di avere qualcosa da dire.

Altro esempio: "Black Hole Sun" dei Soundgarden. Perché non usarlo come spunto per un racconto apocalittico?

Quindi, come preannunciato, ora potete dare libero sfogo alla vostra fantasia, reinterpretando il tema come meglio credete.

Buon lavoro a tutti!

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  • 3 settimane dopo...

Penso a quando il silenzio scenderà su tutto

e dappertutto.

Allora infine trionferà la musica.

Henry Miller

°°°

Wraang! Pang! Bruff!... BrumBruumBruuuuuumm!… Rapsodie di schioppi! Tintinnii Sgasate... Chiasso! Locomotive Trattori Autotreni Auto gru Vagoni in manovra.

La motorizzazione rapsodica!

E risate urla trilli isterici Lontane dall’interno dello stadio... Un intero circo viaggiante di nani e ballerine.

Nella conca un rombo cupo di grancassa Lampi verso un cielo nero senza stelle... Dalla conca del nulla.

Ingoiati nel gran portale di cattedrali lampeggianti urlanti abbaglianti.... Eccitati di nulla! Ricerca disperata di un attimo di intontimento e oblio... Una intenzione di felicità ad alleviare il non senso... Per un attimo!

OHOoooooooo!

Maraviglia!

Mica male l’atmosfera d’attesa del grande evento, il rito sempre lo stesso e noto e invariato La liturgia pronta... Sempre la stessa! Variano i lampi e la stroboscopia.

Eccitati nel nulla!

OHOooooooo!!

Maraviglia!

Pronti al rito i sacerdoti! Assalto ai posti migliori… A tutta birra le mandibole instancabili sulle gomme Gnam gnam! E rutti e venti E peti alla birra al whisky vodka hashish cocaina... Pronti a schiacciare calpestare spiaccicare.

Eccolo! Il cantante della protesta! Che soffre le pene del vivere... ’sto ********! Per i mali di questo mondo fa di quelle smorfie!…Si agita in movimenti dissennati Emette il fiato urlando le parole montate da un pazzo False ipocrite insinuanti scivolose Ad abbagliare stupire con una saponata di pensiero.

A liberarla dal pensiero ‘sta gente!

Eccitate da un nulla!

OHOooooooooo!

Entusiasta!

Per l’ennesima volta sulla trita sceneggiata si eccitano Urlano ammirati alle corse insensate del pagliaccio sul palco l’indice puntato. Il movimento dissennato Il microfono strapazzato... Decibel che spaccano i muri... Il rimbombo nello stomaco nel torace... Nel colon provoca la peristalsi Fa cagare!

Accendono fiammiferi e accendini… Si accalcano Non ci si muove più Tutti compressi nella febbre che non produce impulsi di vita Febbre di annientamento!

Non si trova la via del cesso Ci si piscia addosso.

E dalli! che lui il cantante di protesta continua a soffrire… Ci ha le lacrime! E raccoglie soldi...

Largo! Largo! Che debbo andare al cesso!

E sono massa gomito a gomito avvinghiati allo slogan

“Tutti in uno Ognuno per sé!”.

Urlano! Si incendiano! Fluttuano le braccia alzate!… Ad afferrare qualcosa co’ ‘ste braccia? Non afferrano nulla!... Imprecano al cielo? No!... Urla dementi! Luci lampi ritmo d’ossesso! Una cannonata! Trema tutto.

Nel raggio di dieci miglia nessuno può dormire... Pianti di infanti Pugni chiusi roteanti al cielo inquinato senza stelle.

Abbagliati rincoglioniti Vuoti di pensiero Cranio in segatura I selvaggi hanno finito! Rintronati gli alieni si sciolgono espandono in mille rivoli...

Wraang!... BrumBrumBruuuumm!... Le rapsodie di scoppi!

Sordi non trovano la strada di casa.

Mi dirigo al parco per pisciare dietro un albero... non ce la faccio più! E nemmeno penso più! E’ completo il lavaggio del cervello!

Ho pisciato contro il tronco di un albero e finalmente odo i sommessi rumori della notte e posso guardarmi intorno.

Tutte le panchine occupate Sono letti di cartone!

Qualcuno non dorme Suona un’armonica a bocca... una melodia triste... Primordiale... mi sembra... E la musica ha il tocco di un sentimento disperato che commuove fino alle lacrime.

Vagamente riconosco il motivo Ma non importa!

E’ l’ultima emozione e abbondanti le lacrime rigano le guance.

Seduto sull’erba mi sono addormentato.

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L'esercito è giunto.

Sento il tremito nei nostri cuori.

Attendiamo la fine.

E' ora.

Prima di rimontare a cavallo, smuovo una pietra con lo stivale impolverato. La calda notte di mezza estate è al suo culmine, e uno scorpione nero va in cerca di un altro rifugio.

Guardo i miei soldati, cerco di distinguere i loro volti alla luce della luna, di infondere loro la sicurezza che cercano. Anche se ormai è tardi, è questo che potrebbe fare la differenza fra la vittoria e la disfatta. Lo so bene e lo sanno anche loro: non è la prima battaglia che ci troviamo a combattere. E il nemico è sempre lo stesso.

C'è un lieve alito di vento, quando vedo lo stendardo del mio avversario farsi avanti fra le torce che rischiarano le prime file dei suoi uomini. Vuole incontrarmi prima della battaglia. Salgo a cavallo, sollevo il nostro vessillo, il lupo di Krog, e vado incontro al mio destino. Questa è la tradizione: sappiamo entrambi cosa verrà detto e quali saranno le conseguenze delle nostre parole, eppure perseveriamo ad affrontarci con le parole prima di farlo con le nostre lame, chiedendo all'altro qualcosa che sappiamo già di non poter avere.

Nessuno ricorda più ormai come tutto sia cominciato, generazioni fa. C'è sempre stato lo stesso nemico, l'abbiamo sempre combattuto. Perché? "Un buon condottiero non chiede, agisce!" direbbero i miei consiglieri. Discendo al trotto lungo la collina e l'aria si fa subito più fresca, asciugando il sudore dell’attesa.

Non ho mai capito perché un re debba proteggere i propri sudditi portando sangue e morte a padri, fratelli, mariti e figli. "Questa è l'arte della guerra!", direbbero i miei consiglieri. "Chi vince perdura, per chi perde l'oblio". Continuo a spingere il mio stallone con le ginocchia, e lui a procedere verso l'inevitabile.

Ma chi ha vinto e chi ha perduto in decine e decine d’anni di sanguinose battaglie, di effimeri successi e cocenti sconfitte? Dubito che i miei consiglieri pensino a questo, mentre passeggiano nel parco della mia reggia, sorseggiando vino speziato. La nuvola di polvere alle mie spalle si perde nelle tenebre della notte.

La mia coscienza, almeno, è tranquilla. Sono stanco. Ho a malapena potuto crescere i miei figli. Ho inviato messaggeri per scongiurare una nuova carneficina, alla notizia dell’esercito nemico in marcia. Nessuna risposta. Cosa avrei potuto fare di più? Mi chiedo che ne sarà della mia coscienza alla fine della battaglia, mentre procedo sul fianco del declivio.

Incontro il mio avversario al centro del campo di battaglia che dissemineremo di feriti e di morti fra poche ore. Entrambi ci avviciniamo tenendoci al passo, avvolti nella nostra preziosa armatura. Alle nostre spalle tutti sono in attesa nel più completo silenzio. Anche le fiamme delle torce sembrano partecipi dell’immobilità che preannuncia la tempesta. Fra me e il mio nemico, una brezza gentile.

«Bentrovato, Re Pyrak.» Anche se coperta dallo sbuffo del mio cavallo, la voce che mi giunge non è quella del mio nemico. Solleva la visiera dell'elmo, ed al posto della barba dorata che ero solito incontrare c'è un volto fresco e pulito, dell'età della mia Klaia. Gli occhi marroni sono lo specchio di un’anima profonda, i capelli sono neri come un cielo senza stelle.

«Re Masov non è più solito guidare i propri uomini, ragazzo?» Replico più accigliato di quanto avrei voluto.

«Mio padre ha mandato me come messaggero.» risponde tranquillamente il giovane «Se così piace a Vossignoria.»

Dunque è questo il figlio del mio nemico? Siamo giunti davvero a questo, a far ereditare ai nostri stessi figli i nostri debiti di sangue?

«Così sia. Bentrovato, Principe. Quale messaggio porti, dunque?»

Il ragazzo mi guarda negli occhi, da un tremito agli angoli della bocca tradisce il nervosismo proprio della sua età.

«Abbiamo ricevuto i vostri messi e abbiamo letto le vostre pergamene.» annuncia infine con tono deciso.

Il cuore mi si ferma nel petto.

«''Non siete voi il nostro nemico,» continua il Principe «né noi il vostro. Gli avversari contro cui combattere sono le nostre terre assetate, le fiere che minacciano il bestiame, le malattie che opprimono i nostri sudditi, i ladri delle città, gli sgherri delle campagne.''»

