Samirah Inviata 28 Dicembre 2007 Segnala Inviata 28 Dicembre 2007 Il topo d'appartamento che svaligia una casa vuota, l'amante irriverente che strappa un bacio con l'inganno, l'artista dalla mente chiusa che si appropria di un'idea altrui... Il termine "Furto" non indica univocamente la sottrazione di un bene materiale altrui, bensì può farsi carico di significati molto più ampi, e spesso di non banale legittimità o illegittimità. Le modalità e le circostanze in cui ciò può avvenire possono essere lasciati al caso, seguire un'inventiva personale o essere parte di un mosaico più grande. Di conseguenza, la figura del ladro può essere quella evocativa di un ingegnoso Lupin o quella di chi si affida al destino nello sfilare una borsetta tra le molte e correre via, può essere l'abile seduttrice che fa suoi i cuori di mille amanti, o altro ancora... Potete descrivere il tema del furto spaziando negli stili e nei generi che più preferite e che più ritenete adatti. L'importante è che, in qualunque modo vogliate affrontarlo, il tema sia al centro del racconto e non relegato a elemento secondario della vicenda che narrerete.
ectobius Inviato 2 Gennaio 2008 Segnala Inviato 2 Gennaio 2008 Si allontanava la facciata del carcere agli sguardi che le lanciava di sghimbescio di quando in quando... ogni volta che cambiava di spalla il sacco nero con i suoi averi. Era quasi gradevole alla vista, quella facciata. Rifinita in mattoni rosso cotto... e il gran portale luccicante che egli aveva attraversato già svariate volte... ostinatamente! La guardia carceraria gli aveva detto: “Arrivederci!”. La sua cella l’aveva lasciata finalmente non affollata per via dell’indulto. La occupava ora solo l’amico Giuseppe. Gli era spiaciuto lasciarlo il Peppino che non fruiva dell’indulto... il Peppino che nemmeno russava: Per un attimo aveva anche pensato di rinunciare all’indulto, ma non si poteva... Era obbligatorio! Però nessuno avrebbe potuto impedirgli di consideralo, l’indulto, solo come un “tempo d’aria” prolungato ad un’intera giornata... una lunga e non impegnativa passeggiata... fino a notte inoltrata E poi sarebbe bastato poco ad uno esperto come lui per essere nuovamente arrestato ed internato. Sapeva come fare! Certo, con un programma così limitato, avrebbe volentieri fatto a meno del sacco nero con i suoi averi Che peraltro era permesso lasciare... Ma avrebbero bruciato tutto. Tutto quanto possedeva... compresi i ricordi gli avrebbero rubato. Ma pur col sacco, ora che usciva dal collegio, mostrava un contegno discretamente dignitoso nell’abito borghese quasi nuovo frutto di un esproprio proletario in un grande magazzino. Si sentiva leggero a questo primo impatto di vita in “libertà”, e la brezza fresca di un’estate fino ad allora di afa gli donava leggerezza, tanto che la città gli sembrava di vederla per la prima volta e gli comunicava, anche, una disposizione all’avventura: cosa strana... e forsanche assurda alla sua età e condizione. Egli aveva operato una scelta una volta sola nella sua vita. Una volta per tutte! E vi aveva sempre mantenuto fede... più che altro per un senso estetico. Si fermò ad una edicola per acquistare un biglietto per l’autobus, ma non ebbe il tempo di scambiare due parole da libero con il giornalaio perché arrivava gente a comperare i giornali e tutti i giornali portavano a grandi caratteri in prima pagina l’allarmante notizia dell’invasione dei delinquenti . E cosi il giornalaio, ad evitare imbarazzi con i suoi benpensanti clienti, lo ha salutato in fretta... Però con garbo: “Buona fortuna e buona giornata a te!” Comunque la fretta con la quale era stato licenziato lo rendeva piuttosto pessimista e andava figurandosi con sufficiente chiarezza la somma di sensazioni che avrebbe suscitato la sua immagine inequivocabilmente definita dal sacco nero... Reazioni imbarazzate e anche , più di frequente, sgradevoli. Diffidenza , fino alla ostilità, le aveva già sperimentate fin dai tempi dei suoi diciotto anni quando aveva fatto la “sua” scelta... unica e definitiva... anche se in realtà era stato il mondo a scegliere per lui quando tutti i suoi amici, i più vivaci, si erano schierati univocamente per il sessantotto! Si era lasciato crescere i capelli! Capellone quando la gente perbene li schifava, ma quando i capelli lunghi divennero moda, lui allora i capelli li aveva tagliati!... quasi a zero, per continuare a suo modo a contestare. E aveva continuato a contestare... sempre... incrollabile... E contestava in certo modo anche ora portandosi in giro il sacco nero che inequivocabilmente lo identificava. Il sacco che difficilmente sarebbe diventato moda... ma chissà! Questo andava oziosamente pensando e giunse alla fermata dell’autobus che al momento era presidiata da un folto gruppo di passeggeri in attesa. Un piccolo bambino biondo e sorridente gli ha detto “ciao”. Lui lo ha accarezzato e la madre lo ha attirato a sé con energia, per educarlo... come è giusto!... Educarlo al sospetto ed alla ostilità! A questa creatura celestiale avrebbero presto rubato il proprio cielo, ed era un pensiero che lo immalinconiva E si commosse anche... Come sempre del resto ogni volta che vedeva un innocente creatura buttata in questo mondo. Nell’autobus affollato aveva trovato posto a sedere, ma in breve lo aveva ceduto ad una signora anziana che lo aveva conquistato, il posto, senza ringraziare, come suo inalienabile diritto nei confronti di uno con il sacco nero. Un atto dovuto! Questa sgarbata nobildonna meriterebbe una garbata ramanzina, pensò, ma conservava ancora integro il senso del ridicolo e non ne fece niente e si allontanò in un angolo col suo vistoso sacco. L’autobus si vuotava poco per volta ad ogni fermata e a metà tragitto trovò da sedersi col sacco fra le gambe. All’arrivo al capolinea, su in alto in collina, era rimasto solo, unico passeggero, e nello scendere salutò il conducente che gli rispose con un grugnito. La giornata era limpida e proseguì lungo i sentieri in salita attraverso i boschi. “Un evviva al bisbiglio di Dio fra gli alberi, all’armonia dolce e semplice del silenzio nelle mie orecchie, alle fronde verdi ed alle fronde gialle!...”... “Un evviva al misericordioso silenzio sopra la terra, alle stelle e alla mezzaluna, sì, a quelle e a questa!… Ascolta verso oriente, ascolta verso occidente, ascolta! E’ l’eterno Iddio! Questo silenzio che mi ronza negli orecchi è il sangue bollente dell’universo, è Dio che tesse la trama della terra e di me stesso…”. Raggiunse quasi la vetta e da una radura vide l’intera città stesa... Lì, sotto di lui. L’armonia dolce e semplice del silenzio nelle mie orecchie?… E il gatto selvatico?… che balza sul passero… ah…ah…ah…eh…eh… Qualcuno mi sa ancora indicare l’oasi ove il sangue bollente dell’universo non sia ancora sepolto sotto cumuli di monnezza e macerie… ove la trama della terra non sia ancora stata sconvolta? Questi erano i pensieri che gli suscitava il panorama e avanzava la voglia di distogliersi … Immediatamente! Guardava la città dall’alto. Una nebbiolina ristagnava nelle strade e vicoli…Non sopra, ma proprio dentro, fino al fondo dove strisciano i vermi… e pesava sui tetti , la foschia, come una cappa oleosa di fumi di piombo. E un brusio saliva fin lassù… E non era il suono della vita, era un mormorio lugubre che richiamava alla mente il borbottio monotono di un folle nevrotico che laggiù produceva fracasso e urla… Latrati disperati di cani isolati che fiutavano veleni… Lo sapeva! Alle sue spalle il bosco silenzioso… Silenzio mostruoso di morte perché il direttore d’orchestra era fuggito. Il Dio Pan era fuggito!… E la trama della terra era ora disegnata dal dio del danaro, del potere e della violenza… Brusio di morte. Non resse lo spettacolo ed anticipò il rientro in città. A piedi attraverso il bosco, senza fretta, mentre l’animo incorreggibile lentamente ritornava a ben disporsi man mano che vi si inoltrava. Prudentemente, tranquillamente... ostinatamente! Avanzava lenta una disposizione quasi all’entusiasmo ad ogni pur minimo accenno residuo di un antico spettacolo di natura che pur ora questo resistente enigmatico pianeta era capace di offrire... Nonostante. Non aveva fretta! Lo avvolgeva ed estasiava il silenzio rotto a tratti da un timido cinguettio, un fruscio fra l’erba e intravvedeva rapida una flessuosa serpe verde... la lucertola... un isolato fungo rosato fra l’erba... Gli alberi alti si elevavano come colonne di un tempio e gli sembrava di procedere con rispetto lungo una navata verso l’altare del Dio. Si fermava spesso, illuminato da una striscia di sole filtrata tra i rami verdi lucenti lassù, quasi trattenendo il respiro... In deferente ascolto percepiva il concerto... una melodia primordiale... il brivido del primo bacio. Arrivò alla strada asfaltata e continuò il cammino in discesa per un incalcolabile tempo. E dietro una curva, eccoli! i mostri, gli alieni meccanici. Robot avanzanti lenti ed inesorabili, le lunge alte artigliate braccia meccaniche che tutto abbrancano lasciando dietro di sé i loro escrementi di cemento e bitume a coprire cascine prati orti boschi... Tutto! Sollevò lo sguardo e vide un angelo nero danzare su un’asse stretta contro il cielo limpido. Angelo nero! Funambolo! Posò il sacco e sollevò per istinto entrambe le braccia con le palme rivolte al cielo, le dita divaricate come a sostenere l’angelo... Oppure pregava?... O imprecava e malediceva? Era solo un piccolo ladro, lui... ma era a lui che avevano rubato tutto i grandi ladri di diritto alla vita. Ora le braccia levate, le mani in alto, erano il segno della resa E l’angelo nero si era dileguato, volato via per posarsi alla fine su qualche trespolo. E malinconicamente era giunto in città e zigzagava tra le auto sgarbate, padrone incontrastate della strada e finanche dei marciapiede. L’ora era avanzata e quasi non s’accorgeva del tempo che era passato, se non glie lo avesse ricordato un senso di languore e di vuoto nello stomaco. Non aveva voglia di entrare in una trattoria. Preferiva continuare la sua passeggiata, ancorché intristita. Entrò in un supermercato, ancora affollato a quell’ora, ma senza l’intenzione di approfittare della confusione per procedere ad un esproprio proletario... E mica per timore di essere scoperto per il suo aspetto altamente sospetto, ma solo considerava che era ancora presto per rientrare in collegio. Avrebbe acquistato solo un grosso panino e dell’affettato e li avrebbe regolarmente pagati! Sotto gli alberi di un parco si è seduto ad una panchina ed ha scartato il megapanino. Non era ora di bambini al parco. Solo alcuni anziani oziavano seduti sulle panchine. La sua attenzione era attratta da un signore distinto dai capelli candidi. Leggeva un libro e di quando in quando sollevava lo sguardo dalle pagine e lo dirigeva avanti a sé, guardando al di sopra delle lenti a lunetta. Sembrava non osservare niente in particolare. Era come assistesse ad una proiezione su uno schermo invisibile... un film che poteva essere il bilancio della propria vita. Nel mentre osservava aveva scartato il panino e non s’era accorto che un uomo dalla pelle scura si era seduto sulla sua stessa panchina. La testa reclinata, il mento sul petto. Spezzò il panino, glie ne offerse la metà. Ne ebbe in cambio un grazie appena sussurrato. L’uomo addentò il panino sforzandosi di non divorarlo come la fame che si portava dietro quasi gli imponeva. Mangiò con garbo e dignità, a bocca chiusa e masticando a lungo. E non ci furono parole fra di loro. Solo quando ebbero finito di mangiare egli gli chiese se poteva offrirgli un piccolo aiuto e quello non rispose. Forse non conosceva la lingua! Gli mise in mano cinque euro e lui non li strinse avido, ma gli rivolse uno sguardo umile. Riprese il cammino attraverso le vie del centro nel chiasso e nei fumi e incontrava gente che camminava o sostava alle vetrine illuminate ché oramai faceva buio. Camminò poi a lungo verso la periferia ed era già buio e tardi quando entrò in un elegante edificio nuovo e salì le scale fino al quarto piano senza fruire dell’ascensore. Si fermò sul pianerottolo presso una delle porte a riprendere fiato Si dette una sistemata alla cravatta e al vestito e aveva già il dito sul pulsante del campanello. Esitava! Era stato suo amico al tempo della rivolta e si erano ritrovati assieme disorientati nella gran confusione che ne era seguita: irriducibili, pentiti, dissociati, voltagabbana, PCIini, democratici proletari, gambizzatori, lotta armata, brigatisti e lotta continua, normalizzati, fighetti radical chic, bombaroli, fascisti, poliziotti proletari... Non sapevano più cosa scegliere! E lui scelse di non scegliere rimanendo fedele solo agli espropri proprietari e venne d’ufficio aggregato ai “dissociati mentali. Il suo amico invece aveva scelto la normalizzazione. Senza se e senza ma... per usare un termine moderno. Entrambi avevano dismesso le armi della politica ed interrotto definitivamente un sodalizio intrattenuto per un tempo che, a quell’età, era sembrato lunghissimo. Si sceglie nella vita! Anche più volte. Questo o quello si sceglie, ma lui aveva scelto una volta per tutte! e per questo veniva percepito paradossalmente come uno spirito libero. In realtà egli era tutto fuorché libero. Era il mondo che continuava capricciosamente a scegliere per lui che aveva abdicato a costruire la propria vita nel tempo. La libertà di cui a volte anche osava vantarsi non era che una mancanza di libertà... il mondo reale lo dominava. Tuttavia nei suoi momenti migliori osava definirsi esteta ed aristocratico e rivendicava per sé una presunta superiorità. In realtà era solo un povero cristo! Ora su quel pianerottolo si rendeva conto che tra lui e il suo vecchio amico s’era scavato un invalicabile solco... un abisso. Impossibile incontrarlo, questo antico amico! Si immaginava la scena: l’avrebbe riconosciuto ed abbracciato e fatto entrare La moglie avrebbe messo a letto in fretta i bambini e oltre la porta della sala gli avrebbe bisbigliato il suo disagio Gli avrebbe chiesto di licenziarlo presto con una scusa quell’uomo dal sacco nero... il “dissociato mentale!”. Una tristezza profonda si impossessò di lui e distolse il dito dal pulsante. Rimise il sacco in spalla, ridiscese le scale e si allontanò ancora verso la periferia, fino ad una piazza deserta con una miriade di auto parcheggiate. Le finestre dei palazzi erano aperte ed illuminate. Era il posto ideale per organizzare il finto esproprio proletario necessario per rientrare nel guscio protettivo del collegio. Avrebbe potuto armeggiare intorno ad una delle auto di lusso... intorno ad un enorme fuoristrada... ma si sarebbe vergognato come un ladro a farsi vedere interessato a simili aggeggi. Scorse una misera vecchia cinquecento! Quasi nascosta e sopraffatta da quegli enormi mostri e vi si diresse con passo pesante sul selciato... TAP... TAP... TATATAP... Fece cadere pesantemente con un tonfo il sacco, lo aprì e vi fece tintinnare dentro tutto quanto era tintinnabile. Nessuno si affacciava ad una finestra. Tossì forte fino quasi al soffoco Ravanò rumorosamente nel sacco e ne trasse un paio di forbici e con quelle prese ad armeggiare intorno alla serratura della cinquecento arrugginita. Nessuno si affacciava. Fece ancora quanto più baccano poté e finalmente uno si affacciò. “Cosa stai facendo?”, urlò. “Sto rubando... non lo vedi?” “Io chiamo la polizia!” “E chiamala!”. Non mancò molto che una pantera sgommante era sul posto. Egli lasciò sacco e forbici e si dette alla fuga lungo la piazza. Fu naturalmente presto raggiunto e si divincolò a spintoni. Infine immobilizzato gridò: “SBIRRI DI *****!”. Era fatta! C’era tutto ormai! Furto, tentativo di fuga, resistenza e soprattutto oltraggio a pubblico ufficiale La retta alberghiera poteva considerarsi pagata e garantita per una lunga permanenza. Quando rientrò in cella era molto tardi e Peppino che lo aveva atteso da sveglio glie lo fece notare. “Avrei potuto rincasare molto prima” rispose “ma gli sbirri hanno voluto scrivere un rapporto che era un romanzo. Tra scrittura, editing e correzioni a momenti veniva giorno, se io non avessi dato loro una mano”. Salì al primo piano del letto a castello. Peppino prese posizione a piano terra. “Peppì! Usciremo assieme da qui?”. Era il segnale! Acché Peppino intonasse la ninna nanna: “Certo!... E verrai con me in un posto che solo io conosco... Dove la terra è nera e grassa... E basta guardarla perché ti nutra... E alleveremo le galline... E cresceremo il maiale... Con gli avanzi... Sentirai che sapori!...” Aveva chiuso gli occhi. E sulla litania di Peppino lo accolse un sonno vuoto di sogni.
