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Draghi d'inchiostro – Febbraio: La fame


Samirah

Messaggio consigliato

Dalla necessità di cibo al desiderio di conoscenza, tutti noi, chi più chi meno, viviamo la nostra esistenza all'insegna della fame.

E' un segnale fisiologico importante per la nostra sopravvivenza, è un impulso che spinge l'evoluzione, sia essa intesa in senso naturale, personale o di un'intera civiltà. Ma accade che possa sfociare nel patologico, portando a psicosi, ossessioni ed effetti distruttivi per sé e per gli altri.

Non è necessario che sviluppiate proprio quest'ultimo aspetta della fame, potete benissimo trattarla nei suoi aspetti più naturali.

Il tema è ampio e si offre a svariate interpretazioni.

Stupiteci. ;-)

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  • 3 settimane dopo...

Tutto finì con un panino.

Cioè, se uno si immagina la fine del mondo, non pensa mica a un sandwich con tonno e sottaceti, no?

Piuttosto, chessò, a un bell'asteroide, a una guerra mondiale, a un incidente atomico... Di certo era quello che pensavo io, se proprio ci dovevo pensare. Colpa dei film di fantascienza, forse. Tipo Armageddon e Deep Impact, presente? Boh. Vi ricordate che una volta era pure girata notizia che nel 2029 ci saremmo schiantati contro un asteroide? Forse era il contrario, ma vabbè. Ogni tanto rispuntava fuori, 'sta notizia. Magari gli cambiavano la data.

E invece no, tutta colpa di un dannato panino, fatto col pan carré e la maionese e tutto, quindi se pure la terra esploderà in mille frammenti rocciosi con un gran botto, gli unici a dispiacersene saranno cani e gatti e gli altri amici animali. E forse anche voi.

Era il panino perfetto, su scala di massa. Immaginatevelo: bello cicciotto, bianco candido, straripante di ripieno al tonno e maionese e sottaceti e ogni ben di dio. A tanti non piace, il tonno. Parecchi odiano la maionese. Qualcuno ha un rapporto difficile coi sottaceti.

Non importa: quel panino piaceva a tutti. Era il panino perfetto. Era buono, troppo buono. File e file di questi capolavori culinari a ingombrare gli scaffali dei supermercati, avvolti in sottili strati di cellophane e chiusi in quelle vaschette di plastica che fanno tanto cibo da aereoporti o da inglesi. Vi immaginate?

Oh, non so cosa lo rendesse così irresistibile. Qualche roba chimica, credo. Certo che chi l'aveva inventato aveva subito capito di avere sotto mano un colpo gobbo. Un best seller. Hanno invaso tutto il paese come fosse un colpo di stato: d'un tratto non era possibile andare in un negozio senza trovarsene uno di fronte, vicino alle casse, fra il pane, in mezzo ai formaggi, negli scomparti più impensati.

Non è stata mica una cosa improvvisa, sapete? All'inizio era solo un panino talmente buono da sembrare il massimo mai raggiunto dall'arte culinaria umana di tutti i tempi. A 1,99 euro il pezzo. Era più che una delizia, era un'esperienza dei sensi, ti faceva volare più in alto di una striscia di coca o una notte di sesso. Questo è quello che mi dicevano, almeno. Io? Io sono gravemente allergico a tutti i prodotti farinacei. Niente pane, per me, ergo niente panino.

Il problema di questi sandwich è che se ne assaggiavi uno, beh, non è che ti saziasse, al contrario. Ti faceva venire fame.

Al primo panino l'effetto era leggero e piacevole. Poi andava aumentando con una gradualità insidiosa. Non so se fosse voluta, ma di certò è stata la più efficace trovata di marketing mai ideata. I più smodati ne hanno risentito prima, ovviamente, mentre quelli attenti all'alimentazione ci hanno messo più tempo. Ma chiunque avesse mai assaggiato uno dei panini, prima o poi ne mangiava un altro. E un altro. E un altro.

Per i primi mesi è stato come se il mondo fosse stato colpito da un fulmine. Non si parlava d'altro che di quel panino e di quanto fosse buono. Se ne tessevano le lodi. I critici culinari praticamente piangevano d'estasi nel parlarne. Ricordo ancora una foto famosa, ha vinto pure un premio, col Papa che porge un panino ancora incartato a un bambino africano sorridente. La compagnia che lo produceva ha bruciato ogni record d'utili, polverizzando McDonald's e Coca Cola come se fossero azienducole a conduzione famigliare.

Poi qualcuno ha iniziato a preoccuparsi. Tutti avevano sempre più fame, e cercavano di saziarsi mangiando altri panini, e la fame aumentava, e così via.

Ci sono voluti circa due anni perchè la situazione sfuggisse completamente ad ogni possibilità di controllo.