Sentire le mie stesse parole recitate da una voce diversa mi stringe la gola come un guanto di maglia.

«''Seppelliamo le antiche memorie di sangue,» continuo con la voce incrinata «e lasciamo che i bardi cantino di questo giorno per sempre.''»

Il giovane si allunga sulla sella.

«Che questa sia dunque una notte gloriosa, in cui i nemici si scoprono fratelli, e il vento porta con se un futuro diverso.»

Stringo la mano che mi viene tesa, poi porgo l'altra affinché il principe faccia lo stesso.

Non so se ricacciare indietro le lacrime che il mio cuore vorrebbe sul mio volto. Sorrido, invece, pensando a cosa dire ai miei generali e a cosa penseranno i miei uomini una volta ritornato al mio esercito.

Nessuno di noi accenna a dire altro, l’istante che abbiamo creato ha una magia che nessuno vuole infrangere. Rimango ad osservare per qualche istante ancora quegli occhi colmi di gioia quanto i miei.

Pochi minuti più tardi i due eserciti fanno tremare le colline, per la prima volta con canti di gioia urlati all’unisono. Il sogno si è avverato: il vento porta un nuovo messaggio.

Chissà se i nostri padri, quando hanno cominciato questa guerra, pensavano di offrire ai propri figli un futuro migliore forgiato con sangue e spade. Sono tuttavia certo che è questo ciò che daremo ai nostri, ora che abbiamo deciso di porvi fine, costruendolo sulla speranza.

Chissà se un altro re, in un altro luogo e in un altro tempo, ha mai potuto vivere un sogno come questo in una calda notte d'agosto.

Nota: in questo mini racconto ho nascosto una delle canzoni che mi sono più piaciute da quando ho orecchie per sentire, reinterpretandone il testo in chiave più "fantasy" e mettendo qualche dettaglio qua e la per risalire all'originale... buona lettura.

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In un periodo non proprio felice devo ringraziare questa canzone con un significato così forte per me. Non è solo un'infatuazione per un brano, è anche sentire nella musica e nelle parole del testo una forte emozione. Non è solo una canzone orecchiabile, ma è sentirsi meno soli nella propria quotidianità: le tue stesse emozioni le condividi con altri. Il testo della canzone è di Elisa, si tratta dell'ultimo brano della sua (recente) raccolta dal nome "Qualcosa che non c'è". I diritti del testo della canzone sono ovviamente riservati all'autrice.

QUALCOSA CHE NON C'E'

C'era una volta una principessa, pensò e nel buio nel quale si trovava non poteva neppure vedersi le mani. Né tantomeno poteva guardare le pareti della sua cella invisibile. Ciò nonostante anche in quel buco oscuro, poteva immaginarle, avvolte da uno spesso strato di materiale fonoassorbente. Sapeva che c'erano anche in quell'oscurità perché le aveva già viste in realtà, molte, troppe volte. Da parecchio tempo aveva smesso di chiedersi cosa ci fosse al di là. Forse era successo lo stesso giorno in cui il suo carceriere non l'aveva più vista alzare lo sguardo ed aveva rinunciato con rammarico al piacere sottile di spiare la sua prigionia.

Era successo un giorno nel quale la speranza di scappare le era come morta dentro.

All'inizio aveva urlato, sperando che qualcuno la sentisse ed accorresse in suo aiuto: non era possibile che una persona come lei scomparisse così, dalla faccia della terra, senza che nessuno si ponesse il problema, senza che la cercassero. Ma i rumori sembravano non poter uscire da quella prigione: potevano soltanto entrare. Quando anche le urla non erano bastate lo aveva implorato, senza più voce quasi.

Le aveva risposto all'improvviso una risata sadica e senza rimpianti di un folle. Quella persona silenziosa che ancora entrava nella sua stanza approfittando del suo sonno per portarle da mangiare e da bere, od anche talvolta per cambiarsi o lavarsi, era come impermeabile a qualsiasi forma di comunicazione.

Era uno psicopatico.

Quella prima ed unica volta che aveva urlato, aveva aspettato che fosse esausta dalla stanchezza e dalla disperazione. In silenzio e nel buio si era introdotto nella stanza e l'aveva riempita di botte. Non una sola parola era stata scambiata tra la vittima ed il suo carceriere: i ruoli erano stati chiariti. A lei era rimasto quell'angolo dove priva di sensi e di speranza si era resa conto con terrore che se lui soltanto lo avesse desiderato quel giorno avrebbe potuto spegnere la sua vita come una fiammella. Se non quel giorno domani, chissà…

Nell'oscurità le giunse ora il rumore di una radio accesa: una canzone, la melodia impercettibile e le parole ridotte quasi ad un sussurro, attraverso le pareti. Parole che stridevano con i suoi pensieri e che si aggiungevano alla sua tristezza.

Tutto questo tempo a chiedermi Cos'è che non mi lascia in pace Tutti questi anni a chiedermi Se vado veramente bene Così Come sono Così.

Forse era lui. Si divertiva a tentarla, a farle capire che al di fuori da quel buco nero esisteva ancora una vita piena che lei non poteva più avere. Lui era diventato il custode di tutto: della sua esistenza, dei suoi desideri. Della stessa aria che respirava.

Così un giorno Ho scritto sul quaderno Io farò sognare il mondo con la musica Non molto tempo Dopo quando mi bastava Fare un salto per Raggiungere la felicità E la verità è…

La musica si spense perdendosi in lontananza. Non doveva essere tardi ormai. Nonostante non possedesse più alcun riferimento per il tempo che scorreva si era abituata all'intercalare dei giorni dettato dall'invisibile volontà del suo carceriere. La notte la stanza era immersa nella più assoluta oscurità mentre di giorno veniva accesa una luce artificiale. All'inizio aveva tenuto il conto di quei giorni artificiali, aggrappandosi almeno a quel riferimento. Poi aveva cominciato a sospettare che quell'alternanza fosse falsa. Poteva darsi che lui facesse apposta e che ci si divertisse pure nel farle credere che quel tempo alterato fosse reale. Per questo aveva lasciato perdere: notte o giorno per lei non facevano più alcuna differenza.

Era prigioniera. Sola nella stanza allestita da un maniaco. Con l'unica compagnia di una branda, un piccolo tavolino inchiodato al pavimento ed una sedia imbottita. Nient'altro.

Da allora quasi casualmente il rituale susseguirsi delle luci e del buio si era fatto più regolare e cadenzato. Forse lui si era accorto di come la sua vittima avesse perso anche quella speranza ed aveva lasciato perdere. Da allora, quasi inconsciamente, le era venuto in mente che potesse esserci un temporizzatore a regolare l'accensione delle luci. Sì, ripensandoci, poteva essere proprio così.

Ho aspettato a lungo Qualcosa che non c'è Invece di guardare il sole sorgere.

La musica. Le mancava là dentro. Immensamente. Come una voce amica che potesse ancora dirle qualcosa.

*Click*

Il rumore improvviso la fece sobbalzare. A volte lo psicopatico si divertiva ad introdursi silenziosamente nella stanza e lei lo sentiva soltanto all'ultimo momento. Dopo quel primo giorno non l'aveva mai più toccata. Ma non c'era bisogno che lo facesse. Non era quello che voleva. Lui aspirava a qualcosa di più grande ed ambizioso. Lui voleva farle perdere totalmente il senno. Ma lei era ancora vigile, in guardia. Apparentemente piegata sì, ma non spezzata. Trattenne il fiato aspettandosi di sentire il rumore del suo respiro…

La luce che sfavillò nella stanza, indecisa se accendersi del tutto, la fece sobbalzare con il cuore in gola. Fu un fastidioso lampeggiare di luce bianca ed accecante prima che tornasse l'oscurità. Ecco tutto.

Nel silenzio si mise a ridere. Una risata sciocca e di derisione per sé stessa. Quanto era stata sciocca.

Era la prima volta che collegava quel suono al funzionamento di un temporizzatore. Allora c'era in effetti un meccanismo che accendeva la luce ad un'ora prestabilita. Solo che oggi la luce si era fulminata: alla notte sarebbe seguita un'altra notte. Interminabile.

La principessa era rimasta al buio per sempre.

Non si sentiva alcun suono: né musica, né voce, né brusio. Probabilmente lo psicopatico era andato via. Ma non era vero che lei era rimasta nell'oscurità più profonda: in un angolo filtrava una piccola lama di luce. Giusto un accenno, quasi una promessa. Incapace di credere ai propri occhi la guardò avidamente: poteva sempre essere un altro dei suoi trucchi. Si spostò cercando a tentoni di non urtare nulla e di non fare rumore, non abbandonò per un istante quel segno. Rimase a fissarlo finché non le lasciò un pallido segno sulla retina, anche quando chiuse gli occhi, credendo ancora di sognare. Quella era luce del sole. La luce della realtà dal di fuori dell'incubo.