piri Inviato 11 Gennaio 2008 Segnala Inviato 11 Gennaio 2008 "Scusi buon uomo, vorrei denunciare un furto" disse timidamente Odorico entrando nella caserma dei carabinieri. Un giovane in uniforme sulla ventina, capelli rasati e occhi accesi, lo accompagnò attraverso un lungo corridoio. Dalle porte aperte lungo i lati uscivano rumori da ufficio: telefoni e chiacchiericcio, ventole di computer sfarfallanti e rumori di passi in giro. Tenue nell'aria si espandeva l'odore di caffè appena fatto. "Si accomodi" lo invitò ad entrare il giovane ufficiale "il maresciallo sarà subito da lei". Odorico entrò cautamente. Un'unica lunghissima finestra occupava la parete di fronte a lui, ma l'abbagliante luce della calda mattinata di aprile era smorzata dalle tende tirate. Sulla parete alla sua sinistra una libreria di mogano sfoggiava le sue preziose copertine e un busto d'ottone di Garibaldi. Dall'altro lato i calendari dell'Arma sovrastavano un divano di pelle verde a tre posti. In mezzo alla stanza riposava una scrivania di legno scuro sulla quale l'unico oggetto riconoscibile era il monitor di un computer, di quelli piatti. Due sedie imbottite si frapponevano tra Odorico e la scrivania. Dall'altra parte una poltrona di pelle nera dallo schienale alto ammoniva chiunque entrasse in quella stanza: da li veniva comandata l'intera barca, l'uomo che vi si sarebbe seduto era abituato a navigare in burrasche tumultuose. Odorico provò un senso di sollievo al pensiero che il suo caso sarebbe stato seguito direttamente da lui. Si sedette sulla sedia alla sua destra, col cappello in mano e le mani appoggiate sulle gambe guardando fuori di finestra. L'attesa fu breve. Sentì la porta che dolcemente si chiudeva alle sue spalle "Quindi lei è qui per denunciare un furto, eh?" chiese un uomo alto, ben eretto nei suoi cinquant'anni. Con passo saldo l'uomo fece il giro della scrivania quasi senza guardare il vecchio che educatamente si era alzato. Appoggiò il cappello dell'uniforme sulla scrivania: "Si accomodi pure e mi dica, brevemente, cosa le hanno rubato e come si sono svolti i fatti" disse sedendosi il maresciallo. Lo fece con fare educato ma il tono di voce lasciava chiaramente trasparire l'impellenza di future e ben più complicate faccende. Il vecchio Odorico si concentrò un secondo, si schiarì la voce ed iniziò: "Mi hanno rubato...beh, le sembrerà strano, ma mi hanno rubato il cervello. Vede, ce l'avevo qui in tasca, insieme alle chiavi di casa, ma adesso non lo trovo più." Il maresciallo non fece una piega e chiese "E questo cervello, com'è fatto?" Orodico si voltò intorno, quasi a cercare qualcosa che potesse servirgli da termine di paragone: "È certamente verde. Si, è verde, ne sono certo perchè me lo ricordo. Già quando lo presi, durante la guerra - perchè io ho fatto la guerra, sa? - era verde. Ma non verde verde, più verde mare. Ha presente quando l'acqua del mare prende quei riflessi che sembra vetro come una bottiglia? Ecco, aveva un colore del genere. Poi, nell'invecchiare, s'è scurito. Adesso è molto più opaco e sembra come..." il maresciallo si accomodò meglio nella poltrona e interruppe Odorico "e che forma ha, questo cervello?". Il vecchio, preso alla sprovvista, sgranò gli occhi, ma riacquistata fiducia proseguì: "È tondo con due maniglie sopra. E poi ha dei pennacchi, che però son gialli e rossi, che gli svolazzano intorno quando lo tengo all'aria. Vedesse bello. Gli girano intorno come le pinne dei pesci di quegli acquari che si vedono nelle vetrine del centro, ha presente? E poi questi pennacchi lo avvolgono tutto, poi lo liberano e tutte le volte che lo fanno lui brilla e io mi ricordo di quando in guerra i tedeschi mi presero e mi volevano fucilare e allora mi portarono fuori città, adesso in quel posto ci hanno costruito una pizzeria, ma all'epoca era tutta campagna, e mi fecero voltare verso il muro del campo del Casotti, un fruttivendolo che aveva l'orto da quelle parti. Proprio mentre chiudevo gli occhi e aspettavo la fucilata invece sentii una gran confusione e questi tedeschi che scappavano di corsa. Uno mi sparò anche addosso, ma mi prese solo di striscio una spalla. Adesso ho la cicatrice che quando piove..." tornando eretto il maresciallo tentò di tagliare corto "ma dove e come gliel'hanno rubato?" Odorico fece un profondo respiro: "Ero sul diciannove, che dovevo andare dal dottore in piazza Mazzini. Avevo appena lasciato il posto ad una signora bionda, anziana, con le borse della spesa e poi tanto ero quasi arrivato e dovevo scendere e quindi mi sono avvicinato alla porta solo che l'autista ha inchiodato e qualcuno m'è venuto addosso e son quasi caduto però siccome quello per strada era caduto davvero mi son girato a vedere che succedeva e alla fine non era niente perchè s'era solo spaventato ed era finito in terra per quello. Quindi sono sceso e mi sono incamminato ma poi, ripensando a quello che era successo non l'ho trovato più." Il maresciallo appoggiò i gomiti sulla scrivania e guardò Odorico dritto negli occhi: "Ma lei è proprio sicuro che fosse il suo cervello quello che le hanno rubato?" Odorico abbassò lo sguardo e disse mestamente: "Beh, forse no, ha ragione. Però so che qualcosa mi hanno rubato..." restò un attimo in silenzio, pensieroso, quasi come un bambino messo in castigo per l'ennesima marachella. D'un tratto però il suo volto si illuminò: "Le parole! ecco cosa! mi hanno rubato le parole perchè io le cerco dentro di me e so che sono li però non le trovo e quindi vuol dire che qualcuno me le ha rubate. E infatti ecco - vede che torna tutto? - stavo andando proprio dal dottore perchè il dottore lo sa chi è stato! Me lo ricordo, me lo dice tutte le volte perchè mi conosce da una vita, abbiamo fatto la guerra insieme solo che io avevo vent'anni, lui era ancora un bambinetto...e me lo dice chi è stato, tutte le volte...mi pare che sia stato un giovanotto tedesco, ma non mi ricordo come si chiama, si è rubato anche il suo nome...eppure ce l'ho sulla punta della lingua..." Il maresciallo sorrise bonariamente "So io come si chiama" disse ad Odorico che fermò il suo sproloquio e lo guardò incuriosito. "Si chiama Alzheimer, papà."
viridiana Inviato 28 Gennaio 2008 Segnala Inviato 28 Gennaio 2008 Si era svegliato presto, o forse non si era addormentato affatto. Gli succedeva sempre così quando programmava un “lavoro”. “Notte in bianco, la giusta punizione per quello che faccio”. Si diceva sempre. Quella mattina era abbastanza tranquillo, quasi di buon umore. Girava per il suo monolocale in mutande, da una stanza all’altra, senza sapere esattamente quello che cercava, forse, in realtà, non stava cercando nulla. Mangiucchiò i suoi fiocchi d’avena distrattamente, quasi non ne avesse voglia. Il telefono squillò. Non rispose. Il telefono squillò una seconda volta. Lo guardò distrattamente. Il telefono squillò una terza volta. Andò a farsi una doccia. Fuori l’aria era frizzante. Un sole quasi accecante illuminava le cose senza però riscaldarle. Troppo distante ed indifferente per poterlo fare. Si chiuse la porta alle spalle e fece i due gradini che lo separavano dai ciottoli del giardino. “Sembra quasi una reggia vista da fuori” pensava guardando la facciata del suo appartamento mentre si metteva il casco e saliva sul motorino. L’accese con estrema facilità e se ne andò. A qualche chilometro di distanza, in una casa isolata, Luca stava facendo colazione col fratellino che non smetteva di piangere. <<Mammaaa, io devo uscire!!!>> urlò cercando di sovrastare il pianto del fratellino. Così facendo il pianto prese nuovo vigore aumentando di decibel. “Chissà se respira o mi muore soffocato” si trovò a pensare. Sorrise. Si alzò e andò al telefono. Compose un numero. Che fece di nuovo. Ed una volta ancora. Nessuno rispose, anche perché non gli dava tempo di farlo. <<Mammaaaaa!!!!>> <<Arrivo arrivo!!>> Una giovane donna arrivò di corsa sui propi tacchi che si facevano sentire rumorosamente. <<A minuti dovrebbe arrivare la baby sitter, tu non fare tardi come al solito che poi vuole più soldi.>> Un BIP BIP depresso si sentì fuori casa. <<Va bene mamma>> prese il casco ed uscì di corsa. Andarono tranquilli verso il centro senza scambiarsi una parola. Si guardavano attentamente intorno, quando l’amico fece a Luca un gesto attirando la sua attenzione verso una signora un po’ avanti con gli anni. La borsa pendeva rassegnata dal suo braccio destro. Sarebbe stato uno scherzo. Una volata e via. Quasi non se ne sarebbe nemmeno accorta. Luca rispose positivamente con la testa. Puntarono la preda, e partirono. La signora, quasi spaventata dall’improvviso rombare del motorino, si ritrasse un po’ verso il marciapiede. Il motorino si avvicinò alla signora. A Luca bastò allungare il braccio per prendere la borsa che, con un sonoro urlo della signora, non fece resistenza e si fece portare via facilmente. <<Al ladro!!>> Sentirono i compagni mentre il motorino litigava col marciapiede. La ruota davanti sfregava malamente sul marciapiede facendo perdere il controllo del mezzo al suo autista. Caddero malamente per strada. Luca, tenendo ancora la borsa, andò a finire la propia corsa contro un auto parcheggiata. Il compagno riuscì a cavarsela con più fortuna. <<Luca!!!>>gridò all’amico che a terra non si muoveva. Si alzò zoppicando e cercò di andare verso il compagno mentre già si sentiva il suono di una sirena della polizia. Spaventato andò verso il motorino, provò ad accenderlo, miracolosamente, con qualche colpo di tosse, il motorino riprese vita. Salì e partì subito incurante del semaforo rosso. Una frenata, un rumore di parabrezza infranto e tutto diventò buio. 1
Wolf Inviato 28 Gennaio 2008 Segnala Inviato 28 Gennaio 2008 John stava camminando nel boschetto del parco, la solita passeggiata serale. Stava bene questa sera. Aveva mangiato discretamente, e la calda serata di Giugno offriva una temperatura apprezzabile. Indossava una camicia marrone a righe bianche, alla quale mancava purtroppo il bottone del polsino sinistro; nel taschino davanti al cuore teneva un accendino di quelli che i marocchini suoi amici vendevano nei parcheggi, a forma di cellulare. Tutto sommato stasera non poteva lamentarsi di non avere una casa, di non avere una famiglia o un lavoro. Andava quasi tutto bene. Quasi. Purtroppo da un paio di settimane non trovava altro paio di scarpe che quelle che aveva ai piedi ricevute dai preti grazie alle cose che i fedeli regalano ai più poveri, al posto di buttare. Il problema era che erano un paio di mommut: pesanti stivali da neve, foderati in soffice stoffa che teneva il calore tutto all'interno, senza far passare aria. Faceva un caldo dannato la dentro, e non aveva molte occasioni di lavarseli, quei piedacci. Scosse il capo, dicendosi di aspettare ancora, finché la fortuna non gli avesse sorriso, e intanto si inoltrava in un altro sentiero tra gli alberi, con la leggera brezza a sfiorargli il volto. Due innamorati si baciavano affettuosamente, su una panchina poco più in fondo. Si ricordò di quando, da giovane, si era trovato nella stessa situazione: le gentilezze, la coetanea, la cosa che si era fatta cosi travolgente da ritrovarsi quasi nudi.. I due ragazzi lo scorsero e si alzarono in tutta fretta, spaventati da quest'omone che li osservava e lui riuscì a vedere solamente il volto della ragazza e quel simpatico neo sulla guancia sinistra. Si avviò verso la panchina, si sedette e tossì. Poi lentamente si sfilò entrambi gli stivali. E il piacere lo avvolse, nel sentire l'aria fresca resuscitargli i piedi mentre li distendeva sulla panchina. Si sentiva finalmente in pace con se stesso. Non capiva quei ricconi, che avevano bisogno delle piscine, dei massaggi, dei bagni termali, dell'alcol o della droga, per sentirsi bene. No, bastava togliersi un paio di mommut dai piedi, per essere felici. Tra un pensiero e l'altro John si addormentò. Si svegliò a notte fonda, di soprassalto. Si guardò frettolosamente attorno, allarmato, fino a che vide un uomo in lontananza uscire dal parco correndo. Stringeva qualcosa in braccio, o cosi gli sembrò nel vederlo passare sotto al lampione acceso. Forse era un ladro che aveva rubato qualcosa a qualcuno, ma lui non aveva niente da temere, non aveva cose da rubare. Cosi pensava, fino a che non si accorse che gli era rimasto un solo