Ventiquattro mesi, settimana più settimana meno, perchè tutto il mondo occidentale, e intendo dire tutti quelli che potevano permettersi di spendere 1,99 euro per un panino, sprofondasse in uno stato di cronica, profonda, bestiale famelicità. Una fame tanto profonda e insaziabile da paralizzare qualsiasi attività raziocinante. Ovviamente, a quel punto nessuno era più in grado di produrre il panino. E la gente ha cominciato a impazzire di brutto. Cioè, a mangiare qualsiasi cosa trovasse sottomano fino a scoppiare, letteralmente. Milioni e milioni di persone in questo stato. Finito il cibo, i superstiti dalla maxi-indigestione hanno preso a sciamare per le strade mangiando cani e gatti randagi. E poi i morti. E poi i vivi. Avranno anche ucciso tanti che, come me, per un motivo o per un altro, non avevano mai assaggiato un panino perfetto.

Io, beh, mi sono nascosto, sissignori. Anche da amici e famiglia. Che altro avrei dovuto fare? Ora resto qui, ben chiuso e al riparo nel mio monolocale, anche se purtroppo non ho niente da mangiare. Spero che i pazzi muoiano tutti di indigestione prima che il digiuno forzato uccida me, così potrò uscire di nuovo per le strade. Il problema è che poi so che non ci sarà niente da mangiare, lì fuori, per me. Il buffo è che internet funziona ancora, sebbene sia deserta: nessun sito è aggiornato, chat e forum restano muti. Lo so perchè ho cercato parecchio. Spero che da qualche parte lì fuori ci siate voi, ipotetici superstiti senza internet, cui sto scrivendo questo post che lascerò in giro per il web. Giusto in caso prima o poi controlliate. Magari siete degli aborigeni australiani o chessò io. Magari uscirete fra decenni o secoli dalle vostre comunità nascoste nella giungla e scoprirete ciò che resta del mondo e imparerete a usare la nostra tecnologia e troverete la mia storia e capirete che fine abbiamo fatto. Hah! Assurdo, vero? Eppure... Dio, che fame.

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  • 2 settimane dopo...

Seconda (e ultima!?) parte...

Guglia si maledisse. Una breve e colorita espressione gli proruppe sulle labbra, ma non la assecondò. Si morse la lingua, costringendosi a riflettere: quella era mille volte peggio di una trappola.

Avrebbe dovuto capire fin dall’inizio cosa stava accadendo: davanti quegli uomini e dietro, acquattato al limite delle ombre notturne, il suo misterioso inseguitore. In mezzo la postazione di osservazione deserta: qualcuno doveva aver pagato profumatamente perché non ci fossero testimoni.

«Coraggio ragazzo. Vieni qui e dacci quello che hai e non ti faremo del male.» esclamò l’uomo là davanti.

Rimase in silenzio.

«Non costringerci a venire fin lì. Non sarebbe piacevole.»

Guglia teneva la barca immobile ed il remo sollevato fuori dal pelo dell’acqua. L’unico rumore lo producevano le gocce che sgocciolavano dal legno fradicio e si allargavano in piccoli cerchi; lentamente abbassò il remo, fino ad immergere una mano nell’acqua.

Fredda, ma non troppo.

Maledizione, pensò, mentre l’abbozzo di un piano gli si formava in testa. Le lettere non si sarebbero salvate, ma il cofanetto di legno forse sì. Accidenti ma a chi voleva darla a bere? Ormai di quella paccottiglia non gliene importava più nulla: era la sua vita ad essere importante. Nient’altro.

Un improvviso movimento inclinò pericolosamente il guscio di noce sul quale si teneva in equilibrio. Il fagotto del cofanetto e delle lettere era al sicuro sotto i vestiti.

«Ehi!» gridò l’uomo davanti a lui, intuendo il movimento.

La piccola imbarcazione si capovolse l’istante dopo che ebbe preso un lungo respiro. Appena sott’acqua si mosse vigorosamente, non pensò per un solo istante all'orribile possibilità di nuotare nella direzione sbagliata. Semplicemente si fidò del proprio istinto e della propria disperazione. L’acqua era un muro oscuro che di secondo in secondo gli premeva i polmoni. Ma al contempo quello era un altro mondo: le frecce di balestra gli corsero attorno, nuotando accanto a lui nella loro micidiale corsa. Nuotò più velocemente, cambiando direzione sotto il pelo dell’acqua. Distillò la sua disperazione in quelle ultime bracciate e la sua mano urtò violentemente qualcosa di duro. Per un attimo il dolore gli fece dimenticare la brama vorace dei polmoni di una sola boccata d’aria. Urlò di dolore e l’acqua si gettò avidamente nei suoi polmoni. In qualche modo, issandosi sull’ostacolo che aveva appena urtato, riemerse tossendo e sputacchiando: si trovò su un pontile.

Era buio in quel punto e nessuno sembrava aspettarlo al varco. Forse ce l’aveva fatta. Forse li aveva ingannati. Respirò avidamente l’aria umida e si rese conto con sollievo di averli distanziati notevolmente. Aveva nuotato sott’acqua per alcune decine di metri. Dell’altro suo inseguitore nessuna traccia: forse aveva semplicemente deciso che fosse più saggio tenersi in disparte.

Guglia sorrise per l’inattesa fortuna e nonostante fosse completamente fradicio si issò sul bordo del pontile, mentre con la mano tastava il fagotto sotto i vestiti. Era ancora lì. Probabilmente le buste con il loro contenuto erano andate irrimediabilmente perse, forse almeno il cofanetto si era salvato.