Lentamente e silenziosamente si avvicinò a quella cosa e la osservò meglio: sembrava un profilo, come una scollatura nel rivestimento che lasciasse filtrare qualcosa. Cautamente allungò la mano, aspettandosi da un momento all'altro che accadesse qualcosa. Qualcosa di molto brutto. Sapeva che avrebbe dovuto essere punita per questo, ciò nonostante decise di correre il rischio.

Niente. Soltanto il calore della luce solare su una superficie liscia. Fece scorrere la mano sotto la fessura e toccò qualcosa di rigido e duro. Avrebbe potuto fermarsi ora. Era ancora in tempo. Ma la mano scivolò sotto il pannello come guidata da una volontà ed una disperazione sue proprie. E la fessura si allargò. Il suo corpo si tese all'inverosimile nello spasmo di una scoperta così temeraria. Ormai l'intera mano era scivolata sotto al pannello e quest'ultimo sollevandosi faceva filtrare ancora un po' di luce. Indovinò la forma delle lastre al di sotto del rivestimento e poi…

No, non poteva essere.

Si ritrasse all'improvviso, spaventata ed incredula da quella beffa.

Aveva toccato il chiavistello di una finestra.

Ormai il pannello si era scollato quasi del tutto, facendo intravedere il profilo del serramento. Il corpo le tremava mentre avvicinava la mano al chiavistello, sotto i pannelli. Chiuse gli occhi, incapace di fermare l'incontrollabile tremore dell'eccitazione. Sapeva che lo avrebbe trovato inchiodato. La mano scivolò maldestramente incontrando resistenza in un primo momento. Ebbe un tuffo al cuore e desiderò tornare indietro, arrendersi, ma la sua mano non le diede retta ed insistette con più forza.

Con uno scatto improvviso il chiavistello cedette ed il serramento si spalancò trascinando con sé 'intero pannello di rivestimento. Per un soffio non trascinò anche lei con sé. Là fuori. L'imposta oscillava maldestramente su un solo cardine.

Ebbe un capogiro: lì davanti a lei la fessura era diventata un riquadro di luce calda ed abbacinante. Si affacciò: da sotto venivano i rumori della strada. La gente che camminava indaffarata per andare a lavoro. Le macchine che correvano a velocità sostenuta. Tutti che guardavano per terra. Nessuno in alto, al cielo, al sole che li osservava tutti muoversi come burattini.

Questo è sempre stato un modo Per fermare il tempo E la velocità I passi svelti della gente La disattenzione Le parole dette Senza umiltà Senza cuore così Solo per far rumore Ho aspettato a lungo Qualcosa che non c'è Invece di guardare Il sole sorgere.

Da sotto era solo un'altra testa di ragazza sporta ad una finestra di un edificio semiabbandonato. Il viso era smunto e pallido, i capelli scuri in disordine e soprattutto lei non credeva ai suoi occhi. E se fosse stata un'illusione? Se avesse gridato avrebbero potuto sentirla laggiù, in quel mondo di persone normali che nemmeno avrebbero mai potuto immaginare cosa sia assistere alla propria vita che si spegne giorno per giorno? Un odio tremendo la pervase. Stava per richiudere la lastra e ritornare dentro, nell'odio oscuro del suo carceriere, quando la sua mano afferrò la lastra e la scosse. Con tutta quanta la forza cha aveva, con tutta la disperazione che ancora possedeva.

La lastra si staccò di netto e rimase sospesa a mezz'aria per alcuni istanti prima che la lasciasse andare. Solo allora si rese conto che avrebbe potuto uccidere qualcuno là sotto, come una ghigliottina cruenta e casuale. Il vetro si infranse in strada con un frastuono che sfiorò appena un passante. Alcuni urlarono.

E miracolosamente non Ho smesso di sognare E miracolosamente Non riesco a non sperare E se c'è un segreto E' fare tutto come Se vedessi solo il sole

Solo dopo realizzò che era lei stessa ad urlare. La porta interna venne scossa… lo psicopatico stava arrivando. Forse era nella stanza accanto, oppure era in strada e si era precipitato su per fermarla. La ragazza sentì la porta dietro di sé che si spalancava con violenza ed allora smise di pensare. In un batter d'occhio attraversò il riquadro e si lanciò fuori.

Non aveva pensato un istante a quanto potesse essere in alto. Per miracolo riuscì ad aggrapparsi su uno stretto cornicione e scivolò lungo di esso. Verso le vertigini e verso la salvezza.

Fu da lì che lo vide. Vide la sua frustrazione ed il suo terrore. Il suo braccio che cercava inutilmente di ghermirla e risucchiarla indietro nel suo mondo malato. Non poteva più arrivare a lei ora. Seppe di essere libera.

Libera, ma accovacciata sull'orlo di un cornicione ad alcuni metri da terra. Eppure non avrebbe voluto trovarsi in qualsiasi altro posto della terra. La gente là sotto la indicava ora: alcuni che si erano fermati e guardavano con curiosità, alcuni altri con terrore, altri ancora con ignoranza. Vide lo psicopatico che, tornato in strada cercava di scappare, mescolandosi alla folla.

Per uno strano scherzo del destino da sotto venivano anche le note di una musica familiare, coperte appena dall'arrivo di lontane sirene. Ne poteva ancora distinguere a malapena le parole:

Un segreto è fare tutto Come se Fare tutto Come se Vedessi solo il sole Vedessi solo il sole Vedessi solo il sole E non Qualcosa che non c'è.

Nonostante tutto, pensò, io l'ho visto.

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Marco stava lavorando di notte, ancora chiuso in quella cucina da solo, non se ne dava pace.

Odiava questa situazione arrivata inaspettata, ma soprattutto non voluta. Da qualche tempo la sua vita si era riempita di nulla, lavorava con sé stesso e di giorno dormiva, mangiava ed usciva ancora con sé stesso.

Nella sua testa si stavano facendo strada idee negative, l’introspezione totale a cui si sottoponeva per non impazzire del tutto lo stava portando a conoscersi meglio, unica nota positiva del viaggio asociale che stava percorrendo forzatamente, e la vita non sorrideva.

Marco era abituato a sorridere e questa situazione stava spegnendo il sole che aveva dentro senza la speranza di poterlo riaccendere.

Tutto era arrivato con conseguenze distruttive, usciva con una bella ragazza da poco, ma questa nuova vita a cui era sottoposto aveva tagliato ogni possibilità di riuscita. Non serve dire che in un mondo di predatori, qualcun’altro aveva portato a termine la caccia al posto suo e questo non aiutava la situazione.

Si ricordò in quel momento di accendere il forno e portarlo a temperatura per cuocere le paste dolci che i clienti trovavano ogni mattina alle colazioni. Il momento era il solito ogni notte, cinque minuti di pausa per andare a farsi un caffè forte, capace di farlo arrivare a fine turno senza sentirsi totalmente insonnolito, e poi una sigaretta, da solo.

Fuori dall’albergo pioveva -Strano- pensò – Erano già due ore che non pioveva....dannata Londra- Al solito, con il freddo del vento che portava le gocce a scontrarsi verso il muro della galleria vicina all’entrata per i dipendenti, si recò al riparo. All’ingresso del sottopassaggio. Si accese una sigaretta respirando lo smog intrappolato nel sottosuolo, un po’ come lui, senza possibilità di scampo.

Un uomo stava uscendo dal tunnel che passava sotto la Westferry Circus, era un senza tetto, un barbone.

Portava una giacca vecchia e sporca e trainava un carrello della spesa che cigolava sulle lastre consumate da anni di vita.

Si fermò vicino a Marco, sorrise con denti gialli, ma dritti, attraverso la barba nero grigia arruffata, gli occhi sorridevano anch’essi “Una sigaretta, giovane amico, per il segreto della vita”

- Almeno è originale questa richiesta- Pensò Marco fra sé e sé e tirò fuori un altra marlboro light dal pacchetto di contrabbando. “A te.....ma ora dimmi una cosa.” Iniziando a sorridere “ Qual’è il segreto della vita?”

“Sapevo che me l’avresti chiesto, intanto grazie.....Hai da accendere anche?” Illuminando con un piccolo puntino rosso la notte piovosa continuò “Non lo so giovane amico, ma posso darti dei consigli, credo di avere qualche anno in più e credo di aver preso nel corso degli anni passati delle decisioni non troppo consone all’essere un uomo di successo”

-Questo lo vedo anche io e non sono tuo amico- “Chiamami Marco Mr.?”

“Oh che sbadato, non mi sono presentato, chiamami D, Marco” Allungando la mano coperta da un guanto sgualcito.

“ Dicevo” riprese ritraendo la mano senza una risposta dall’altra parte “ Credevo che la vita fosse solo successo, ero tutto sul lavoro, e non degnavo abbastanza tempo alla mia famiglia, lavoro per loro, mi dicevo all’epoca. Stupido essere umano che non sono altro. La mia priorità alla fine non si è rivelata ragionevole e mia moglie mi ha lasciato, mi sono dato all’alcol. Mi hanno licenziato e non sono più riuscito a rimettermi in sesto così giro di notte con il mio carrello cigolante sperando di trovare una buon anima che mi offra una sigaretta” Un lungo sospiro al termine della frase fece tossire ancora Mr. D.