mommut. Aprì gli occhi di scatto. Alzò la schiena dal letto, nella sua camera disordinata e sporca al 16° piano del condominio più scalcinato della città. Gli venne subito in mente d'averlo fatto di nuovo. Si mise a piangere seduto sul materasso a molle, cigolante sotto i suoi singhiozzii, come a volerlo accompagnare nel suo dolore. Dopo 5 minuti si alzò in piedi, gli occhi gonfi di lacrime. Aprì l'armadietto:dentro c'era tutta la sua collezione di mommut. Erano 42, con quello, come il numero dell'ultimo paio che aveva rubato la sera prima. Ed erano tutti rubati in anni malattia. Era un cleptomane, ma s'interessava solo di mommut. Strana fissazione la sua che da tempo non andava più in montagna. Il dottore diceva che presto sarebbe guarito. Pablo si mise i pantaloni che erano buttati sulla sedia dalla sera prima, indossò la felpa del Che, prese il paio di mommut e dopo aver inghiottito una tazza di caffè della sera prima uscì di casa, sbattendo la porta. Destinazione dottore pensò, a fargli vedere per cosa il comune lo paga, a cosa serve il suo lavoro. E poi sarebbe andato direttamente a lavoro, al suo amato autobus che gli impediva di dedicarsi a quei maledetti mommut. La giornata sembrava una come tante, come era già successo. Ma gli istanti successivi della vita di Pablo furono qualcosa di imprevedibile, un turbinio di eventi sconnessi e improbabili che portarono ad un ineluttabile perdita. I fatti andarono cosi: entrò nell'ufficio del dottore inveendo contro il suo lavoro, scagliando le calzature contro il mobile di vetro dei medicinali, spintonando la grassa infermiera che voleva intromettersi per fermarlo, correndo a perdifiato tra la gente, nella strada, con la mente confusa e incerta. Pochi istanti ed era nel Suo autobus, al Suo posto di guida, con il Suo berretto e la Sua divisa indossati in tutta fretta, con la Sua mano destra sul pomello delle marce. Fino a quando, pochi isolati dopo, nel Suo tragitto abituale, salì nell'automezzo un pazzo. Iniziò a farneticare strattonando gli altri viaggiatori e urlando contro Pablo, del destino che ci governa tutti, del dito invisibile che ci punta dall'alto, della mano che manovra le nostre azioni, delle indicazioni che dobbiamo seguire in ogni attimo della nostra esistenza. E poi estrasse un coltello da cucina, tra le urla spaventate dei passeggeri sconvolti nella loro pacata routine, e si avventò verso l'autista che lo guardava rapito da quelle parole senza senso che però davano una spiegazione alla sua attrazione verso quegli orrendi mommut. Si, orrendi. Quando Pablo si svegliò nel letto d'ospedale poté leggere, nel quotidiano riservatogli dal dottore d'ospedale, l'articolo in cui si narrava la sua mutilazione mentre era alla guida dell'autobus numero 2, dove gli furono rubate 2 dita (indice e medio) della mano destra. Il folle, era ancora in fuga. Gli bruciavano gli occhi, a Juan, nella notte. Erano due giorni che non dormiva, braccato dalla polizia. Le dita le teneva ancora in tasca, fredde come la notte che l'avvolgeva, tetre come i pensieri che da sempre insidiavano la sua mente. Juan si alzò, nel vicolo di città, infreddolito, in cerca del suo contatto. Sentiva le sirene riecheggiare nella notte: la polizia lo cercava ma non l'avrebbero mai preso. Il commissario Malisette ancora una volta non l'avrebbe trovato, come non ci era riuscito negli ultimi 10 anni. Quelle dita erano l'ultima consegna del suo mentore, l'ultimo sporco lavoretto per ripulire questo mondo fetido, un sacrificio necessario per l'ordine generale. Le estrasse dalla tasca, le rigirò tra le proprie, controllandole bene. Si, aveva fatto un buon lavoro. Si incamminò verso il palazzo fatiscente in fondo al vicolo, tra bidoni d'immondizia e barboni addormentati in attesa di una giusta e meritata morte. Sapeva di essere controllato, dall'alto, dai portatori di morte e tranquillità che la notte vivevano tra i tetti. Gli unici ad aver assoggettato il fato ai propri servizi, per dispensare riposo e sofferenza. Arrivò davanti al grande portone centrale, con i due anelli in ferro ad altezza degli occhi. Un bidone dell'immondizia bruciava poco distante, mentre all'improvviso scattava l'allarme di un auto, un riccone utopista in cerca di giustizia probabilmente. Si sistemò lo spolverino nero, ancora tutto acciaccato dal mancato riposo; diede una scossa ai capelli unti, nel vano tentativo di rendersi presentabile, e poi afferrò l'anello di sinistra e lo battè con forza contro il legno massiccio. Sentì l'eco all'interno, come un macabro rintocco di campana, nei trenta piani del palazzo imponente. La porta si aprì qualche istante dopo; attese che gli occhi si abituassero alla densa oscurità ed entrò giusto in tempo per notare l'ombra dell'uomo che aveva aperto sparire in una stanza. Fece qualche passo all'interno, con calma; prese fiato, e poi iniziò la lenta e lunga salita delle scale, fino al dodicesimo piano, dove sapeva che lo stavano attendendo. Giunto finalmente a destinazione, con il fiato corto e la maglia sudata, entrò nella prima stanza di sinistra. Non trovò quello che si aspettava: la stanza era fiocamente illuminata e dietro alla scrivania c'era un uomo seduto che non aveva mai visto, con di fianco due gorilla imberrettati, vestiti di nero, con occhiali scuri nella notte fonda. L'uomo aveva capelli lunghi e albini, pelle dal colore naturalmente arrossata, mani fine e affusolate, e un aura attorno molto poco raccomandabile. Esitò, sull'uscio. La voce giunse flebile e gelida: “Accomodati”. Vide un ombra appena accennata allungarsi sotto ai suoi piedi, da dietro, e capì di dover obbedire. Si fece avanti deglutendo, con l'improvvisa certezza di aver sbagliato qualcosa, stanotte. “Hai quello che aspetto?” Juan si guardò attorno, e notò altre figure sedute sulle poltrone che facevano da arena alla scrivania. Annuì con il capo. “Bene”. L'uomo si alzò in piedi, leggero. “Come lei si sarà accorto, Juan, stasera non c'è come al solito il signor Calamiat ad attenderla, ma ci sono invece molte persone”. L'uomo gesticolava molto, parlando, come se stesse recitando ad un'apparizione teatrale. Con gesto scenico accompagnò la sua affermazione indicando a braccia larghe tutti i presenti. “E non si è chiesto perchè?Non si è chiesto dove si trova Calamiat?” Fece una pausa d'effetto, nella quale Juan cascò. “Io..”, azzardò proferire.. “Taccia!”. Venne interrotto bruscamente, e si rimangiò la lingua. “Le spiego io, cos'è lei!” C'era molto disprezzo, nella voce dell'uomo. Guardava a terra, mentre parlava, con i capelli bianchi cadenti attorno agli occhi. “Lei, Juan, è un uomo che da anni vive nelle ombre, che spera che un futuro migliore arrivi, risorto e risanato dagli stessi che lo stanno distruggendo ogni giorno, che le danno missioni senza senno che lei prontamente assolve; lei è un uomo che non si accorge di essere la malattia che obbliga la città ad assumere anticorpi, che non si accorge di essere un reietto dalla società perché lei stesso la disprezza e la evita. Lei, Juan, sta cercando da anni un apertura nella bara che si è costruito con le sue stesse mani.” Fece un altra pausa, ma questa volta l'effetto era di lasciar decantare le proprie parole, di farle assimilare alla platea udente, di far scendere una nebbia di ammirazione per la propria arringa. “Ma questa sera..questa sera..”. Finalmente lo guardò dritto in faccia, diretto. “Ebbene, Juan, questa sera tutto finisce. Questa sera ritroverà la strada tanto cercata, la giusta medicina ai suoi dolori, l'assoluzione dalla società: questa sera c'ha portato dal suo mandante, e tutto finisce finalmente qui.” Juan era confuso, ancora non capiva che stesse succedendo. L'unica cosa che gli venne in mente fu di infilare una mano in tasca, ed estrarla con il palmo verso l'alto, a mostrare tutte le sette dita di cui disponeva in quel momento. L'uomo scoppiò a ridere fragorosamente, mentre dall'ombra alla sinistra di Juan il commissario Malisette faceva capolino sorridente, alzava la mano sinistra che impugnava la Glock e la puntava alla fronte del povero Juan. Il delinquente provò ad alzare le mani in gesto di resa mentre il proiettile gli trapassava il cranio e nelle orecchie risuonava quella risata sempre più gelida, sempre più metallica, sempre più silenziosa. Qualche ora dopo la camionetta della polizia stava portando via il cadavere necessario del pazzo mutilatore del bus, e una decina di malviventi arrestati nella nottata. Le due dita erano state rinvenute, assieme ad altre dieci coppie tra indici, medi e anulari, conservati in un piccolo freezer. I legittimi proprietari vennero avvertiti il giorno dopo, ma a Lisa, dei coniugi Loisonne, e Anne, moglie di Julien Salsi, dovettero dare la triste notizia del mancato ritrovamento delle fedi nuziali. Il sole splendeva, in quell'assolata mattina di Luglio. La folla s'accalcava attorno alla chiesa agghindata a festa, in abbracci e saluti di parenti lontani che si vedono una volta l'anno. Marco era in piedi in entrata, la profonda e ampia navata della chiesa alle spalle, abbracciato da due portoni di legno massiccio tirati a lucido per l'occasione. Affrontava i convenevoli come d'uso, stretto nel suo abito elegante comprato appositamente, il bianco papillon al collo e le scarpe di pelle nera a riflettere i raggi del sole. Tutto sommato, anche se stancante, era una giornata gioiosa per lui. Stava per sposarsi. Eh si, quel giorno era il suo giorno. Suo padre già sedeva in prima fila davanti all'altare, stretto probabilmente tra i ricordi di sua moglie (e madre di Marco) morta qualche anno prima. Le sarebbe piaciuto esserci quel giorno. Marco poteva dedicarsi al divertente compito di accogliere tutti gli invitati, parenti e amici sia suoi che della sua futura moglie. Ormai mancava poco però, e si congedò dal pubblico con un saluto gentile e garbato, per andarsi a dare le ultime sistematine generali. Dopo mezz'ora si presentò di fianco all'altare, pettinato alla perfezione, con il trucco sistemato. Era accompagnato dal fratello, Silvio, a far da testimone, e suo padre sedeva sorridente a qualche passo da lui. Si osservò attorno, mentre la musica dell'organo riempiva calorosamente le ampie volte della chiesa coprendo a malapena il brusio degli invitati. Notò con gioia, in seconda e terza fila, tutti gli invitati che più attendeva: erano in divisa d'ordinanza da festa, seduti e con il berretto appoggiato alle ginocchia. Lo guardavano scambiandosi battute pungenti al suo indirizzo, schernendolo e pensando agli scherzi che sarebbero seguiti. Tutto il reparto di polizia nel quale lavorava lo stava osservando sposarsi, intimamente felici per lui. Marco lo capì, e sorrise felice. Guardò oltre la navata, oltre il portone. La luce del sole entrava luminosa, splendente, a testimoniare la gioia del momento, la gioia nel suo cuore e quella che probabilmente stava giungendo la, con la sua ragazza Elisa. Davanti alla chiesa non passava nessuno, la strada sicuramente mantenuta sgombra dai suoi colleghi per l'occasione speciale. Due colombe passeggiavano sugli scalini, raccogliendo briciole o chicchi di riso rimasti a terra dai precedenti matrimoni. Poi d'improvviso presero il volo, eleganti. E Marco vide giungere la limousine che le aveva spaventate, segno che era dunque giunto il momento. Guardò agitato e con aria interrogativa suo fratello, che gli stava alle spalle: lui rispose con un cenno del capo e uno sguardo a dire “con chi credi di avere a che fare, certo che ho l'anello”. Marco si agitò ancor più, a pensare a quell'oggetto, a tutto ciò che implicava,a quella sera di un mese prima.. Ma la musica di rito cominciò, come una benedizione solenne a ufficializzare l'inizio della cerimonia, a ripulire i suoi pensieri e le sue preoccupazioni. La gente si alzò tutta in piedi, più di 1000 persone nell'ampia chiesa unite in un unico movimento dal desiderio di felicità suo e di Elisa. I suoi compagni di reparto erano dritti come statue, come ai corsi per ufficiali, con il cappello sotto al braccio, solenni più della musica stessa. Si sentì orgoglioso di far parte di quel gruppo, mentre un gusto amaro gli scendeva in bocca. Scosse la testa, e si concentrò sul momento che stava vivendo. Era stato bravo a rimanere lucido, finora. Dall'altra parte della chiesa vide il padre di Elisa farglisi incontro, dondolante nei suoi 140 chili fasciati da un abito elegante fatto su misura. Era un uomo buono, ed era felice in questa giornata. Marco pensò che forse non si meritava... No. Concentrati. E finalmente la vide entrare in chiesa, luminosa nell'abito bianco come il latte, candido come la sua anima. A Marco si illuminarono gli occhi nel vederla avanzare con il volto coperto dal velo semitrasparente: sotto di esso un sorriso splendido rischiarava la chiesa, facendo impallidire il sole. Si avvicinava sotto braccio al padre, figurino da modella di fianco ad un corpo deformato dall'adipe. Arrivò a pochi metri da lui, camminando sulle note della solita melodia nuziale, mentre lui le allungava una mano a prendere la sua.. “PORCOOO!” La voce giunse da dietro Elisa, chiara, nitida e, purtroppo, tremendamente familiare. Un nodo impressionante gli salì dai piedi alla gola, a stringerlo in una presa mortale, mentre si ritrovava a sperare di aver udito male, di essersi sbagliato facendosi prendere dall'agitazione. “MALEDETTOOO!” No. La conferma arrivò, specchiata negli occhi di Elisa ancora più stupita di lui mentre iniziava a voltarsi per vedere. Tutta la chiesa ebbe modo di guardare una pazza avanzare nella navata. Solo Marco la conosceva, purtroppo. Avanzò spedita, senza rivolgere uno sguardo a nessuno, con una camminata da camionista. Stringeva qualcosa nel pugno sinistro, mentre la mano destra la usò per stampare uno schiaffo di tremenda potenza al volto di Marco. Elisa urlò spaventata, ma lui non l'aveva neanche sentito il colpo, troppo stralunato da quello che stava per accadere, dall'improbabile che si trasformava in realtà. “Che ci fai qui tu? Che accidenti ci fai tu qua?”, disse boffonchiando, senza volerlo sapere. “Che ci faccio io? che ci faccio IOOOO?” “Maledetto porco, sono venuto a restituirti l'anello che mi hai offerto ieri sera, quando mi hai chiesto di sposarti!!” Un coro di voci scandalizzate accompagnò il volo dell'anello luccicante diretto a colpirlo sulla fronte. Elisa urlò di rabbia e dolore, in lacrime; poi prese il proprio anello e glielo scagliò contro, scalfendolo nuovamente in fronte e correndo poi fuori dalla chiesa verso quella porta che sembrava ormai l'uscita di un tunnel, verso una luce che non si azzardava più ad entrare ma si limitava ad illuminare la verità. Stefano Sizzi, capo di Marco, con i capelli bianchi albini e la pelle rossastra, si era disinteressato alla scena e osservava incredulo i due anelli a terra, assolutamente isolato dalle voci che lo circondavano e dal corpo di 140 chili che si avventava sul suo collega Marco. Lui in quel momento stava osservando i reperti numero 48 e 76, mancanti all'appello nell'azione del mese precedente, che Lisa, dei coniugi Loisonne, e Anne, moglie di Julien Salsi, stavano aspettando da tempo e che non erano mai arrivati, dati per dispersi. Marco li aveva dunque fatti sparire in quella sera di Giugno, per uno scopo macabro che prevedeva due proposte di matrimonio premeditate, a ferire due cuori rubati da tempo. Ci mise poco a fare due più due e ricordare che il padre di Elisa era tanto malato quanto ricco, e presto avrebbe ereditato un sontuoso patrimonio; c'avrebbe scommesso che, a indagare, anche l'altra ragazza si sarebbe rivelata di buona famiglia. Rimase incredulo ad osservare come l'avidità di qualche sciocco possa strappare sentimenti importanti a cuori sinceri, lasciandoli svuotati e aridi. John camminava nella giornata assolata verso la chiesa, consapevole di poter scroccare qualcosa da mangiare in una giornata di matrimoni come quella. Camminava dondolando, ma stava benissimo: era ancora senza un momut, sparito ormai da molto e non aveva ancora trovato niente con il quale rimpiazzarlo. Era a qualche metro dall'entrata della chiesa, tra auto della polizia parcheggiate ovunque e stava ammirando una costosa limousine, quando notò qualcosa di anomalo: la musica era cessata, dall'interno arrivavano solo grida. Poi vide una ragazza vestita non a festa uscire correndo dall'edificio. Non capì cosa stesse succedendo e si avvicinò per vedere: pochi istanti dopo venne investito da un altra donna in corsa, questa volta vestita di bianco, in lacrime, che lo travolse. Caddero ruzzolando giù dagli scalini, fino ai piedi della vettura. Lui non fece neanche a tempo a scusarsi che la donna era già saltata in auto urlando all'autista di partire. Gli sembrò di notare un neo familiare, vicino alla bocca della ragazza, ma non ebbe il tempo di pensarci. Capì che era il momento di alzarsi e scappare perché molta gente stava uscendo dalla chiesa per rincorrere la sposa. Si alzò di scatto e si ritrovo sotto ad un piede qualcosa: la ragazza aveva perso una scarpa, elegante, con il tacco, ma sembrava del suo numero. Mentre correva con un mommut al piede e una scarpa da donna all'altro, in un assolata giornata di Luglio, John pensò che era il suo giorno fortunato.
esahettr Inviato 29 Gennaio 2008 Segnala Inviato 29 Gennaio 2008 1. Era l’ora in cui tutto sembra sprofondare, in giro non c’era quasi più nessuno. Il pallido sole di gennaio era tramontato da tempo e la città si incuneava nelle ombre. Pian piano la notte risucchiava le macchine parcheggiate, l’asfalto, le vetrine illuminate. Due ragazzi sedevano sull’orlo del marciapiedi e guardavano l’entrata di un piccolo supermercato dall’altro lato della strada. Per la centesima volta Franz si frugò la tasca interna della giacca, per la centesima volta tastò il rassicurante terrore del metallo gelido. Controllò l’ora sul cellulare e scoccò un’occhiata in tralice a Rashid. Questi aspirò un ultimo tiro dalla sigaretta ridotta al filtro prima di gettarla a terra. Espirò il fumo lentamente, con voluttà. Attraversarono la strada ed entrarono nel supermercato oltrepassando la porta scorrevole automatica. All’unica cassa aperta la commessa dava qualche moneta di resto a una vecchietta. Uno dietro l’altro si immisero nella corsia del reparto colazione, fra enormi pareti di biscotti, merendine, fette biscottate e cereali. Girarono a sinistra voltando le spalle al banco della macelleria, privo di personale. Incrociarono un signore sulla cinquantina intento a scegliere fra mezza dozzina di marche di olio extravergine d’oliva e si infilarono nella zona vini. Attesero in silenzio. Le luci al neon ronzavano sul soffitto. I due fattorini finirono di mettere in ordine e se ne andarono a casa. Il tipo dell’olio si decise, pagò e uscì. Era rimasta solo la cassiera. - Ci sei? – bisbigliò Franz. Gli tremava la voce per la paura e l’eccitazione. - Certo. Franz fece una smorfia. Era impossibile non accorgersi dell’accento di Rashid, che ormai era in Italia da dieci anni, anche quando diceva solo una parola. E Franz - a essere sinceri – con i marocchini non è che ci andasse al manicomio – tolto Rashid. Quella è casa loro e questa è casa nostra. E cosa possiamo farci noi se da loro fa schifo? Se non avessero il fumo, sarebbero totalmente inutili. Se non avessero il fumo... A cannonate, *****. Franz fece qualche passo nella direzione da cui erano venuti, poi Rashid disse qualcosa sottovoce. - Cosa? Non ho sentito… - Vecchio, posso tenerlo io il ferro? – Che ***** dici? – ringhiò Franz abbassando la testa per guardarlo negli occhi. – Come ti vengono in mente certe stronzate? In questo momento, poi! L’abbiamo già deciso! Lo faccio io! - Lo so, lo so. Ma è che c’ho pensato e voglio farlo io… *****! Io ‘sto ******o magrebo lo ammazzo con le mie mani, lo ammazzo! Adesso prendo e gli sparo. Stai calmo! Rilassati. Usa la testa, per un secondo. Usa la testa! Se vuole farlo lui, ***** suoi! Meglio per te! Metti che succede un casino, metti che va male… E’ lui che si becca il riformatorio… Te al massimo ti appioppano un sei mesi di servizi sociali e psicologo e ***** vari… Se ci pensi un secondo questa è proprio una gran botta di ****! - Va bene, allora. Vuoi farlo tu? Fallo. Sapessi quanto me ne frega. - Franz passò la pistola a Rashid. – Tienila sempre puntata per terra. E non azzardarti a togliere la sicura! Metti che parte un colpo e finiamo tutti nella *****! Rashid non disse nulla e sorrise. Per un momento i loro sguardi si incrociarono e qualcosa nei suoi occhi a Franz non piacque affatto. Lascia stare. Paranoie. Solo il suo modo di mostrare la tensione. Paranoie. Tornarono sui loro passi e usciti dalla corsia dei vini girarono di nuovo a sinistra. Quindici metri davanti a loro la cassiera stava parlando al cellulare ignara della loro presenza. Si guardarono e Franz si nascose dietro lo scaffale alla destra del passaggio, sporgendo di poco la testa per seguire la scena. La sagoma di Rashid si stagliava nella luce biancheggiante mentre avanzava fra pareti di bottiglie di Sprite. La cassiera aveva lo sguardo rivolto da un’altra parte e continuava a parlare sorridendo. Era una donna di circa trentacinque anni, neanche brutta, con un bel paio di tette, lunghi capelli di una bella tonalità di castano e occhi grigi insignificanti. La cassiera si accorse di Rashid solo quando lui le si fermò davanti sorridendo, si bloccò e gli rivolse uno sguardo interrogativo. Per tutta risposta lui le puntò la pistola alla tempia e le tappò la bocca con l’altra mano. La cassiera sbiancò di colpo e lasciò cadere il cellulare. - Non urlare – le soffiò in faccia Rashid. – Non provare a schiacciare l’allarme. Giuro che se ti metti urlare o a muovere le mani ti ammazzo. – Lentamente, le tolse la mano dalla bocca. Franz osservava la scena attraverso un pertugio nella fila di confezioni di conserva di pomodoro. Poteva andarci un tantino più leggero. D’altra parte, Rashid era tutto tranne che leggero. Intanto Rashid aveva cominciato a rigirare la canna della pistola contro la guancia della cassiera. - Apri la cassa e dammi i soldi. Muoviti. – E continuando a tenerla sotto tiro si infilò nella tasca dei jeans le banconote che la cassiera gli passò con la mano tremante. Franz vide che non erano molte, poi Rashid fece un cenno con la mano nella sua direzione. Franz lo raggiunse e, estratto un martello dalla giacca, cominciò a colpire la cassa alla destra di quella aperta. Al quarto colpo uno scomparto cadde rumorosamente a terra, seguito da una pioggia di monetine. Una decina di banconote, perlopiù di piccolo taglio, si adagiò a terra. Franz le raccolse, se le pigiò in tasca e passò alla cassa successiva. - Vi troveranno… Con le telecamere… - piagnucolò la cassiera. - Quali ***** di telecamere? Non ce ne sono, in questo cesso – rispose Franz senza guardarla. La cassiera cominciò a singhiozzare forte. – Adesso arrivano le guardie giurate. Bisogna chiudere e arrivano le guardie giurate… Sono armati… Vi conviene andarvene… - La guardia giurata arriva alle sette mezza. Fra un quarto d’ora, cioè, e mai una volta che venga prima. E comunque è solo un vecchio rincoglionito. – gridò di rimando Franz vibrando una martellata. Poi si sentirono solo i respiri affannosi della cassiera intervallati dai colpi di martello e dallo scroscio finale di monete a terra. Le luci ronzavano incessantemente. - Finito – disse Franz con voce piatta. Aveva raccattato sì e no un centinaio di Euro, e nell’espressione di Rashid ebbe la conferma che nemmeno nella prima cassa c’era stato granchè. - Ok. Andiamo. – Rashid lanciò un’occhiata guardinga alle corsie silenziose. Tutto immerso in quella luce asettica. Tutto come doveva essere – a parte i soldi. Andarono verso l’uscita e mentre stavano oltrepassando le porte scorrevoli Rashid si fermò e girò la testa, gli occhi che brillavano. – Magari torno domani e ti do una bottarella… Franz alzò gli occhi al cielo. C‘era da aspettarselo. L’imbecille vuole apporre il suo sigillo. - Ti piacerebbe, eh? – continuò Rashid con un sorriso crudele che metteva in mostra gli incisivi storti – Vuoi vedere il mio uccello? - - Figli di ******* – disse in sussurro appena percettibile la cassiera. – Figli di ******* – ripeté più forte, con la voce rotta. Poi cominciò a piangere in silenzio, coprendosi la faccia. Franz bestemmiò. Mai dare del figlio di ******* a un magrebino. Mai dare del figlio di ******* a Rashid. Rashid andò verso di lei e parlò con voce innaturalmente calma. – Cosa hai detto? – La fissò per un istante e poi la colpì sullo zigomo con la canna della pistola con tanta forza da schiantare lei e la sedia a terra. - Cosa hai detto? – Rashid incombeva su di lei con la pistola in pugno, tremando, la voce ridotta a un soffio. La cassiera era sdraiata a faccia in giù, le spalle scosse da silenziosi singhiozzi. Rashid diede un calcio alla sedia rovesciata. - COSA HAI DETTO??? – urlò all’improvviso con tutto il fiato che aveva in corpo. Franz fino a un momento prima era rimasto impietrito, ma ora che le nocche della mano con cui Rashid stringeva la pistola erano diventate bianche capì di dover fare qualcosa. Si avvicinò e gli afferrò con delicatezza il braccio. - Dai, lascia perdere… Leviamoci dalle palle… Ma Rashid non si era nemmeno accorto di lui. E io che ***** faccio adesso? Questo ******* la vuole ammazzare! *****! Che brutta idea che ho avuto a dargli il ferro! - Dai! Chiedigli scusa… Digli che ti dispiace! Diglielo, subito, *****… Questo ti ammazza! – urlò Franz. - Mi dispiace… Oddio… Scusa… Scusami! – singhiozzò la cassiera. – Ti prego, non farmi male! Ti preeego! - Guarda, è in paranoia totale! – Franz tentò di nuovo. - Non sa quello che dice! Ed è anche ora di levarsi dalle palle!