-E questo che c’entra? Non vorrai anche metterti a piangere davanti a me.... Che schifo di vita- Più pensando alla propria che a quella del senza tetto.

“Mi spiace, ma non credo che io possa finire così” pensandoci un attimo “Ma accetto il consiglio, grazie”

“Non è finita Marco, ora ti do il vero consiglio.” Si mise a rovistare all’interno del carrello e tirò fuori un mangianastri arrivato da un altra epoca. Lo fece partire. Gracchi e spezzoni di canzoni, a volte famigliari, altre volte incomprensibili si susseguivano spezzati dal classico rumore di mangiacassette che va avanti ed indietro a tutta velocità saltando tappe, anche importanti.

Finalmente Mr. D si fermò in un punto e schiacciò il pulsantino con la freccetta singola. Un assolo inconfondibile di chitarra risuonò nell’arena improvvisata del tunnel silente.

Poco dopo.

< You can be anything you want to be

Just turn yourself into anything you think that you could ever be

Be free with your tempo, be free be free

Surrender your ego - be free, be free to yourself >

“ Conosco questa canzone Mr. D , è Innuendo, ma cosa mi vuoi dire?” L’espressione sul volto di Marco era di totale aspettativa, credeva veramente che, alla fine, questa discussione poteva valere una sigaretta.

Il volto dell’uomo cambiò, diventando serio e triste, forse pensare alla propria disgrazia non era così semplice come sembrava. “Vuol dire che un uomo può essere ciò che vuole, se ci crede veramente.” Accentuando le parole “può” e “vuole” sorrise di nuovo “ Io non ne ho più la forza, ma te. Credo che solo il fatto di non avermi considerato un pazzo ed esserti fermato a parlare con un vecchio barbone faccia di te un uomo. Credo tu abbia dei valori che ti faranno ponderare bene le priorità nella vita.” Tossendo e buttando il mozzicone della sigaretta finita in una pozzanghera iniziò ad incamminarsi sotto la pioggia, trainando il carrello cigolante ed aggiungendo “Solo questo giovane amico. Tu puoi essere ciò che vuoi, veramente.....La cosa difficile per noi stupidi esseri umani è sapere ciò che vogliamo veramente essere. Grazie, buona avventura”

-Grazie a te Mr. D, buona strada- Marco guardò un uomo veramente solo allontanarsi sotto il cielo piangente e rientrò in albergo.

Il forno era caldo, era in ritardo con la tabella di marcia e ripensò alle parole di Mr. D “priorità”. In questo momento la priorità era mettersi a lavorare sodo se non voleva finire con l’acqua alla gola per le colazioni.

Arrivato a casa la mattina seguente Marco aprì l’e-mail e mandò un messaggio a tutti i suoi contatti

< Tu puoi essere qualsiasi cosa tu voglia essere

Basta che ti trasformi in qualsiasi cosa tu pensi possa essere

Sii libero col tuo tempo, sii libero, sii libero

Abbandonati al tuo ego, sii libero, sii libero, sii te stesso

Queen - Innuendo

Traduzione fatta dopo una notte di lavoro che, per una volta, è servita a qualcosa.

Buona vita a tutti.>

Si addormentò pensando alle priorità di uno stupido essere umano che doveva lavorare ancora quella notte.

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It's bugging me, grating me

and twisting me around

yeah I'm endlessly caving in

and turning inside out

'cause I want it now

I want it now

give me your heart and your soul

and I'm breaking out

I'm breaking out

last chance to lose control

yeah it's holding me, morphing me

and forcing me to strive

to be endlessly cold within

and dreaming I'm alive

'cause I want it now

I want it now

give me your heart and your soul

I'm not breaking down

I'm breaking out

last chance to lose control

and I want you now

I want you now

I feel my heart implode

and I'm breaking out

escaping now

feeling my faith erode

Spoiler:  
Traduzione per chi non ha voglia di sbattersi:

Mi sta disturbando

mi sta straziando

e si sta insinuando intorno a me

Si, io mi sto infinitamente

scavando dentro

e buttando tutto fuori

Perché lo voglio ora

lo voglio ora

dammi il tuo cuore e la tua anima

e mi sto sfogando

io sto sfogando

l'ulima possibilità di perdere il controllo

Mi sta tenendo

mi sta mutando

e mi sta obbligando a lottare

per poter essere infinitamente

freddo

e poter sognare che sono vivo

Perché lo voglio ora

lo voglio ora

dammi il tuo cuore e la tua anima

non sto collassando

io sto sfogando

l'ulima possibilità di perdere il controllo

Perché ti voglio ora

ti voglio ora

sentirò il mio cuore implodere

mi sto sfogando

scappando ora

sentendo la mia fede consumarsi

HYSTERIA

La luce dei fari sfiorava l’asfalto mentre gli alberi, a lato, scorrevano dritti come sbarre di una gabbia. Una lieve nebbia, intangibile come un sussurro, si alzava mollemente da terra mentre una pioggerellina impalpabile cercava timidamente di rintuzzarla da dove veniva. Qualche stella scampava alla censura delle nubi e la luna si mostrava cautamente, come una nobildonna ad un ballo in maschera che si cela a metà dietro il proprio ventaglio.

L’autoradio gridava di disperazione e dolore, una canzone che rievocava un passato recente e che scottava ancora. E la strada serpeggiava rapida sotto l’auto.

Aveva preso la decisione di tornare indietro che era quasi arrivato a casa, poi l’inizio di quella canzone l’aveva trasformato in una belva furibonda. Doveva esorcizzare, doveva riuscire a togliersela dalla testa. Doveva tornare in uno dei luoghi sacri del loro rapporto ed imbrattarlo con le sensazioni che erano venute dopo. Doveva togliere il ricordo di lei da ogni piccola cosa, da ogni paesaggio.

Pensava solo a questo. A raggiungere il convento in cima alla collina davanti al quale avevano fatto l’amore chissà quante volte e profanare quel luogo inviolabile col proprio grido di dolore. Doveva disturbare i morti che, ormai da secoli, riposavano nel cimitero del convento fingendo di non vedere tutte le coppie che dell’amore per il divino se ne fregavano e sotto la protezione del Peccato celebravano riti sacri all’amore per il terreno.

Premeva sull’acceleratore e guidava come un pilota di rally per quelle strade che conosceva a memoria. Offuscata da un velo di lacrime vedeva soltanto la sua meta, ad ogni colpo di grancassa sempre più vicina. Non si accorse di quell’ombra grigia che lo seguiva dal bosco.

Come un bellicoso paciere i fari si facevano strada fendendo il duello elementale in cui la bruma lentamente soverchiava la pioggia, impadronendosi del paesaggio. Come un cancro famelico divorava metri di visuale, come un’impietosa cimosa annullava tutto nel bianco sporco dell’indeterminazione. Piccoli vortici inglobavano cespugli che magicamente svanivano.

Un occhio indagatore scrutava dall’alto della sua impassibilità il limbo lattiginoso, come spinto da un’annoiata curiosità piuttosto che da vivo interesse.

All’interno dell’auto il riscaldamento aveva portato il clima a livelli tropicali. Mangrovie di rimorso si distendevano in un oceano di angoscia. I loro rami lasciavano pendere dolcissimi frutti velenosi, nettare e ambrosia dei fantasmi del passato e offrivano rifugio a colorati pensieri dolorosi.

Spense il motore lasciando accesa l’autoradio. Scese lasciando la portiera aperta e barcollando si appoggiò al parapetto che si affacciava sul nulla. Lasciò andare il suo urlo muto che, senza eco, si fece strada nel bianco vuoto.

In lontananza le luci della città mandavano uno sbiadito messaggio di solidarietà.

Gli piombò addosso dall’alto, forse da un albero o dal muro di cinta del cimitero, schiacciandolo a terra. Sentiva il peso enorme di quell’essere togliergli il respiro e una stretta morsa lo inchiodava al suolo. Non riusciva a muoversi, era inebetito e privo di forze, come se dopo millenni di lotte e combattimenti si fosse deciso a prendersi una pausa. Aveva deciso per la rassegnazione. Era troppo ubriaco e troppo triste per potersi ribellare. Anche il suo istinto di sopravvivenza era andato in vacanza. Non aveva più nulla da perdere dopo che aveva perso lei, morire non gli sarebbe stato difficile.

Evidentemente scossa dal movimento anomalo, la luna si scoprì delle nubi, per vedere meglio quel che accadeva ed illuminò la scena. Un ragazzo dagli occhi spenti giaceva a terra ed un essere informe, per metà umano per metà belva, lo sovrastava.

Ad un tratto realizzò. Per quale motivo darle anche quella soddisfazione? Perché doveva soffrire per cose di cui non aveva colpa e che non sarebbe stato in grado di cambiare nemmeno con tutta la buona volontà di questo mondo?