– Ora gli strinse il braccio con più forza, tirandolo verso l’uscita. - TU levati dalle palle, se non vuoi che ti sparo! – Rashid si girò di scattò e lo buttò a terra con uno spintone. Poi impugnò la pistola con entrambe le mani e si chinò sulla cassiera. Tolse la sicura e gliela puntò addosso. Franz si tuffò e afferrategli le gambe con le mani tirò con tutta la sua forza verso di sé. Risuonò uno sparo e Rashid cadde in avanti con la faccia sul pavimento a un passo dalla commessa che non si era mossa. Franz si rialzò e con le orecchie ancora assordate dallo sparo sentì la pistola strisciare sul pavimento da qualche parte alla sua sinistra. Anche Rashid si era rimesso in piedi, e bestemmiava; nella caduta si era rotto il naso e aveva la faccia ricoperta di sangue. Rashid gli puntò contro la pistola e Franz la colpì con un calcio. Si guardarono per l’ultima volta e poi Franz si gettò sulla pistola. Rashid gli piombò sopra un secondo dopo e gli strinse il collo sotto l’ascella; i due si ritrovarono avvinghiati, la pistola da qualche parte in mezzo a loro. Con le mani dell’uno strette al collo dell’altro rotolarono contro uno scaffale, decine di flaconi di plastica caddero loro addosso e loro continuarono a lottare corpo a corpo nel groviglio di flaconi di plastica. Ci furono altri due spari; Franz sentì un’esplosione alla spalla sinistra; del detersivo gli entrò negli occhi; urlò. Il frenetico avvicendarsi di buio e luce elettrica, urla e rumori distanti, caldo: tutto si riduceva a questo, tutto rotolava con loro. Franz si ritrovò la pistola fra le gambe, la prese e istintivamente premette il grilletto. Quasi non sentì lo sparo. Forse sono diventato sordo… Forse sto morendo… Il rincu!o si ripercosse lungo tutto il braccio e la pistola gli sfuggì di mano, un liquido caldo gli schizzava sulla faccia entrandogli in bocca. Almeno due voci urlarono; qualcosa sopra di lui si contorceva orribilmente e Franz la scalciò mettendosi in ginocchio. Aveva la giacca sporca di sangue. Il mondo era rosso. Chissà di chi è tutto questo sangue… E’impossibile qualcuno ne abbia tanto… In bocca aveva un sapore metallico. Si guardò la spalla e con esilarante sorpresa si accorse di essere ferito. Non fa male per niente… Fa’ che non sia morto… Ti prego fa’ che non l’abbia ammazzato… Si tirò in piedi barcollando come un ubriaco e vide Rashid. Era davanti a lui, sdraiato in modo assurdo con la schiena contro un muro di confezioni multiple di assorbenti. Si avvicinò e vide un forellino rosso frastagliato nel cappotto, all’altezza del petto, tre dita a sinistra della cerniera. Dai suoi occhi spalancati sul nulla capì che era morto. Scoppiò a ridere. Sono una bolla di sapone? Intanto a cinquecento chilometri di distanza, la commessa aveva ripreso a piangere seduta per terra, gli occhi chiusi, le mani strette al petto. Fuori, nel buio, livide luci bluastre pulsavano all’unisono con l’ululato delle sirene. Franz si lasciò cadere sul corpo di Rashid e cominciò a urlare. In quel momento qualcosa dentro di lui si spezzò. 2. - L’autocolpevolizzazione inconscia – sussurra lo strizza chinandosi su di lui con la faccia a mezzo metro dalla sua – costituisce uno dei principali processi post traumatici. Franz è sprofondato nella solita poltrona rossa davanti alla libreria, gli occhi fissi sul parquet nel tentativo di evitare lo sguardo dello strizza. Non gli è mai piaciuto particolarmente quel tipo, con le sue ***** di domande a cui doveva rispondere ‘dentro di sé’, il sorriso supponente, la fissa di parlare sottovoce e dargli de lei, ma oggi sembra ancora più sgradevole delle altre volte. Lo studio è una stanza rettangolare con un’ampia finestra su cui quattro o cinque mosche sbattono cercando di uscire. Due brutte librerie di formica bianca stipate di manuali coprono le pareti e contro il muro opposto alla porta è sistemata una scrivania ingombra di carte. L’aria è soffocante e appiccicosa. Il silenzio si protrae a lungo e Franz è costretto ad alzare la testa e guardare in faccia lo strizza. E’ così vicino che Franz può distinguere i pori sua pelle unta, ogni microscopico pelo della sua barba rossiccia appena accennata, il guizzo di luce intelligente negli occhi scuri… C’è qualcosa di strano. Franz lo esamina minutamente, frugandogli il volto con lo sguardo. Sì, ne è certo. Nella consueta banalità di quei tratti visti e rivisti si nasconde qualcosa di profondamente sbagliato, d’indubitabilmente alieno. Sembra un gigantesco scarafaggio travestito da essere umano. Franz si meraviglia del proprio mancato stupore. Davvero, non trova nulla di strano nell’idea che il suo strizza possa essersi trasformato in un enorme insetto; anzi, la ritiene una spiegazione del tutto plausibile. Forse lo strizza intuisce qualcosa dall’espressione di Franz, perché di colpo si raddrizza e riprende il consueto tragitto circolare attorno alla poltrona dove è seduto. – L’autocolpevolizzazione inconscia – dice a voce ancora più bassa, grattandosi il mento sudato – come sai, generalmente è un processo temporaneo. Si verificano tuttavia alcuni rari casi in cui si protrae più a lungo a causa… Qualcosa di flaccido e pesante sbatte contro la finestra. Franz d’istinto alza lo sguardo e sussulta disagio. Tre grosse tarme si sono aggiunte alle mosche alla finestra e lo spettacolo di quelle povere creature che si avventano contro una barriera a loro invisibile è straziante. Continuano a provarci... Continuano... - … in quanto psicoterapeuta consulente del tribunale dei minori – sta dicendo lo strizza - mi sento in dovere di farle presente per l’ennesima volta – repetita iuvant – dicevano i latini - che ciò che lei si ostina a ritenere imputabile a se stesso in realtà non lo è. Il risultato dei test ha evidenziato la marginalità del suo coinvolgimento nella pianificazione del reato… Peccato che l’idea in realtà fosse mia – pensa Franz con un gemito. E’ atterrito. La finestra pullula di varie specie di insetti e una decina di grosse falene svolazza stridendo per la stanza urtando la scrivania o gli scaffali della libreria, si posa sulle pareti. I ronzii delle ali, zampette che strisciano sul pavimento e i tonfi contro la finestra si uniscono a formare un’unica litania dolente in continua crescita. - Lei deve considerarsi del tutto innocente – continua imperterrito lo strizza, la voce ridotta a un soffio che Franz paradossalmente riesce a sentire in quel frastuono. – Ha commesso un errore, certo, ma se proprio ha la necessità di trovare un colpevole, questi è Rashid Iqbar, il pregiudicato che a suo tempo – quando fu processato per spaccio - non avevo esitato a definire ‘instabile e violento’, reo di essersi servito di lei – se posso esprimere l’ennesimo parere personale – come strumento di autolegittimazione subconscia. Influenza da cui lei peraltro si è sottratto nel momento in cui la vita di quella donna è stata messa in pericolo. Lei ha agito con estremo coraggio – mi creda. Altro che colpevole, lei è un eroe! Un ronzio lancinante lacera l’aria, ogni centimetro della stanza brulica di insetti di tutte le specie, che si accalcano gli uni sopra gli altri, divorandosi a vicenda in un'orrida pantomima della vita. Completamente preda dell’orrore, Franz cerca di proteggersi il viso, ma sono troppi. Lo ricoprono come un manto, gli pesano addosso, lo graffiano, lo mordono, gli si intrufolano nei vestiti, gli entrano in bocca e nelle orecchie e nel naso… Sono ovunque dentro di lui... Proliferano, gli lacerano il cuore, lo riducono a un guscio vuoto... Lo strizza, trasformatosi in un immenso scarafaggio verdastro, striscia verso di lui punzecchiandogli le palle con le antenne pelose. E ora che Franz si riversa come una cascata di fumo nell’oscurità, lo stridere di cento milioni d’insetti diventa un urlo inconcepibile che si ripete all’infinito. – Eroe! Eroe! Eroe! Annaspava nel buio fradicio… Affogava nella bile del cadavere putrefatto della notte-insetto… Eroe! Eroe! Eroe! Il mio salvacondotto per l’inferno… Si svegliò. Era sdraiato su una panchina con la testa che gli pulsava dolorosamente, dall’odore capì che mentre dormiva si era vomitato addosso. Strisciò in avanti senza aprire gli occhi e vomitò di nuovo. - Sono questi gli eroi? – urlò al parco silenzioso dopo un conato particolarmente violento. – Sono quelli come me gli eroi? – fece un altro conato. – Mi fanno schifo allora! ********** gli eroi! Poi si sdraiò supino… Sarà la decima volta questo mese. Devo smettere di bere. Si riaddormentò. 3. Sorse il sole e una brezza tiepida - inusuale per la fine di gennaio – spazzò via le nuvole. Franz andava verso casa, storcendo il naso per il fetore di vomito che lo circondava, e lentamente il pulsare alla testa diminuiva, si allentava anche il groppo allo stomaco, si schiarivano i suoi pensieri. E mentre camminava sul ponte sopra il fiume guardava il parco tutt'attorno e gli venivano in mente tante cose. Pensava all’enorme prato verde bruno giù sulla destra, ai mille tramonti passati seduto là in compagnia, quando il sole screziava l’erba di luce e la rendeva d’oro, indicibile. Pensò alle canne, alle chitarre, alle sbronze, alle canzoni in cuffia, madide di boschi d’estate. Pensò al sogno felice di quel maggio di cinquecento anni prima quando era strafatto di vita e ogni atomo del suo corpo ardeva d’isterica gioia, a quando saltava la scuola e si rotolava tutto il giorno su quel prato con il suo angelo più biondo dell’alba. Toccarsi come prigionieri, come due che stanno per morire, tossici dei rispettivi corpi; torturarsi di dolcezza finchè fa troppo male; due umidità una dentro l’altra – la connessione che salverà l’universo. Pensò a come anche l’amore si era consumato passando per la solitudine, allo scheletro con il cuore infranto che era diventato per sbaglio. Al suo passo ubriaco di tante sere storte dedite al vomito e ai ricordi. Sembri un vecchio spezzato – gli rideva in faccia la gente; qualcuno cambiava strada per non passargli vicino. Quelle notti in cui aveva covato la sua rabbia montante. Pensò al suo letto tagliente quando dormire era impensabile e perfide stelle gli graffiavano gli occhi. Quando tutte le canzoni facevano scricchiolare il cervello, e ogni pensiero s’incancreniva. Alle domeniche insensate quando il rasoio sembrava l’unico modo. Pensò alle serate nei bar, lui e Rashid che sussurravano con le teste chine, sospettosi di tutti. Rabbia, odio, speranza. Abbiamo bisogno di cash, fratello. Prendiamocelo. Conosco un tipo che suo cugino lo hanno gamato colla cozza tipo doma gli vengono in casa e deve levarsi dalle palle un ferro. Si può fare. Quando era arrivato quasi alla fine del ponte e già doveva girare la testa per scorgere il prato passò davanti ai suoi occhi il supermercato e l’incubo vissuto là dentro. Il rumore degli spari e il colore del sangue e gli occhi di Rashid. Era passato un anno ormai. Un anno di vuoto, un anno di vomito. Svegliarsi in posto sconosciuti, ricoperti di vomito. Sì. L’ultima cosa a cui pensò prima voltare le spalle al prato e attraversare la strada fu che l’aveva ammazzato. Chissà dov’è ora Rashid? Una sola lacrima gli rigò la guancia. In un posto dove non ci sono casini, sbirri, padri *******. In paradiso. Ne sono certo.
Strikeiron Inviato 29 Gennaio 2008 Segnala Inviato 29 Gennaio 2008 Piccola introduzione: questo è liberamente tratto (e/o copiato?) da "Gli inganni di Locke Lamora" con l'aggiunta di un accenno ad una mia personale ambientazione. Se l'ispirazione mi darà una mano in questo la seconda parte sarà in linea con il tema di febbraio... non vogliatemene Il piccolo guscio di noce scivolava spedito a filo d’acqua, sovraccarico di un bel mucchio di ortaggi e frutta. A prua- se si fosse potuta distinguere una prua ed una poppa- sedeva un ragazzino irrequieto ed un po’ sporco che affondava a scatti un remo lungo, per darsi la spinta necessaria ad avanzare. Guglia- questo era il suo nome- aveva pensato e ripensato più volte al piano, fino a quando tutti i pezzi non si erano incastrati al punto di dargli la sicurezza che avrebbe avuto successo. L’uomo che gli aveva assegnato quell’incarico, probabilmente solo un intermediario, aveva richiesto un lavoro pulito e veloce, che non destasse troppa attenzione. La casa era isolata, una delle tante ville galleggianti costruite su enormi palafitte, però al tempo stesso non era come tutte le altre. Quella era se possibile più sorvegliata e più difendibile di molte, giusto al limitare della laguna, là dove l’acqua salmastra dei canneti cedeva alle acque più profonde del mare aperto. Non erano molte le case come quella. Ben sorvegliata ed in posizione strategica. Guglia aveva riflettuto molto su come poter entrare in quel luogo senza essere notato, poi aveva pensato ai carichi di cibo che dovevano essere portati agli abitanti di quella piccola reggia galleggiante. Quando un posto è isolato allo stesso tempo necessita di collegamenti duraturi con l’entroterra e di rifornimenti: cibo, vestiario, acqua potabile. Sostituirsi ad uno dei facchini che periodicamente consegnavano le cibarie era stato semplice: era bastato allungare a qualcuno dei VERI facchini qualche soldo extra perché guardassero dall'altra parte mentre prendeva una delle loro barche. Il travestimento non era neppure stato necessario: quella sua aria da ragazzino trasandato era perfettamente credibile. In quel posto i garzoni erano appena degnati di attenzione. Questo avrebbe voluto dire che entrare dalle cucine con il pretesto di una consegna sarebbe stato semplice. Il difficile sarebbe venuto dopo. Dalle cucine avrebbe dovuto entrare nel cuore stesso della reggia, ovvero negli appartamenti padronali e lì trovare il pacco di lettere per il quale era stato pagato. Nulla di difficile quindi, né particolarmente importante. Le lettere dovevano essere poco sorvegliate e quindi poco importanti. L’unico pericolo era quello di venire scoperto mentre le sottraeva. Per questo avevano assoldato lui, perché senza falsa immodestia, era bravo, molto di più di altri. Il guscio di noce urtò il pontile di legno che introduceva al retro della villa. Guglia saltò fuori agilmente e legò la barca al pontile galleggiante, mentre un uomo allampanato – probabilmente il vivandiere della casa- gli veniva incontro per indicargli dove scaricare la merce che doveva consegnare. Alcuni istanti dopo Guglia era entrato nella casa. Sevoran era una città di terra. Almeno all’inizio della sua storia: quando ancora i suoi legami commerciali con il mare erano stati segnati attraverso una ricca e sorvegliata strada che portava al suo porto, non molto distante. Le acque profondi degli approdi pullulavano di barche cariche di ogni merce in quei giorni ed il popolo dei Sevorani non si poneva troppi problemi sulla loro provenienza: il flusso continuo portava loro agi e ricchezza. Alcuni favoleggiavano che poco al di là di quel porto le navi, attraverso un rischioso passaggio, approdassero in terre abitate da popoli sconosciuti e poco civilizzati. Ma i territori erano incontaminati: mai nessuno aveva sfruttato quei terreni, nessuno sapeva come estrarre i metalli dalle rocce o ricavarne le pietre preziose. Quando i Sevorani si accorsero dell’esistenza di queste terre, i viaggi da una costa all’altra si intensificarono. I popoli al di là del mare vennero civilizzati in qualche modo e venne creato un dialetto comune per potersi capire nei rapporti commerciali. I Sevorani non avevano alcun interesse a sfruttare fino all’osso quelle enormi ricchezze. Preferivano piuttosto avere l’esclusiva del loro mercato. Fu ciò che ottennero: le merci lavorate cominciarono pian piano a tornare indietro da quelle terre, al posto delle materie grezze non lavorate che giungevano nei primi tempi. Le loro capacità erano ancora ingenue e le conoscenze limitate, ma la distanza tra quei popoli andava di giorno in giorno assottigliandosi. E sempre più navi salpavano nel mare aperto, verso i pericoli dello stretto passaggio che portava ad un mondo favoloso. Ritornavano cariche di ogni possibile ricchezze e di tesori di una squisita bellezza. Questo finché non avvenne il cataclisma. Quel mattino-narrano le leggende-che la bassa marea, insolita per quell’ora lasciò molti pesci a boccheggiare sulle spiagge. Ma quando il sole fu alto nel cielo le acque arrivarono in un’enorme ondata che sommerse il porto, penetrando nell’entroterra fino a Sevoran dove il muro di fango travolse pietre e vite umane. Quando l’acqua si ritirò, in una laguna di acque limacciose, quel che rimaneva di Sevoran erano pochi ruderi al limitare delle acque. Delle navi che erano andate dall’altra parte non ne ritornò nessuna. I giorni passarono alzando ed abbassando le maree sulle macerie, là dove i sopravvissuti ricostruivano dimore improvvisate, su piattaforme galleggianti che non potevano essere inghiottite dalle acque. La città di marmo con radici nella terra fu sepolta dalla costanza delle maree ed al suo posto sorse una città di malta e mattoni poggiati su enormi zattere di legno. Con il tempo qualcuno fece piantare enormi alberi dell’entroterra nelle paludi limacciose. Su di essi sorgevano sempre nuove case dai muri storti e dai colori improbabili mentre quelle che erano una volta delle vie divenivano canali. La gente che abitava in quelle case imparò l’arte dello stesso compromesso della terra rubata dall’acqua: ovvero si adattò al mutamento continuo delle maree. Alcuni divennero pescatori, altri ladri. Le navi mercantili che provarono a ripercorrere il passaggio non tornarono più o tornarono macilente e decimate da un lungo viaggio ove non si era vista che acqua per miglia e miglia. Le vecchie rotte vennero abbandonate per nuove e meno proficue. Fu allora le navi vennero caricate di uomini, al posto di merci. Delle terre al di là del mare infinito non vi era più alcuna traccia: i Sevorani finirono per pensare che quei popoli erano forse stati meno fortunati di loro. La nuova città mantenne il nome della vecchia: Sevoran; ma il popolo che l’abitava divenne un popolo di nomadi e scelse per sé un nuovo nome, visto che il vecchio aveva portato loro una discreta malasorte: divennero gli zigar. Con l’accortezza che distingueva i piani ben preparati, Guglia si intrufolò nella casa con una facilità paragonabile a quella di bere un bicchier d’acqua. Chi aveva commissionato il furto gli aveva dato poche informazioni, ma veritiere: la casa era poco controllata ed il via vai dei garzoni zigar dalle cucine a quell’ora rappresentava un ottimo diversivo per chiunque avesse voluto intrufolarvisi. Guglia non era altro che un altro di quegli irritanti e sfaccendati ragazzini. Se lo avessero colto sul fatto avrebbe sempre potuto discolparsi raccontando di essersi perso in quel labirinto di stanze galleggianti. In effetti quella strana dimora isolata era gigantesca, sviluppata in altezza e larghezza su due piani sovrapposti, comunicanti tra loro attraverso delle sontuose scalinate in legni pregiati e profumati. Al di sotto gli appartamenti della servitù e le cucine con le camere di servizio, al di sopra la casa vera e propria, con le stanze padronali lussuose e riccamente arredate. Guglia sapeva esattamente dove entrare. Richiuse la porta dello studio dietro di sé, senza essere notato e raggiunse velocemente lo scrittoio. Da solo quell’oggetto valeva di più di quanto il ragazzino avesse mai visto in tutta la sua breve carriera. Ma non era quello ad interessargli. Con cautela aprì il secondo cassetto dal basso: proprio sulla sommità di un gruppo di carte giaceva un pacco di buste con i sigilli in ceralacca. L’afferrò con impazienza, ma era legato ad una piccola scatola leggera. Un contenitore in legno finemente intarsiato. Il committente non gli aveva parlato di nulla del genere. Soltanto le buste erano importanti. Solo per quelle era stato pagato. Guglia rifletté un attimo su quell’imprevisto: il pacco delle buste sigillate era strettamente annodato insieme con il plico ligneo. Con cautela lo sollevò alla luce e vide sulla chiusura intarsiata uno strano sigillo assai complicato nella fattura. Era familiare, ma al momento non gli ricordava ancora nulla. Rimase indeciso a valutarlo: per ogni minuto che rimaneva lì dentro aumentava il rischio di essere scoperti. Alla fine si decise: afferrato tutto il pacco, lo nascose sotto i vestiti ed uscì dalla stanza nel corridoio felicemente deserto. Di qui raggiunse il piano inferiore senza essere notato. Chissà per quale motivo il cuore gli martellava nel petto. Eppure tutto era filato liscio fino a quel momento. Attraversò le cucine senza che nessuno lo fermasse e si ritrovò fuori sul pontile. La barca con la quale era arrivato era ancora attraccata al pontile, il carico scomparso nella vorace dispensa della casa. Velocemente sciolse la gomena che la vincolava ai legni, vi salì sopra e recuperato il remo si allontanò nel buio. Quella era la parte più pericolosa: in genere i garzoni non si allontanavano mai dalla casa con il favore della notte, a meno che non avessero avuto cattive intenzioni. Ma Guglia era esperto nella navigazione notturna, necessaria virtù di un buon ladro in quelle terre fatte soprattutto di acqua; si allontanò velocemente ed in silenzio, con pochi colpi precisi e vigorosi del remo, scivolando con cautela dietro il riparo dei primi canneti. Non per questo l’ansia lo abbandonò. Sentiva il peso del legno intarsiato sotto i vestiti ed un campanello di allarme nella sua testa. Come una vocina irrequieta che continuava a punzecchiarlo sullo strano sigillo intagliato. Sul fatto che avrebbe dovuto conoscerne il significato ed il pericolo. Più cercava di ricordarselo e più gli sfuggiva… Accantonò il pensiero come un inutile preoccupazione. Al momento anzi doveva rimanere concentrato ed attento a quello che faceva se voleva che tutto andasse a buon fine. Era a metà strada della laguna e già si vedevano le prime luci della città addormentata sull’acqua: là dove, mescolandosi con un universo variegato di ladri e girovaghi, Guglia si sarebbe potuto finalmente ritenere al sicuro. Un fruscio soffocato, come del piegarsi di alcune canne sull’acqua immediatamente dietro di lui lo mise in allerta. Si fermò in attesa ed in ascolto: un altro fruscio ed un altro ancora. Il rumore di un remo che gocciolava sfilando dall'acqua, nella sua direzione. Ora i battiti del cuore gli pulsavano dolorosamente in gola. Cessò di fare attenzione a non far rumore con il remo ed aumentò le pagaiate in modo da andare ancora più veloce, verso la salvezza. Ormai era certo che qualcuno, accortosi del suo furtarello, lo stesse inseguendo: era impossibile che a quell'ora qualcuno oltre lui navigasse nella stessa direzione. Guglia si impose di rimanere calmo e controllato: se avesse giocato bene le sue carte avrebbe potuto aprofittare del buio per sfuggire al proprio inseguitore. Il guscio di noce percorse in un baleno quasi metà della strada che lo separava dalle prime costruzioni di Sevoran, là dove alcuni canneti lasciavano strada ai primi canali della città galleggiante. Si fermò a metà strada, acquattandosi sul fondo della barchetta e provò a sentire se l'altro avesse deciso di rompere gli indugi e seguirlo più dappresso. Questa volta non sentì nulla. Non doveva farsi prendere dal panico, ripetè a se stesso, come in una litania scaramantica. Doveva soltanto guadagnare quegli ultimi metri che gli avrebbero garantito la sopravvivenza in quella notte immobile e particolarmente silenziosa. Si fece forza ed affacciandosi sull'acqua immerse nuovamente il remo nell'acqua e molto lentamente si diede la spinta. La barca scivolò sempre più vicina alle torce della città: queste gettavano ombre lunghe e strani scintillii sui canali. In alto sulla guardiola nessuno alzò la voce per fermarlo: quella notte non vi erano srgnali che la marea avrebbe superato i livelli di sicurezza e gli uomini probabilmente avevano allentato la sorveglianza per occuparsi di gioco, di donne e di bevute. Guglia era troppo agitato per rendersi conto che le guardiole erano deserte. Sapeva che l'ombra sfuggente era là, dietro di lui, appena al limitare tra luce e tenebre. Come quel particolare ed atavico terrore che ci prende bambini nel buio. Guglia superò finalmente le prime case ed ormai, sentendosi al sicuro, si girò per controllare che il suo inseguitore avesse rinunciato a tenerlo in vista. Fu allora che il suo sguardo si soffermò sulle bandiere che frusciavano quietamente accanto alle luci di segnalazione della guardiola, lassù in alto. Quelle luci erano sempre accese per guidare le piccole barche anche nel caso in cui la nebbia fosse rotolata giù dal cielo soffocando tutto nel suo sudario. Ma ora la notte era limpida. Sulle bandiere vi era lo stesso simbolo della scatola intagliata. Un sigillo antico che Guglia avrebbe dovuto riconoscere: erano anni che passava di lì. Erano anni che cercava di ignorarne il sinistro ed antico significato di quello strano simbolo intrecciato su se stesso. L'antico simbolo di un passato ormai sepolto dalle acque. L'unico simbolo dell'antica Sevoran, od almeno l'unica cosa che si credeva fosse rimasta dell'antica città. A parte la scatola che ora Guglia teneva sotto i vestiti. Avrebbe fatto meglio a rubare solamente le buste ed a non essere troppo avido. In quell'istante notò la sagoma scura del suo inseguitore: era là, indeciso se entrare nella città, come se aspettasse qualcosa o qualcuno, sicuro che la sua preda era appena a portata delle sue grinfie. Quella cosa diede a Guglia un profondo brivido di paura e comprensione. Non serviva che il suo inseguitore entrasse in città. Si era invece accertato che si ficcasse con le sue stesse mani nella trappola. "Eccoti qua ragazzino. Erano ore che ti aspettavamo." Esclamò una voce dall'interno del canale, alle sue spalle. E Guglia seppe che quel furto in realtà era una trappola.