Decise che no, non era giusto morire in questo modo. Non poteva farsi fregare da qualcosa che non conosceva. Se avesse dovuto morire sarebbe stato un suicidio o una lenta agonia di ottuagenario. Non il primo mostro spuntato dagli alberi che aveva voglia di fare del male ad uno qualsiasi. Soprattutto perché lui non era uno qualsiasi.

Una forza nuova, incredibile e di origine ignota, si impossessò di lui. Riuscì a sbalzare la belva e a rialzarsi in piedi. Si voltò di scatto, in preda all’ira più profonda che avesse mai provato, pronto ad uccidere, lui, che a parole aveva spaccato culi, mentre in pratica non era mai stato capace di alzare le mani su nessuno.

E di fronte a se la vide.

La pioggia si fece forza ed iniziò a combattere con più vigore; la nebbia, sorpresa, non poté far altro che abbassarsi a pochi centimetri da terra.

Un enorme faro argenteo dall’alto rischiarava l’ambiente. Le luci cittadine prima timorose inneggiavano slogan al proprio paladino. Dal bosco cori di uccelli notturni si unirono al tifo.

Ogni sua cellula era tesa, allarmata, pronta all'azione. Il suo cervello invece era in tilt. La pallina dei suoi pensieri turbinava in un flipper di supposizioni, rimbalzando da un dubbio ad un altro e annodando la propria traiettoria in un intricato gomitolo.

La pioggia ormai marciava trionfalmente su macerie di nebbia che batteva in ritirata. La luna, gradendo lo spettacolo, si accese partecipe ma permise ad alcuni brandelli di nuvola di passarle davanti, come un bambino che guarda un film dell'orrore protetto dalla palizzata di dita davanti agli occhi. Il bosco fece la "ola" per dare più enfasi al supporto di gufi e lampioni.

Accadde tutto in un istante, un battito di ciglia, un impulso nervoso. Lei scattò, lui pure. All'unisono si gettarono l'uno sull'altra. Ad occhi chiusi.

Lotta, violenza, poi studio dell'avversario e ancora violenza. L'autoradio proseguiva nel suo grido ormai senza auditorio. Il sapore di sangue misto a pioggia riempiva le loro bocche.

Sollevandolo di peso da terra lo lanciò sul muro che custodiva salme di frati.

Il tonfo fu coperto da un fragoroso tuono, inno vittorioso di un elemento e segnale di inizio di un nuovo conflitto.

In un delirio di onnipotenza la pioggia si frappose ai due, imitando la dittatura che aveva appena soverchiato.

l bosco tacque, le nubi mandarono la luna a dormire e, forse impaurite, le luci cittadine smisero di vegliare sulla città.

Era tornato, trionfalmente fulmineo e sommario, il vero padrone della notte. Il buio. Anche la pioggia smise di fare rumore.

In questa cortina insonorizzata avvenne il secondo assalto. Frontale. Diretto.

L'acqua esplose al contatto dei corpi. Un violento, innaturale, perverso abbraccio li racchiudeva. Le braccia di entrambi immobilizzate da quelle dell'avversario, nel disperato tentativo di mantenere il già precario equilibrio.

Si morsero al collo contemporaneamente. Uniti a quello della pioggia, i sapori di due tipi diversi di sangue si mischiarono in un cocktail afrodisiaco. La bocca di lui si fuse ai lembi della ferita, tanto saldamente che il sangue quasi lo soffocò.

Complice il buio non era più possibile distinguere le due figure che ormai si muovevano come seguendo i passi di un'articolata coreografia.

Accusavano il graduale esaurimento delle forze e lentamente, come ballerini di un carillon cui vada girata nuovamente la manovella, si fermarono.

Il bagliore fu visto a chilometri di distanza, tanto che i lampioni cittadini, increduli, riaprirono gli occhi. Dal canto suo la luna, tra spintoni e male parole, si era riaperta uno spiraglio tra le nubi da cui poter sbirciare. Credendo che quella volta l'alba fosse stata fulminea gli uccelli intonarono il rituale buongiorno.

Illuminato da un raggio lunare, dritto in piedi contro l'acqua scrosciante, come un attore in mezzo al palco, stava lui. Immobile.

Conquistata l'attenzione del pubblico, levando le braccia al cielo, il suo monologo fu una risata liberatoria.

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"La musica mi detta le parole,caccio queste rime so che prima o poi ritorna il sole".

La televisione era spenta,non aveva mai perso tempo davanti a quella scatola nera,lo riteneva un inutile perdita di tempo;anche se per buttare giù il nodo che aveva in gola forse sarebbe stata utile. Vide il pacchetto di sigarette,ne prese nervosamente una e l'accese. Nel silenzio della sua casa l'unica cosa che risuonava era il sospiro di quando cacciava il fumo dai suoi polmoni. Si sentì più rilassato,spostò la tenda e guardò fuori,il cielo era grigio piombo. Provò a non farsi intristire ulteriormente;ma alla fine la lotta terminò con un pareggio,o almeno così confessò a se stesso. Ma appena diede le spalle alla finestra fu preso dalla nostalgia, si chiese se lei mai l'avesse pensato. Poi dopo qualche attimo sorrise,sapeva che non l'avrebbe chiamata,era quanto mai determinato, quello che sarebbe venuto gli sarebbe andato bene. Prima di uscire e varcare la soglia di casa si disse,come per rafforzare la sua convinzione,che il passato e passato. Per strada iniziò a piovere,ma egli non si curò della pioggia,poiché tutto ciò che lo circondava sembrava chiudere un dipinto del suo ego. Ma il tempo è ciclico e dopo la pioggia prima o poi ritorna il sole,quello che ci vuole è solo un po' di tempo,come per scacciare il male. Dopo quella passeggiata tornò alla sua dimora e decise che la sua psiche aveva bisogno di riposo,così glielo concesse.

Ma il giorno dopo era come il precedente. Avrebbe voluto che qualcuno gli telefonasse,poiché non sapeva egli stesso a chi telefonare...con chi parlare,con chi potersi sfogare. Cercava di liberarsi da questa situazione angosciosa pensando a ciò che doveva fare;ma si rendeva conto che era la vittima dei suoi stessi demoni che continuavano a portarlo verso l'oblio. Iniziò ad essere pervaso dalla rabbia,continuava a chiedersi dove fosse quella tranquillità che tanto agognava,dove fossero quelli della sua ballotta ora che era nel ciclone. Per distrarsi si preparò da mangiare e mangiò nel buio e nel silenzio della sua casa,accompagnato solo da un buon vino in cui,non sapendo che fare,cercò risposte che forse non poteva dargli. Ma egli trovò nell'alcool la sua cura o forse nello stereo che suonava,nella musica. Sta di fatto che riuscì a ritornare nella medesima situazione con cui aveva concluso il dì precendente.

Si sveglio durante la notte. Aveva capito che poteva contare solo su di se. Era sempre più difficile rimanere calmo. Parlò onestamente con se stesso e si disse che sclero non ne voleva più. .Sarebbe ripartito da zero...come una nuova vita...così avrebbe potuto risalire...accese lo stereo sperando che la musica avrebbe messo su di lui le sue mani guaritrici e così tra una melodia e la sua successiva riprese sonno.

Il giorno successivo si alzò e guardò dalla finestra...Il sole rispendeva forte.

Don Merry. . .

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[direzione] - siete pregati di postare solo il racconto, senza commenti - Samirah

- Ma, mamma…. Un uomo senza musica è come un cielo senza stelle!!! - Disse Morgan che voleva a tutti i costi imparare a suonare la chitarra, - No Morgan!!! Non ti iscriverò a nessun corso di musica. Potresti montarti la testa e poi non risolvere niente. Senza parlare poi che ci vorrebbero come minimo nove anni per imparare a suonarla al meglio - Rispose la madre che, sia ben chiaro, voleva che il figlio suonasse, ma non voleva che poi, dopo avere avuto successo, cadesse in basso per poi non potere più tirarsi su. Quindi dopo pochi altri ribattiti di Morgan, la madre dichiarò chiuso l’argomento.

Il giorno dopo Morgan, non andò a scuola, bensì cercò una persona disposta ad ammetterlo come allievo; per i soldi non era un problema, gli avrebbe rubati ai suoi genitori e loro non si sarebbero accorti di niente; d’ altronde, una famiglia ricca con maggiordomi e badanti al proprio servizio, due ville: una estiva ed una invernale, non si sarebbe certo accorta di una sparizione di 25000 lire al mese. Vagò disperato per la città, sotto sguardi torvi di persone che ogni tanto chiedevano il perché lui non fosse andato a scuola, lui non rispondeva e andava avanti facendo finta di niente, con lo zaino in spalla e la testa alta. Morgan, ragazzo bruno con occhi scuri, alto e magro, infatti, non era un tipo che andava male a scuola, senza parlare poi che era figlio di una delle più ricche famiglie del paese. Costeggiando il mare, che in quei giorni autunnali era calmo e il sole ci giocava a dipingere sagome sfumate di un giallo acceso ed intenso, si trovò davanti ad una baracca di legno dentro cui proveniva un soave suono, sicuramente di un pianoforte. Non sapendo cosa fare, Morgan si allontanò, perché pensò che non poteva chiedere ad una persona di quel rango di insegnargli a suonare,ne tanto meno il pianoforte. Ma il suono continuava ad andargli in contro quasi come le brezze gelide che ti bloccano facendoti provare un brivido.