Black God Inviato 31 Gennaio 2008 Segnala Inviato 31 Gennaio 2008 Insomma ero capitato in quel Bar di Dresda, in quell’ora del giorno, sotto una pioggia torrenziale e senza troppe domande. Beh in effetti nemmeno io mi immaginerei qualcuno che capita a Dresda, senza sapere come, entra in un Bar qualsiasi, (che per quanto lo riguarda potrebbe essere una Caserma dei Carabinieri o un centro di ricovero per ex alcolizzati), e si mette a fare domande senza preavviso. E fu così che le domande fecero me. -E tu chi ca**o sei?- Non sono mai stato famoso. E non lo sono mai stato nemmeno per quel che riguarda i particolari aspetti del mio comportamento quotidiano: non sono mai stato famoso per l’amare i dolci, (potrebbe essere un simpatico esperimento quello si fare del sesso con una ciambella? Io dico di no, ma non sono mai stato famoso neppure per quanto riguarda il mio capire qualcosa delle situazioni in cui mi trovo abitualmente), non sono mai stato famoso per la mia puntualità, né, appunto, per la mia capacità di giudizio nel momento in cui questa mi dovrebbe servire di più. Insomma: la prima cosa che pensai, dopo che mi venne rivolta la suddetta domanda, fu: -Non si inizia una frase con “E”- Così con audacia, sapendo che quel pensiero, ufficializzato dalle mie parole, non avrebbe dato quello che potrebbe essere considerato un bel risultato dissi: -Non sono mai stato famoso- E credo che fosse realmente la risposta giusta. Conoscendo però la mia antipatia verso la capacità di giudicare aggiunsi dell’altro, durante il simpatico silenzio generale che sembrava avermi accompagnato da fuori insieme con la pioggia; tanto per essere sicuro di sembrare un uomo qualsiasi, capitato lì in qualsivoglia maniera, che si presenta in un modo qualunque. Usai dunque la presentazione da Bar più articolata che conoscessi: -Salve!- Quasi avessi detto Mellon con in testa un cappello a punta grigioscuro, di fronte ad una singolare (in quanto una ed una soltanto) porta di pietra, i presenti nella sala si rimisero a parlare con naturalezza. Per quanta naturalezza si potrebbe sfoggiare a Dresda in luogo come quello; un luogo senza pretese, un luogo che, per dirla tutta, non ti chiede nulla se non di riconoscerlo come luogo in quanto tale. Ecco l’inutilità dei luoghi, pensai quasi senza rendermene conto, se non ci sei non ci sono nemmeno loro; e se non ci sono loro, ovviamente non ci siamo nemmeno noi che dovremmo occuparli.. dato che, si, insomma, se devo “essere”, da qualche parte dovrò pur essere; e senza i posti in cui posso esprimere il mio essere io non esisto, in pratica. Per accentuare la serietà di quei pensieri, persi uno di quei drink da intellettuale, con un nome che balza subito alla testa, e che trovavo, al momento, molto più essenziale di tutto il resto. Compreso il luogo in cui mi trovavo. -Una media bionda, per favore- Più o meno furono queste le parole che usai per rivolgermi al barista; il quale, come la sua categoria sembra insegnare (o quantomeno mostrare), stava dietro il bancone a pulire sempre lo stesso bicchiere, classico, di vetro, da cui nessuno mai aveva bevuto. Presi la mia Birra e mi ritrovai a passeggiare per il locale nebbioso, senza accorgermene. Al che tirai un sospiro di sollievo, non sopportando l’idea di potermi perdere in un locale a Dresda. Ed ancora compiaciuto dall’essermi perso, per poi essermi ritrovato senza aiuto alcuno, mi sedetti pensieroso, al classico tavolo nell’angolo; si insomma, quello avvolto da una perpetua ombra oscura che ti copre gli occhi anche quando non hai in testa nulla se non i tuoi capelli. Risparmiandomi i pensieri di rito che precedono l’immersione di un uomo nella schiuma di ciò che chiama vita, sorseggiai con blasfema noncuranza la bevanda degli déi. Considerando che un bicchiere da 70cl è costituito, normalmente, di 22 cm di vetro contando unicamente l’altezza, riempito, nello specifico, con Birra bionda compresa di bollicine, schiuma, e quant’altro; posso con certezza quasi matematica asserire che, a 22 centimetri di profondità dalla superficie schiumosa stava esattamente questa definizione: - [Fùr-to] s.m 1(dir.) L’impossessarsi di cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene, con l’intento di trarne profitto per sé o per altri: commettere un__; __continuato, aggravato; __con scasso; essere condannato per__| è un__!, (iperb.) si dice di prezzo troppo alto, di conto esagerato e sim.| __musicale, letterario, plagio. dim. Furtarello, furterello 2 (non com.) la cosa rubata; refurtiva |Dal lat. Furtu(m), deriv. Di fur furis ‘ladro’. Ed, in quello, il Maiale col cappello nero si accese un sigaro ridacchiando. Ora, un maiale con un cappello in testa, che si siede ad un tavolo, si accende un sigaro, e per di più sghignazza sembra far parte della visione concettuale di quello che il mondo chiamerebbe nei seguenti modi: -Pazzo; -Rinco*******o; -Baluba; -Psicopatico; -psicolabile; -lobotomizzato; -Speciale; -cervello di gallina (con differenziazione e di specie e di animale; a seconda della fantasia di chi pronuncia la frase); -Cotolengo; -Pi**a; -Quellochecredediesserenapoleone; -incapacitato mentale; -rimasto indietro; Ed altri simpatici modi di dire. Eppure quel dannato maiale stava lì, seduto su quelle sue chiappacce enormi, (le quali sarebbero dovute, a mio parere, stare Sul tavolo, e non davanti), le quali proseguivano per un corpo porciforme quasi pulito ma comunque strano nella postura, che aveva il suo apice in una testa minuscola alla quale veniva data, però, una certa proporzione dagli occhietti languidi e, nel vero senso della parola, porcini; piccoli, neri come pece, incavati nelle orbite microscopiche, e per nulla esitanti. Le dita unghiute afferrarono quasi con grazia, (per quanta “grazia” si possa trovare in un maiale con un cappello che fuma; non il cappello, il maiale fuma), quel grosso Cubano fumante, il quale espresse la sua opinione al riguardo tramite le prime nebbiose parole del Porco. Certo, mi disse cose sconcertanti; mi disse e parlò in una maniera calma e garbata, con un timbro vocale che raramente mi sarei aspettato in un essere umano. Figuriamoci in un maiale. Modulava i propri vocaboli con calma, pazienza, e profonda caparbietà. Senza esitazione. Ma quello che mi stupì più di tutto fu l’esordire del suo discorso. Sì, proprio quelle parole che espressero l’opinione e l’utilità del sigaro cicciotto quasi quanto il padrone. Il quale disse: -Salve. Io sono..- E fece una pausa abbastanza importante, (tutto sembrava importante in quel dannato affettato respirante a tuttotondo), -.. io sono un maiale.- Rimasi quasi paralizzato da questa rivelazione, (credo tutt’oggi che questa si possa considerare una rivelazione molto vicina a quella di Fatima, almeno come emozione). A partire dalla definizione sul fondo della birra, pensando poi anche al fatto che ero a Dresda senza un motivo preciso, senza ricordarmi se ci fosse un motivo preciso per cui mi trovavo a Dresda. Che diamine ci ero andato a fare a Dresda? Non mi piaceva nemmeno Dresda, non l’ho mai sopportata, a partire dal nome. Eppure il maiale era la cosa che meno attirò le mie domande del modello 345; cioè il modello che prevedeva la formulazione della seguente domanda: “Come diamine è possibile?”. Ed era, (lo è ancora se è per questo), una cosa abbastanza strana, quasi inquietante. Fortunatamente il porcello era un gran chiacchierone e non mi diede modo di pensare troppo. -Come avrà capito subito non sono un comune maiale.- Faceva molte pause nei suoi discorsi, come se, tra i due, fossi io quello strano. -Non ho un nome vero e proprio, molti mi chiamano Mister Porco; altri credendo di offendermi chiamandomi così inglesizzano la cosa chiamandomi Mr. Pig; ma sinceramente non m’importa del nome che mi danno. Di solito quel che ti danno poi se lo riprendono; magari sotto un altro aspetto. Si insomma, nessuna da niente per niente.- Nel suo discorso, nonostante fosse qualcosa d abbastanza non-lineare, c’era qualcosa di vero. E lo incitai. -Dunque lei è..un maiale..- Dissi quasi imbarazzato, facendo probabilmente la figura del cretino, dato che riaveva informato della cosa non solo tramite l’aspetto prettamente ferino, ma addirittura a parole. -Eppure, mi scusi, non ho capito bene cosa intende.. se mi danno un nome.. beh.. io non sono mica costretto a ridarlo questo nome.. Non è mica un oggetto che posso “ridare” a chi me l’ha “dato”.. mi scusi se sbaglio signor..Maiale- Non fece una piega e continuò:- Forse per animali attaccati alla curiosa materialità astratta tipica della vostra specie. Eppure, oltre a dover identificare gli altri con un Nome propriamente detto, resta il fatto che di Tuo quel nome non ha proprio nulla.- Il fatto mi diete qualche riflesso di perplessità. -Tu dai il nome a qualcun altro perché altri lo danno a te. Quindi è una restituzione. Eppure quel nome che dai loro, come quello che loro danno a te..- Tirò una lunga boccata del sigaro che, contento, si accese di un bel rosso del tipo “brace” senza quasi darlo a vedere -..è solo, unicamente, loro.- Non capivo realmente; ma annuii come uno di quegli uccellini sintetici da mettere su un bicchiere d’acqua, di quelli che fanno su e giù. Un azione meccanica, dettata dalla mia parte biologica più che da quella intellettuale, troppo impegnata ad elaborare le informazioni fornitemi dalla bocca fumante di un salame su quattro zampe. Proseguì: - Tu non hai niente a che fare con quel nome, eppure lo senti come TUO. E questo semplicemente perché lo schema di evidenze che la società presenta, ai tuoi genitori ancor prima che a te, il bisogno di catalogare qualunque cosa. Altrimenti a cosa servirebbe il linguaggio?- Beh..in effetti mi trovai, per la prima volta dall’inizio del discorso, (prettamente suo.. per quello che poteva significare SUO), ad annuire per una ragione dettata dal sistema cerebrale sinaptico, dall’unione dei due emisferi. E ringraziai il mio Corpo Calloso. -Non ritiene dunque che, a partire dal nome; da quello che in continuazione ufficializziamo e spacciamo per il NOSTRO nome, quasi fosse una cosa che abbiamo scelto e costruito noi; non si possa attribuire a noi nient’altro che le nostre connessioni cerebrali? O meglio ancora, i nostri pensieri? Le nostre fantasie?- Mi sentii in dovere di rispondere: -No, caro il mio Maiale, se fosse come dice lei le cose sarebbero ben più contorte. Perché i miei pensieri sono condizionati dalla mia situazione biologica; e dunque, dato che essa non mi appartiene più di quanto io non appartenga a lei, nemmeno i miei pensieri sono propriamente miei.- Pensai di aver detto una cosa intelligente. E probabilmente fu cos, dato che il Porco si mise a sorridere annuendo con la testa. E dato che si era concesso un ennesimo tiro del suo sigaro il suo sorriso apparve sottolineato dal grigiume del fumo. -Ha perfettamente ragione, ma è anche vero che se ci mettessimo ad estremizzare in questo senso noi non apparterremo nemmeno più a questo mondo; considerandoci vita di altro piuttosto che del nostro Io. Insomma ci considereremmo un Ecosistema più che un Sistema vivente.- Mi chiesi dove voleva andare a parare. Non avevo mai avuto il piacere di conversare con un Maiale, e, dunque, mi sentivo leggermente spiazzato. Riprese, come un cuore colto da infarto si riprende dal malanno sopraggiunto con così poco preavviso: - Se accettiamo il fatto di Vivere, intendendo come Vita la consapevolezza di poter biologicamente e psicologicamente spostare la propria massa, (dunque spostarsi con coscienza di farlo); accettiamo anche il fatto che Viviamo perché qualcosa ce lo permette. Non parlo di Dio o cose del genere, si sa, noi animali siamo molto inferiori perché non crediamo in Dio o negli dèi e per questo non facciamo guerre di religione o quant’altro. Parlo della Convivenza Biologica di cui siamo esempi essenziali. La convivenza ci permette di soddisfare i nostri bisogni e soddisfarne altri. Dunque possiamo ammettere che la convivenza, dato che sembra essere il nostro schema vitale di base, e l’unione in società sia un comportamento naturale; quasi obbligato.- Ordinai un'altra Birra. Mi serviva la carica, quel Maiale mi impegnava più di una corsa di mezz’ora nel centro di Milano. Sia in quanto fumatore professionale, e dunque produttore di fumo abbastanza abile, sia in quanto attività biologica elementare. Lui ordinò un Whiskey che sorseggiò con calma. Inevitabilmente, dunque, riprese: - Sembra dunque che le società siano nate per nostra natura, o per meglio dire: per la natura che noi subiamo come suoi oggetti. La società presenta, come normale, le proprie regole in modo da comunicare e regolare l’attività delle proprie particelle (come vede il collegamento biologico ed etico-morale è molto più stretto di quanto sembra; o almeno sembra esserlo). Mettiamo il caso, però, che le particelle in questione, proprio perché particelle di conseguenza (formate, dunque, dall’unione di più particelle), siano abbastanza complesse da permettere al proprio composto cerebrale di posi delle questioni sul proprio funzionamento. Poniamo il caso che, anche solo ad un ristretto gruppo di particelle, venga in mente di non seguire le direttive comuni; trasformandosi in un eccezione che, dunque, offende il sistema.- Io risposi dunque: - Il sistema le eliminerebbe il prima possibile, senza pensarci due volte. Altrimenti non funzionerebbe in maniera adeguata- Il Maiale questa volta scosse la testa, risparmiandomi un'altra boccata di fumo dedicandosi allo Whiskey: - Questa non è un imperfezione; è solo un sintomo proveniente dallo stesso funzionamento della coesione cellulare, la quale funziona nel proprio modo concedendo quello che alcuni chiamerebbero libero arbitrio. Ma nessuno ci assicura che questo non sia necessario al sistema per continuare la propria mutazione..- Lo interruppi: - Evoluzione?- E lui: -No. L’evoluzione implica un miglioramento, almeno nella concezione comune della parola, quello che il sistema compie è solo un tentativo. Non necessariamente un miglioramento. Ma il punto è: se questa è una necessità del sistema, esso crea degli individui predisposti a questo scopo? La risposta dovrebbe essere Sì, con qualche subbio. Dato che il sistema dovrebbe creare delle mancanze per fare in modo che solo in queste mancanze il comportamento contro il sistema stesso fosse accettabilmente reprimibile. Pensi solo alla definizione che ha letto sul fondo della sua prima birra.- Come diavolo fa a saperlo? Mi chiesi. E mi risposi dopo: Non mi sono nemmeno chiesto come diamine fa un Porco a parlare o a portare un cappello, o a fumare; mi dovrei forse chiedere come fa a sapere di una cosa improbabile come una definizione che si forma sul fondo di una birra? E dissi, quasi con tranquillità: - Quindi per lei, signor Maiale, il Male sarebbe necessario per permettere al sistema di continuare. Ma se esso permette il male per sé stesso, non rischia, nel contempo, di lasciare all’autodistruzione troppo spazio..e dunque di sparire? Non è meglio un esistenza non troppo mutevole piuttosto che un eccitante annullamento?- Non tardò la risposta proveniente dalle “labbra” bagnate dall’ultimo goccio di Whiskey: - No. La sopravvivenza è considerata una necessità solo nel momento in cui è possibile; dopodiché la mutazione prevale sull’autoconservazione; la quale lascia il passo alla fredda rassegnazione frenetica, ed, in un qualche modo animale. Il furto, per esempio, è necessario fintanto che si sente il bisogno di avere qualcosa. Ma sapendo di non avere nulla di proprio l’individuo si accontenta di possedere per il puro gusto del possesso. Questa insensatezza si espande, per imitazione più che per contagio, ed arriva a far sì che ogni cosa sia furto; in quanto ormai tutto è possesso in quanto tale, fine a sé stesso.- Mi sentivo terribilmente depresso. Guardarmi lì, seduto in quel bar, senza sapere perché, come, chi, quando né perché. Senza sapere le cose fondamentali che uno deve sapere insomma. Parlavo con un maiale e non sapevo nemmeno sostenere la conversazione che non fosse nell’ordine inverso della catena alimentare; cosa che, vi assicuro, non fa molto bene all’auto considerazione. -Ma, se così fosse- risposi quasi svogliatamente – La società avrebbe fallito in tutti i sensi: Non avrebbe più modo di mutare; e non avrebbe adempito al compito di preservare i proprio ecosistema provvedendo invece ad un annichilimento del tutto. Questo mi deprime un po’.- Il Signor maiale mosse lievemente il proprio cappello e disse, con un sorriso ostacolato solo per un piccolo tratto dal sigaro, – Eppure la legislazione rimane, ed il furto in quanto tale viene punito. Anche se confusamente; senza capire bene che cosa sia la proprietà. Esso viene recepito ancora come male. Dunque come minoranza dannosa.- Ed io: - Ma la maggioranza si considera, proprio perché maggioranza, e, dunque, supportata dai più, sempre il Bene di un minoritario male. Dunque lei dice che se tutti ci mettessimo a rubare il reato in quanto tale sarebbe invece una pratica comune? Ma è assurdo!- Sta qui, pensai, la differenza tra i maiali e gli uomini. Noi abbiamo una visione tridimensionale della realtà, loro invece vedono solo la doppiezza delle cose; ma non vedono dentro le cose. Loro non sanno che cosa vuol dire rimanere affascinati dalla follia che sta in due occhi, brillanti. Non sanno cosa sia il possesso; la voglia di avere. Ecco, forse gli animali davvero non possono amare. Non possono amare perché non sanno cosa vuol dire avere; non sanno cosa sia la gelosia per qualcosa. Non sanno realmente il perché di azioni come il rubarsi qualcosa di molto simile a qualcos’altro. Probabilmente per loro le cose sono semplicemente dei corpi biologici che collidono l’uno con l’altro… senza particolari sforzi per ottenere il risultato di un lavoro nemmeno compiuto da loro. Mi sorprese di nuovo: -Sbaglia ancora. Lei, come tutti gli uomini, cerca le sfumature di una cosa singola, presa di per sé, dove invece ci sono solo molti aspetti della stessa cosa. Dunque ci sono molte cose; non una soltanto. Il furto è un azione, e dunque viene fatta e subita; questo implica già due punti di vista dove se ne guarda sempre e soltanto uno. In più c’è la cosa rubata che introduce un terzo punto di vista. A Sparta il furto era pratica comune, e ben accetta, lo sapeva?- Non lo sapevo. -Quindi la pratica rimane di per sé una semplice pratica, che può essere attuata singolarmente ed in massa; con giustizia o meno; senza che essa sia un azione diversa viene considerata in maniera diversa. Non è una cosa poi così sorprendente; ed appunto per questo rimane una pratica normale. E non patologicamente straordinaria. Il furto non è solo cleptomania; in alcuni casi è un obbligo, in altri semplicemente uno sfizio. Si è reso conto che siamo fuori dal locale vero?- Non me n’ero accorto. Sembrava che il mondo si impegnasse per farmi perdere la cognizione delle cose quella sera; o notte, o giorno. -Si guardi la mano destra- Avevo ancora in mano il bicchiere di birra. Ovviamente non mi ero nemmeno accorto che il locale, ora, non era nemmeno più illuminato. -Lei ha commesso un furto, ma se la sentirebbe di condannarsi per questo? Nessuno lo farebbe, e lei non è Nessuno.- Era vero, io non ero e non sono nessuno. Rimaneva solo una cosa da fare; ma il mondo decise curiosamente di esplodere prima che potessi dire qualcosa, o solo pensare a qualcosa. Il nulla mi aveva rubato anche il tempo che mi rimaneva per farmi valere con il Maiale. Ma d’altronde nemmeno il tempo era mio; come non era del Maiale. In qualche modo, la cosa, mi consola ancora.