Girò sulle sue orme e tornò indietro. Arrivato alla porta di legno marcio della casa, il ragazzo si fece coraggio e bussò due volte su quella porta. Una voce debole dall’ interno rispose: - Chi è, cosa volete?! -, Morgan si sentì sconcertato, non sapeva cosa rispondere; ma dopo poco sentì qualche passo e la porta si spalancò di colpo mostrando un uomo che aveva un reticolo intricato di rughe e macchie su una bella parte della faccia. – Cosa vuoi? – intimò il vecchio, Morgan pronto rispose – Vorrei essere istruito nell’ uso di uno strumento musicale -, cosa aveva fatto?! Lui voleva suonare la chitarra, ma allo stesso tempo aveva un forte fascino per il piano. L’uomo sembrò pensarci su ed intanto lo squadrava da cima a fondo, il ragazzo si sentiva nervoso, a disagio, tanto è vero che si stava mordendo il labbro inferiore, - Mi pagherai? – chiese il vecchio di colpo, facendo sobbalzare Morgan, - Certo – rispose il giovane. A quel punto il vecchio si diede una pacca sulla fronte e disse: - Che sciocco che sono; prego entra, accomodati pure -.

Il ragazzo entrò nella casa ed ad accoglierlo trovò un pulcioso cane che fece per saltarli addosso, ma il vecchio lo prese per il pelo e lo rimise a cuccia con un dito posto verso un mucchi di scatoloni posti per terra e dicendo: - Cuccia Sole!!! – e aggiungendo poi: - Scusalo, il fatto è che anche se è vecchio vuole sempre giocare -, d’un tratto si alzò da una poltrona vecchia e strappata una ragazza della sua età, lei aveva degli occhi blu intensi che si notavano spiccando nella “casa”, la sua bellezza pareva disperdersi in quella baracca, il suo posto era nel firmamento, tra le stelle, nel cielo blu dipinto del blu dei suoi occhi di ghiaccio. – Salve, io sono Matilde, e siccome so che mio padre non si è presentato, te lo presento io: lui è Robert – era incantato dalle sue labbra che le sue penzolavano già da un pezzo; era così preso dalla sua bellezza che Morgan quasi non vide la mano della ragazza, ma la strinse e disse con voce impastata: - M…Morgan, p…piacere – balbettando sull’inizio parola e diventando rosso come un peperone. Fu Robert a riscuoterlo dai suoi pensieri: - Allora, io ti insegno a suonare il piano se tu mi pagherai mensilmente 20000 lire – disse senza battere ciglio con un tono che non ammetteva repliche; - Perfetto, affare fatto – disse Morgan entusiasta. . Verrai almeno tre volte a settimana….. lunedì, mercoledì e venerdì, dalle 16 alle18 ok? – disse il connetto; - Si! – esclamai solenne, - Bene ora torna a casa e domani portami 20000 lire per l’iscrizione –.

Morgan se ne andò pensando a quella ragazza ed ai sui occhi blu no anzi, dipinti di blu.

Quando tornò a casa, notò che i genitori erano calmi, quindi non sapevano niente della sua mancata giornata di scuola, quando sapevano qualcosa che Morgan aveva fatto i genitori erano irrequieti e lo aspettavano sull’ uscio della porta. Dopo il pranzo consumato in religioso silenzio, a base di pesce, Morgan andò in camera sua a pensare di quello che aveva fatto. Solo in pomeriggio verso le 16 uscì di casa ed andò a fare un giro per la città. Naturalmente andò a chiamare Marco il suo più fidato amico.

Gli racconto tutto della giornata e soprattutto di quella ragazza, - Morgan, ti sei innamorato, finalmente, iniziavo a pensare che eri gay, per un sedicenne innamorarsi è una cosa facile, quindi ben venuto nella nostra era!!! – scherzò Marco .Dopo altri giri per la città con il suo gruppo di amici, ai quali però non aveva accennato niente Morgan tornò a casa.

Trovò la madre che stava animatamente discutendo con il padre, - Si Morgan deve, se vuole, suona… Ciao Morgan tra poco è pronta la cena – disse il padre.

Durante la cena Morgan disse al padre: -Non voglio più iniziare a studiare musica – il padre visibilmente sconvolto, come anche la madre, disse: - Va bene –.

Quella notte si addormentò presto perché stanco delle emozioni della giornata.

Sognò quella notte, e che sogno!!!….

Sognò che si dipingeva le mani e la faccia di blu, poi d’improvviso veniva dal vento rapito e incominciava a volare nel cielo infinito, mentre il mondo pian piano spariva laggiù ed una musica suonava soltanto per lui…

Un sogno così non lo farà mai più ma se lo ricorderà per sempre.

Dal giorno a venire in poi si dedicò in tutto e per tutto alla musica, come aveva immaginato, non aveva problemi ad incassare soldi dalle tasche dei genitori, senza farsi notare. Oltre alla musica voleva farsi notare dalla giovane Matilde, si erano innamorati. Ed infatti all’alba dei suoi ventuno anni decise di fare un passo avanti, forse era un po presto, stava ancora studiando medicina, ma nulla gli avrebbe impedito di sposarsi.

Per sei anni suonò senza che i genitori si accorgessero di niente, ma era venuto il momento di sfondare nella musica. La fortuna gli venne in contro quando su un giornale c’era un concorso per musicisti, che avrebbe dato l’occasione ai vincitori di partecipare ad una serie di gare in tutto il continente. Naturalmente lui approfittò dell’ occasione e invitò i sui genitori in quel teatro dicendogli che era per visionare un’opera importante che a lui piaceva molto.

Al teatro Morgan disse ai suoi di aspettarlo seduti ai posti assegnati.

Quando il figlio salì sul palco i genitori erano sbalorditi. Poi quando iniziò a suonare il pianoforte i genitori si commossero al suono dello strumento e alla canzone che faceva più o meno così:

Penso che un sogno così non ritorni mai più

mi dipingevo le mani e la faccia di blu

poi d'improvviso venivo dal vento rapito

e incominciavo a volare nel cielo infinito

Volare oh, oh

cantare oh, oh

nel blu dipinto di blu

felice di stare lassù

e volavo, volavo felice più in alto del sole

ed ancora più su

mentre il mondo pian piano spariva lontano laggiù

una musica dolce suonava soltanto per me

Volare oh, oh

cantare oh, oh

nel blu dipinto di blu

felice di stare lassù

ma tutti i sogni nell'alba svaniscon perché

quando tramonta la luna li porta con sé

ma io continuo a sognare negli occhi tuoi belli

che sono blu come un cielo trapunto di stelle

Volare oh, oh

cantare oh, oh

nel blu degli occhi tuoi blu

felice di stare quaggiù

e continuo a volare felice più in alto del sole

ed ancora più su

mentre il mondo pian piano scompare negli occhi tuoi blu

la tua voce è una musica dolce che suona per me

Volare oh, oh

cantare oh, oh

nel blu degli occhi tuoi blu

felice di stare quaggiù

nel blu degli occhi tuoi blu

felice di stare quaggiù

con te

Da li a poco diventò il cantante più conosciuto e la sua carriera terminò con la sua morte per mano della malattia fra le braccia della moglie Matilde.

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La mia storia inizia qui. Col tempo che passa. Che è passato. Che passerà.

Persone che vanno e vengono. Gente che cambia. Che si perde.

Ho scelto di restare a vivere la mia vita qui, bloccato dietro uno scaffale mentre il mondo attorno a me continuava a girare. Io mi son fermato, non cambiando.

Dalla vetrata vedo la gente che passa. Le vite che s’incrociano, anche solo per attimi, che non torneranno più.

Ne ho visti tante.

Persone cordiali. Persone sgarbate. Persone indifferenti. Persone che non si rendevano conto di stare vivendo, estraniate da tutto e perse, perse chissà dove.

Mi sembra di essere l’osservatrice del mondo, del mio mondo.

Le persone entrano ed escono dalla mia vita in una velocità che quasi perdo i loro sguardi, a volte sfuggenti e me ne dimentico subito. Certo, che se ricordassi tutte le persone che vedo, conoscerei il mondo intero. Almeno, il mio di mondo. Non mi serve anche quello degli altri.

Sono ancora sdraiato a letto e tutti questi pensieri non riescono a librarsi nell’aria lasciando la mia testa, finalmente, in silenzio.

Mi alzo a fatica. Ogni giorno è sempre più difficile. Perché dovrei alzarmi quando ho la prospettiva di una giornata in solitudine, rinchiuso e protetto da queste quattro mura.

Avrei voluto visitare i posti, i colori, ma nessuno mi ci ha mai portato, cosi sono rimasto qui, a guardare il mondo che gira. Bisogna essere abili per farlo girare dal verso giusto. Ma a volte te ne freghi, e lo girare come vuole, rimanendo in balia degli avvenimenti.