Samirah Inviato 15 Febbraio 2008 Autore Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 Ebbene sì, questa volta era prevedibile. I parimerito disaccoppiati all'ultimo minuto questa volta, causa pochi voti, ce li teniamo, per cui è con vero piacere che vi annuncio i 2 vincitori del mese di gennaio! Ladro di pensieri di piri e senza titolo di Wolf Complimenti a entrambi!
Wolf Inviato 15 Febbraio 2008 Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 Eheh che figura di merra, mi son dimenticato anche il titolo Tnk Bella piri! Peccato ci siano stati pochi voti..mi sa che la lunghezza dei testi postati ha scoraggiato molti dal leggere i racconti. Anche io ho fatto fatica..
Phate Inviato 15 Febbraio 2008 Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 :clap: applausi, lode e gloria ai due vincitori!!! che dire... Sto giro non ho votato perchè mi sembrava di fare un torto a qualcuno, votando senza aver letto tutti i racconti per mancanza di tempo. Poi ad essere sinceri, temevo di leggere cose molto simili tra di loro sto giro quindi fino all'ultimo ho evitato di leggerli tutti. Non chiedetemi perchè, perchè sono pazzo. Non voglio e non so fare commenti sullo stile di scrittura di nessuno: perchè non sono un critico nè nulla, perchè sono tutti scritti bene anche se con stili diversi e soprattutto perchè dovrei rileggere tutti i racconti. diciamo che mi limito a dare le mie impressioni sul racconto. Il racconto di piri. Bhè, se non ipotizzo male ti sei ispirato ad una vecchia barzalletta, condendola con quel tocco di colore che la rende unica nel suo genere. Peccato per il finale, dove sveli che è una barzalletta; mi sarebbe piaciuto che la sviluppassi in maniera diversa.. O meglio, mi aspettavo che fosse qualcosa di particolare, semifantascientifico e/o visionario. La rivelazione finale, è come se mi facesse cadere il racconto da una dimensione onirica ad una da zelig.. Comunque tanto di cappello al buon piri. Ovviamente sono gusti personalissimi. Il racconto di Wolf. Piacevole sorpresa di questa tranche. iniziandolo a leggere dà l'impressione di trovarsi di fronte a tre racconti diversi. Solo alla fine l'arcano si svela nel e si ricongiunge nel leitmotiv del racconto, il cleptomane di scarpe e mommuts. C'è un pò di tutto, nel post di wolf: il furto come malattia, il furto come missione/punizione, il furto di fiducia, il furto di sentimenti, il furto fortuito... insomma, bello, mi è piaciuto. Anche se l'ho letto oggi per la prima volta. Un appunto personalissimo: i racconti in generale hanno dei begli spunti, sviluppano delle belle idee. Considerando il limte di caratteri, il tempo a disposizone etc etc, la fantasia e le potenzialità in quelli che scrivono, non mancano. Però..gli incipit. Se do un'occhiata a tutti i racconti alla rapida, ci sono pochi incipi che siano in grado di catturare la mia attenzione e di dirmi "leggo prima questo" o "aspetta, so che non ho tanto tempo ma questo mi intriga talmente tanto che ho voglia di leggerlo". certo, attirano lo stesso i vostri incipit, eh!!! Non dico nulla, anche perchè so di non essere nessuno per "criticare", però mi piacerebbe che ci fosse quel pizzico in più che invoglia la lettura. Anche perchè mi sono reso conto che una volta iniziato a leggere i racconti è difficile estraniarsi dalla climax che create. Mi permetto ancora un altro appunto: Esa e Strikkio dovrebbero scrivere romanzi, per i racconti brevi imho che dovrebbero cambiare qualcosa. per motivi differenti. Strikkio perchè ha uno stile molto descrittivo, GDRistico direi quasi: ci fa calare nel contesto, ci accompagna nelle decrizioni, ci mostra i personagi, ci sembra quasi che i drappeggi dei vestiti, il cuoio dei calzari siano davanti a noi e ne riusciamo a quasi a percepire l'odore. Il che porta via spazio, al racconto, creando però i buoni presupposti per il "romanzo". D'altra parte, lo dice lui per primo: è parte di una sua ambientazione (o avventura, ora non mi ricordo e non ho voglia di andare a rileggerlo ) , tratta da un ambientazione; fa parte di un contesto più ampio. E il limite di caratteri lo penalizza molto: è come se volesse dire e raccontare infite cose ma lo spazio non bastasse mai. Esa invece è molto più ermetico, intimista. Imho. Si concentra molto sulle sensazioni, sui pensieri, sul personaggio. Ecco, secondo me Esa quando scrive si immedesima nel personaggio, DIVENTA il personaggio. Ci mette del suo, nei personaggi (credo che l'ubriacatura sulla panchina sia per lo meno una parte di qualcosa fatto nella tua vita.. come io ho ubriature davanti al prete del mio paese con simpatica elucubrazione digestiva finale )ma anche i personaggi ci mettono del loro, in Esa. E' uno scamio tra scritto e scrittore, il suo. Se non un romanzo, ci starebbe bene in un ciclo di racconti ermetici ed introspettivi, molto psicologici. Imho i racconti brevi debbano creare delle aspettative nel lettore e ribaltarle all'improvviso. Devono rapire, incantare, stupire, shokkare e rovesciare le aspettative di chi legge, lasciare con un sapore in bocca che non riusciamo a definire se dolce o amaro, però comunque piacevole. E non lo dico perchè io sia uno scrittore di racconti brevi o uno che sa scrivere bene. lo dico perchè mi sono trovato a leggere parecchi cicli di racconti brevi ultimamente (cartacei) che più o meno hanno tutti quel qualcosa di perticolare in loro. per quanto riguarda i racconti di Ectobius, Viri e BGgod, appena ho un pò di tempo in più posto qualcosina pure sui vostri!
Strikeiron Inviato 15 Febbraio 2008 Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 Ehehe... io comunque ho avuto modo di leggerli tutti, ma poi mi sono dimenticato di votare entro ieri sera. Sarebbe stato uno dei due vincitori però Chissà quale.... Bravi! Questo mese comunque c'erano veramente (escluso il sottoscritto ovviamente per non peccare di falsa modestia ehehehe) dei bei racconti. Anche quello di ectobius... nonostante all'inizio mi sembrava che lo avesse scritto piri. Chissà perchè...
Wolf Inviato 15 Febbraio 2008 Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 Ehehe... io comunque ho avuto modo di leggerli tutti, ma poi mi sono dimenticato di votare entro ieri sera. Sarebbe stato uno dei due vincitori però Chissà quale.... :lol: Sei un animale. Chissà se sami e aerys accettano ancora un voto.. E' più bello avere un unico vincitore, che due che si litigano il trofeo.
esahettr Inviato 15 Febbraio 2008 Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 Complimeti ai vincitori! Io questa volta ho votato ectobius, perchè - come ho già detto - adoro il suo stile. Vorrei però spezzare una lancia a favore di quello di Wolf, che mi ha intrigato parecchio. Se la forma fosse stata più curata, avrei votato il suo. Quello di Black imho poteva essere molto bello, ma non è stato sviluppato proprio da Dio, e la forma traballa un po'. Quello di viri di per sè non dice molto, è scritto così così, ma poi c'è il finale. Quando l'ho letto ci sono rimasto abbastanza di sasso. PAM, finisce tutto! Idea coraggiosa, capperi! Il racconto di Piri non mi ha entusiasmato, lo dico. Certo, il sorriso malinconico te lo fa spuntare, ma direi che ci ha mostrato cose di molto migliori. Strike forse scrive meglio di tutti e imho lo sa e ci casca un pochino. Cioè, come giustamente rileva Phate, tutte ste descrizioni sono soverchie in un racconto da 20.000 caratteri.
piri Inviato 15 Febbraio 2008 Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 Complimenti a Wolf che si "smezza" con me il primato. E ringrazio i (pochi) votanti che mi hanno voluto accordare nuovamente la loro preferenza. Complimenti anche a tutti gli altri partecipanti, questo giro ho veramente fatto fatica a dare il voto... Piccola nota per Phate: non conosco la barzelletta a cui ti riferisci, per la figura di Odorico mi son solo ispirato a mio nonno
Wolf Inviato 15 Febbraio 2008 Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 Vorrei però spezzare una lancia a favore di quello di Wolf, che mi ha intrigato parecchio. Se la forma fosse stata più curata, avrei votato il suo.Che intendi di preciso? Son curioso. Piccola nota per Phate: non conosco la barzelletta a cui ti riferisci, per la figura di Odorico mi son solo ispirato a mio nonno C'è una vecchia barzelletta che funziona circa allo stesso modo del tuo racconto.
esahettr Inviato 15 Febbraio 2008 Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 Che intendi di preciso? Son curioso. Troppi a capo - questo assolutamente -, troppi avverbi e locuzioni avverbiali, troppe perifrasi per dire cose di scarsa rilevanza. Un eccesso di dettagli inutili ai fini del racconto. La continua alternanza di frase brevissime e mediolunghe spezza il ritmo e toglie l'armonia. Poi anche cose minimali che solo chi, come me, è molto molto malato nota: i mesi si scrivono minuscoli (OK, magari maiuscoli non sono sbagliati, ma non si fa ), i numeri vanno scritti in lettere... Detto ciò, il tuo è quello che come storia e personaggi mi è piaciuto di più...
Wolf Inviato 15 Febbraio 2008 Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 Un eccesso di dettagli inutili ai fini del racconto. Uhm..di questo non me n'ero accorto. Pensavo di aver messo solo cose utili a "entrare" nell'atmosfera e nei personaggi. Fase che devo rivedere un po', quindi. Tnk Poi anche cose minimali che solo chi, come me, è molto molto malato nota: i mesi si scrivono minuscoli (OK, magari maiuscoli non sono sbagliati, ma non si fa ), i numeri vanno scritti in lettere...Drogato!!! Ok, questo e il resto delle cose son dovute alla scrittura fatta in fretta, ai tagli che ho dovuto fare al racconto venuto troppo lungo e alla rilettura fatta a pezzi. Ci stanno, direi. Tnk
Strikeiron Inviato 15 Febbraio 2008 Segnala Inviato 15 Febbraio 2008 :lol: Sei un animale. Chissà se sami e aerys accettano ancora un voto.. E' più bello avere un unico vincitore, che due che si litigano il trofeo. Eh sì lo so... troppo lavoro e troppo poco sonno ultimamente @esa: grazie, ma non ritengo di scrivere poi così bene. Cerco un po' di cambiare stili e di alternare cose diverse. Tutto qui. Spero che l'idea venutami all'inizio del mese vada in porto... se mai troverò il tempo di mettermi a scrivere!!! Così il fatto che vi fossero tutte quelle descrizioni acquisterà un senso... forse.
Samirah Inviato 4 Marzo 2008 Autore Segnala Inviato 4 Marzo 2008 E rieccomi con i commenti. Sono nella biblioteca della facoltà, c'è caso che riesca a farne solo uno o due. Furti - ectobius Molto carino, sembra la rievocazione di vecchi film in stile "I soliti ignoti", nonostante l'inquadratura temporale ben precisa. Ciò che riporta ai tempi attuali, più che l'accenno all'indulto, è senz'altro l'atmosfera di diffidenza che si respira, anche se forse ci sono un po' troppi luoghi comuni. Insomma, mi ha fatto sorridere e l'ho trovato ben scritto, ma occhio ad alcuni cambi di tempo errati. Ladro di pensieri - piri Simpatico e malinconico, lo stile di piri è sempre riconoscibile: ti fa sorridere e rattristare allo stesso tempo, facendo scaturire la riflessione da un fatto ironico ma assolutamente vicino alla realtà. Come sempre, è scritto molto bene, però il finale si lascia indovinare un po' troppo presto. Una tranquilla giornata di lavoro - viridiana Molta amarezza in questo racconto, che si chiude col buio e col nulla. Mi sarebbe piaciuto viaggiare un po' di più nella mente dei due protagonisti (cosa che sembrava intravedersi nelle prime righe ma poi abbandonata), invece accade tutto in fretta, senza dare il tempo al lettore di percepire l'alternarsi di sentimenti che si susseguono nell'animo dei protagonisti. Così sembra più di seguire un servizio di cronaca nera alla tv, mentre il racconto vive delle emozioni che è in grado di suscitare. Non mi sento di dare consigli a nessuno, però con un po' di presunzione vorrei dire: scrivi assaporando ogni parola, la fretta porta a tralasciare particolari importanti.
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