Mi lavo e vesto quasi contro luce, come se a farlo non fossi io ma qualcun’altro, un qualcun’altro che non conosco.

Scendo in strada e di nuovo tutto mi assale.

Le persone, nella loro fretta, quasi non si accorgono di me.

Sembrano passarmi attraverso, come se fossi trasparente. Un nulla in mezzo al nulla.

La giornata prosegue come al solito. Le solite facce e i soliti stranieri. Oscuri ed allegri. Come più vi piace.

All’improvviso sento un profumo. Quasi mi sembra di riconoscerlo, di ricordarmelo.

All’improvviso i ricordi invadono la mia testa come un uragano e nel bel mezzo di questa giornata mi sembra di rivederti. I tuoi sorrisi, i tuoi pianti.

Dio mio, mai avrei pensato che saresti ritornata, e ti trovo qui, in mezzo a tutta questa gente, in mezzo a tutti questi sconosciuti. Sei tornata.

Ora tu sei…..ed io sono qui…….

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  • 2 settimane dopo...

Non si era ancora nemmeno avvicinato al cancello, e già John si sentiva teso, nervoso, angosciato addirittura. Erano ormai ventidue anni che nessuno entrava più lì, John si era sempre stupito che quel posto non fosse pieno di vagabondi, ma ora forse cominciava a capire perché, visto lo stato in cui versava quel luogo che un tempo aveva offerto risate e divertimenti a migliaia di persone.

Il vecchio lunapark di Dunwich era stato un'attrazione importante per più di mezzo secolo, era insolitamente grande per una città così piccola, ed era legato a un circo che sei mesi all'anno si univa nell'area adiacente, aggiungendo le proprie attrazioni a quelle del posto.

Il tutto fino a ventidue anni prima, al tempo del “Macellaio”.

John se lo ricordava, anche se allora era stato ancora solo un bambino. Un paio di ragazzini e tre adulti erano stati trovati fatti a pezzi nel castello dei fantasmi e nel tunnel dell'amore, il colpevole non si era mai trovato e la cosa, unita alla quantità di leggende del posto, aveva gettato una luce maledetta sull'intero complesso. In realtà ci era voluto fin troppo poco perché qualcuno cominciasse a tirare in mezzo il soprannaturale e sussurrare di spettri e mostri che infestavano il luna park, ma per una ragione o per l'altra il posto cominciò a perdere visitatori. Anche troppo in fretta, a dire il vero, visto che già la settimana successiva, quando era stato completamente riaperto al pubblico, non c'era andato quasi nessuno.

Il sesto cadavere trovato sulla ruota panoramica non poteva certo aiutare gli affari, e infatti nessuno osò più mettere piede in quel posto finché non fosse stato trovato il colpevole.

Dopo oltre due decenni, non era stato trovato proprio nessuno e questo era lo stato in cui si presentava il luna park adesso. Sembrò quasi che il posto volesse vendicarsi di quell'abbandono tenendo sbarrate le porte, infatti John ci mise un bel po' per entrare, il cancello era ormai arrugginito e distorto, lui dovette scavalcare per poter fare il suo ingresso, e una volta dentro se ne pentì.

Il vento gli ululava nelle orecchie, e quel grido solitario diventava un mugugno innaturale quando l'aria passava attraverso chissà quali spazi ristretti, feritoie e rottami. Appena entrato, sulla destra, una scritta “Unpredictable fortune” ormai consumata dalle piogge di due decenni e un vetro in condizioni pietose indicavano il gabbiotto dell'indovino, un pupazzo col volto dipinto di nero, bianco e giallo, mezzo dollaro per un foglietto con scritto il proprio futuro.

Quasi come se volesse esorcizzare la sua paura, John ghignò e infilò mezzo dollaro nella fessura delle monete. Ovviamente non successe nulla, né lui si era aspettato il miracolo.

“Beh, non è stato il mezzo dollaro peggio speso della mia vita, in fondo”, pensò tra sé.

John ricominciò a camminare fra le attrazioni ormai decadenti, con circospezione e timore: dopotutto stava inseguendo un assassino, non era lì in visita di piacere! Estrasse la beretta e avanzò, ripensando agli ultimi due mesi per far crescere la rabbia e la determinazione.

Quella notte di gennaio era rientrato a casa da un viaggio a Helsinki e aveva trovato solo rovina: molti mobili erano stati fracassati o ribaltati, televisore al plasma, pc, stereo, persino due lavandini erano stati distrutti. Nella stanza da letto invece aveva trovato Emily, nuda, aperta in due da una lama, e la vita di John era probabilmente finita in quel momento. Poi qualcosa era saltato fuori dal ripostiglio, una grossa ombra che quasi l'aveva investito e che era corsa verso la porta. John l'aveva visto bene, il bastardo, mentre fuggiva, aveva visto la cappa rossa e la spada, erano oggetti troppo strani per non vederli e non ricordarli.

Il medico legale aveva detto che non c'era stata violenza carnale su sua moglie, ma lui l'aveva a malapena sentito parlare. L'identikit fornito alla polizia non era servito a nulla, e lui si era messo a cercarlo per conto suo, anche con mezzi poco leciti. Un piccolo spacciatore (da cui, a dire il vero, lui stesso ormai si riforniva regolarmente) gli confidò che un tipo che corrispondeva a quella descrizione era da poco apparso in città, lui l'aveva visto un paio di volte che correva in strada tra le ombre delle macchine e dei palazzi, una volta gli aveva persino chiesto una dose, anche se l'aveva fatto coprendosi il volto con un passamontagna e una sciarpa, e aveva parlato con una voce stranissima, sicuramente contraffatta.

Sam se l'era fatta sotto, gli aveva dato la roba e se n'era andato continuando a guardarsi indietro. Poi l'aveva visto entrare nel luna park, e a quel punto Sam si era messo proprio a correre. Il giorno dopo aveva cominciato a spacciare in un'altra zona.

Quella sera, l'ultima di tante, John era tornato nei pressi del luna park, armato come sempre, e finalmente l'aveva visto rientrare scavalcando un muro. Ovviamente aveva detto alla polizia di cercarlo lì, ma non avevano trovato nulla e nessuno. John allora aveva deciso di fare da solo.

Il giustiziere della notte tornò alla realtà proprio mentre passava vicino alla ruota panoramica: dopo ventidue anni c'erano ancora i sigilli strappati della polizia e le macchie di sangue che la pioggia non era riuscita a cancellare. Gli sembrò di scorgere un movimento con la coda dell'occhio, ma non vide niente quando si girò.

Le nubi si addensavano in cielo come facevano nella sua testa, un lungo tuono risuonò in lontananza e gli segnalò l'arrivo di un temporale coi fiocchi. John strinse salda la sua beretta e continuò a cercare quel maledetto assassino, era disposto a tutto pur di trovarlo, aveva già perso tutto per quell'ossessione.

All'improvviso la ruota entrò in funzione. John lanciò un grido per lo spavento e non si chiese nemmeno come potesse essere possibile, rimase un po' a guardarla e poi ricominciò la caccia, i sensi tutti all'opera, il corpo pronto a scattare, la Forza scorreva in lui, novello Charles Bronson di Dunwich.

I comandi della ruota erano deserti, comunque, e nessuno poteva essersi avvicinato. Forse c'erano altri comandi da qualche altra parte, pensò, magari sotto terra. Rincuorato da quel pensiero, John passò alla prossima attrattiva: il tiro al bersaglio.

C'erano ancora i piatti di ceramica appesi, pupazzi che anni prima sarebbero stati dei premi e palle da tennis ormai marce. Ne prese una e la lanciò: piatto piccolo, dieci punti. John sperò di fare centro anche con la pallottola nella testa di quel bastardo assassino.

Un telefono squillò lì dentro, John fece un altro salto mentre cercava di capire da dove provenisse il suono. Dentro il capannone, nascosto da una tenda, trovò un vecchio telefono grigio e impolverato, stile anni '60. Sì sentiva come dentro a un film horror, quando il pubblico grida “Scappa! Che aspetti?”. Aveva sempre giudicato stupida l'ostinazione dei protagonisti di quei film, che andavano avanti anche al buio in braccio alle peggiori mostruosità, e adesso si sentiva altrettanto stupido nel prendere la cornetta invece di scappare e continuare la caccia – o abbandonarla.

“Ciaaaaao Joooohn!” La voce dall'altra parte era stridula e soffocata, il sangue gli si gelò nelle vene. “Mi stai cercando? Vedremo se riuscirai a trovarmi. Nemmeno mi nascondo, sai? Ti aspetto. Nutrirai la pioggia col tuo sangue.”

Aveva riattaccato, così riattaccò anche lui, in preda a uno strano terrore macchiato però dall'onnipresente rabbia. Si chiese cosa avesse voluto dire, e non gli piacquero per niente le gocce di pioggia che proprio in quel momento avevano cominciato a battere sulla tettoia arrugginita. Il rumore martellante diventò ben presto insopportabile, John schizzò fuori sbattendo contro la porta e rimbalzando come la pallina di un flipper nello stretto passaggio tra i baracconi.

La pioggia prese a picchiettargli sulla testa, ormai non sapeva più se essere angosciato, terrorizzato o furioso. Forse un misto delle tre cose, pensò, ma non avrebbe mollato comunque.

Il castello dei fantasmi fu la vista che più gli diede i brividi e lo convinse quasi a lasciar perdere. Era un castello alto dieci metri, si entrava dal portone principale e si usciva dal retro, dentro era un continuo di luci lampeggianti e fioche, suoni paurosi e pupazzi animati. Ora, alcuni pupazzi delle altre giostre penzolavano impiccati e infranti dalle torri, messi lì da chissà chi e chissà da quanto tempo. La scritta “Ghost Castle” che incombeva dall'alto era stata in parte distrutta e riscritta con le bombolette spray, e indicava ora il “Death Castle”. Considerato il ritrovamento dei due ragazzini e dell'adulto di vent'anni prima, non era poi così fuori luogo, o forse era stato fatto apposta da qualche mente malata.

Malgrado la pioggia e i tuoni, John riuscì a sentire il cigolio di una porta poco distante, forse quella del retro. Decise di fare il giro e andare a vedere, ma vide che qualche carrozzone era stato ribaltato per ostruire il passaggio da ogni parte.

Evidentemente doveva entrare, per continuare.

L'interno era umido, buio, maleodorante. John agitò freneticamente la torcia da una parte all'altra cercando di orientarsi, la pistola puntata perennemente vicino alla fonte di luce, la tensione che lentamente si tramutava in calma determinazione.

Una violenta risata maniacale echeggiò nel castello, una voce che non poteva appartenere a un essere umano. John tremò e si sentì gelare, il sudore gli imperlò la fronte mentre le gambe si rifiutavano di fare un solo passo. All'improvviso le luci si accesero, gli animatroni tornarono in funzione e lui rifiutò di chiedersi il perché, era tutto troppo strano. Quella luce però lo rendeva meno nervoso e lo spinse ad avanzare, seguendo un passaggio dentro una specie di cilindro bianco e nero che ruotava come una spirale, pochi metri sufficienti a dargli il mal di testa.

Appena superato il passaggio, sulla destra un machinino abbigliato da Mr Hyde cominciò a prendere a bastonate un altro pupazzo in “abiti civili”, mentre le luci si spegnevano man mano che lui avanzava e Hyde cominciava a ridere come un matto.

John non si era mai sentito un eroe, era solo un uomo distrutto e vendicativo a cui interessava soltanto massacrare l'uomo che gli aveva portato via Emily. Non era un eroe, quel posto lo terrorizzava.

Salì delle scale che portavano a un corridoio con una decina di porte, una larga scia di sangue percorreva i gradini e si divideva finendo dietro a tre entrate. Una delle altre porte si aprì di scatto e un pupazzo di stoffa dalle sembianze di un pagliaccio maligno venne praticamente “sparato” contro il muro. John saltò per l'orrore e lasciò partire un colpo che finì nella parete laterale mentre il braccio meccanico riportava clown e porta allo stato originale.

Capito il messaggio, John attese che il cuore si calmasse prima di riprendere ad avanzare con estrema attenzione. Nel tragitto si aprirono altre due porte, ognuna con la sua dose di spavento che però lui affrontò a testa alta, e arrivò in fretta alla fine del corridoio maledetto. Tuttavia fu fortunato, perché il baraccone in rovina aveva perso un paio di pannelli laterali oltre la barricata, e lui poteva uscire senza doversi fare tutto il castello. A quel punto, John era più che felice di tornare sotto la pioggia.

“Braaaavo!” sibilò una voce dall'alto appena prima che uscisse, rimettendolo sulla difensiva. “Oh, non andare via! Ci sei quasi, va dove il cuore desidera, se hai il coraggio!”

John pensò di sapere cosa significasse, il killer gli stava facendo fare il giro delle attrazioni in cui erano stati trovati i corpi vent'anni prima, “dove il cuore desidera” non poteva che essere il tunnel dell'amore.

Era proprio lì in fondo, oltre la giostra dei bambini e prima delle montagne russe che passavano sopra a un'intera sezione del luna park.

Il tragitto non era lungo, ma a lui parve infinito mentre lo percorreva, un passo dopo l'altro, sotto la pioggia battente e con l'odore della polvere chiusa da anni che gli ottenebrava i pensieri. Gli sembrò che la beretta si agitasse nelle sue mani, come se il proiettile fosse ansioso di scrutare il cervello di quell'assassino. John sentì qualcosa e si girò di lato, e in lontananza lo vide.

Era fermo, in piedi sotto la pioggia, avvolto nella sua cappa rossa, ma senza spada. Era distante e John non poteva essere sicuro che l'uomo stesse ridendo come a lui pareva, anche se avrebbe giurato che quello era un ghigno divertito, cosa che lo fece ancora più imbestialire. Gli puntò subito la pistola contro, e notò che, con rapidità, anche il suo odiato avversario gli aveva restituito il favore.

“Così mi hai trovato, John?” gridò da lontano. “O sono io che ho trovato te!”

John non rispose, si limitò ad avanzare chiedendosi che importanza avesse chi aveva trovato l'altro, dato che ormai erano lì, faccia a faccia. Anche l'uomo sì avvicinò, entrambi mantenevano occhi e canna della pistola fissi sull'altro.

“Io ti ammazzo...” ringhiò John quando pensò che la distanza fosse ridotta a sufficienza da impedire che la pioggia coprisse le sue parole.

“Ci puoi provare, John!”

A lui sembrò che lo prendesse in giro, ogni volta che pronunciava il suo nome lo forzava, come se intendesse schernirlo, come se volesse metterlo tra virgolette. John non lo sopportava. Gli puntò l'arma alla fronte e cominciò a contrarre il dito, ma poi si fermò. L'assassino rideva.

Lui lo guardò confuso per qualche istante, aveva qualcosa di troppo familiare, non riusciva a capire cosa stesse succedendo.

“Finalmente hai capito, John”, disse l'assassino, ancora forzando il suo nome. “Oh, a proposito: benvenuto!”

Quell'ultima parola e il tono con cui era stata pronunciata lo fecero definitivamente impazzire. O forse rinsavire. Davanti a quello specchio impolverato, subito fuori dal labirinto di cristallo, John cominciò a ridere follemente in preda all’isteria e ad agitare la pistola, finché non la puntò di nuovo contro la testa dell'assassino con un'agghiacciante serietà e lo vide fare altrettanto.

Lontano, all'entrata del luna park, risuonò il boato dello sparo e sembrò solo un altro tuono, uno tra tanti, un rumore senza identità come l'uomo che l'aveva provocato, chiunque dei due fosse.

Il gabbiotto dell'indovino si illuminò per qualche istante, le luci si accesero e la testa del manichino si sollevò con la sua espressione vuota e solenne. Il biglietto uscì dalla fessura con un messaggio semplice che la pioggia cominciò subito a distruggere, dopodiché le luci si spensero, la testa ricadde in avanti e lì, nel vecchio luna park, non si udì più niente. Rimase solo un foglietto di carta con la scritta “Mors Mortis”.

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  • 2 settimane dopo...

Ed eccoci alla proclamazione del vincitore del primo contest di questo concorso! :-D

Il racconto che ha raccolto il maggior numero di voti è

Cosa deve fare un Uomo

di

Selvaggio Saky

Complimenti vivissimi a Saky!

Tolgo il topic dal rilievo, ma lo lascio aperto per i commenti. ;-)

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Complimenti a Sako!

(p.s. occhio agli orrori ortografici :-p)

Nonostante l'introduzione di questa interessante novità nella sezione racconti, si sono interessati in pochi al contest di novembre!

Bisognerebbe inventearsi qualcosa per pubblicizzare questa sezione del forum e sponsorizzare meglio i Draghi d'Inchiostro.

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Bè complimenti a Saky, era uno dei tre che hanno lottato per la mia preferenza (insieme a Lothavier e Piri, ma non vi dirò per chi ho votato alla fine :-p )

Complimentoni a Saky :-D

il racconto era molto bello, il mio preferito insieme a quello di Piri (e nemmeno io vi dico per chi ho votato :-p)

l'affluenza non è stata poi bassissima, ma spero che aumenti ^^

Cungi sia con voi :mrgreen:

Fa piacere essere stato l'escluso con remora di molti :lol: (Ah...e non sperate di sapere per chi ho votato io! :-p )

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Ragazzi, grazie di tutto.........

Vorrei dedicare questo Oscar alla mia famiglia che mi supporta sempre (e chi mi conosce sa che non deve ssere facile avermi attorno ed è per questo che sono uscito di casa a 12 anni, mica lo volevo io :lol:), a voi della D'L che siete una seconda famiglia ;-) e.....

"Saky, guarda che non hai vinto l'Oscar....sei pazzo?"

Scusate, mi sono montato la testa :king:

Alla prossima "battaglia" di penna :bye:

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