Lì era buio fitto e non potevano vederlo. Dal pontile si spostò in silenzio verso la strada lastricata laterale, pregando che il legno non scricchiolasse nel momento sbagliato. Gli uomini stavano ancora frugando accanto al guscio di noce ribaltato, convinti di averlo colpito. Non si erano accorti di nulla. Strisciò lentamente, spanna dopo spanna verso la pietra sicura, dopodiché si alzò e si mise a correre, un passo dietro l’altro. Ed anche questa era fatta. Ora gli era indispensabile trovare un riparo per la notte pensò, rabbrividendo nei vestiti fradici.

Un paio d’occhi attenti lo stava seguendo non lontano nel buio. Né aveva alcuna intenzione di farselo sfuggire. Sapeva che quel ragazzo non era altro che un tramite, un semplice garzone finito a propria insaputa in un gioco più grande di lui. Da mesi aveva preparato quella piccola trappola, lasciando che il cofanetto rimanesse incustodito nella casa apposta perché venisse rubato. Nell’ultimo anno qualcuno aveva desiderato ardentemente quell’oggetto ed aveva dimostrato di non volersi fermare davanti a nulla pur di ottenerlo. Quel qualcuno forse era al corrente del segreto? Lui era ben deciso a scoprire se fosse effettivamente così. Il ragazzino era la chiave di tutto ormai. Lui lo avrebbe tenuto d’occhio finché il mandante non si fosse tradito, quindi avrebbe recuperato discretamente il cofanetto. Seduto quietamente nella sua barca l’uomo pensò che il ragazzino aveva dimostrato di avere un certo fegato. Peccato fosse sacrificabile.

Si assicurò di non perderlo di vista mentre si allontanava tra i vicoli e cominciò a seguirlo, facendo scorrere la barca all'interno del canale.

Guglia non perse tempo. Sapeva di doversi allontanare da lì in fretta. In più i vestiti fradici rischiavano di tradirlo inutilmente: non era normale che un ragazzino come lui vagasse a quell'ora in simili condizioni. Avrebbe immediatamente attirato l’attenzione. Per questo non solo doveva trovare subito un posto dove rifugiarsi, ma in quel posto non dovevano esserci troppe persone capaci di fare domande. Meglio sarebbe stato che non ce ne fosse stata nessuna.

Il luogo ideale era l’Ostrica Blu: la locanda era stata abbandonata da appena una settimana per un’infestazione di grossi ratti. Due esemplari ben nutriti erano stati trovati per l’appunto nelle cucine e tutto era stato messo in quarantena e chiuso nell’arco di poche ore. A nessuno importava dell’attività del vecchio locandiere: la paura di malattie contagiose era molto più forte. Solo che i ratti là non c’erano mai stati. Guglia ne sapeva qualcosa dal momento che ce li aveva messi lui per vendicarsi di un vecchio torto.

Ma quella era un’altra storia.

Ora la locanda deserta ed abbandonata poteva tornare molto utile: per esempio poteva essere un ottimo posto per controllare il contenuto del cofanetto, al riparo da occhi ed orecchie indiscreti. I vestiti fradici cominciarono ad avere un'importanza relativa nella sua testa, rispetto a quello che poteva trovare dentro quel cofanetto.

Aveva attraccato velocemente la barca e non aveva perso di vista neppure per un istante il ragazzino, seguendolo a piedi. Ora aveva la certezza che non si fosse accorto di nulla: si muoveva con sicurezza nei vicoli e non una sola volta aveva cercato di seminarlo. Forse riteneva che nessuno potesse più seguirlo là in mezzo, ma si sbagliava. Era particolarmente ingenuo ed imprudente, come tutti i ragazzini della sua età; però non aveva ancora ceduto. E questo era strano, ma non impossibile: a volte succedeva che il cofanetto finisse nelle mani di una mente un po’ più forte e non facilmente attaccabile. Però alla fine, in un modo o nell’altro, tutti cedevano. Il problema era quando sarebbe accaduto: per questo continuava a seguirlo da vicino, senza perderlo d’occhio.

La locanda era ancora abbandonata ed il vicolo senza luci accese dava l'impressione di trovarsi in un quartiere malfamato. Ciò nonostante il bagliore diffuso di Sevoran arrivava anche lì in minima parte. Un po' vedendo ed in parte a tentoni il ragazzo raccolse la chiave dal suo nascondiglio e si guardò velocemente attorno per accertarsi di non essere visto da nessuno. Le luci dentro erano tutte spente e l'aria era umida. Guglia entrò e si accese un piccolo fuoco. Quel tanto che bastava a togliergli di dosso il tremito incontrollabile del freddo dei vestiti fradici appiccicati sulla pelle. Purtroppo là dentro non c'era un cambio di vestiti asciutti che potesse fargli comodo: doveva aspettare che il piccolo fuoco facesse abbastanza caldo per togliersi di dosso i vestiti bagnati. Si ritrovò tra le mani il cofanetto e le buste. Viste così di fretta quelle buste non sembravano ancora proprio da buttare via, forse però prima di cantare vittoria era opportuno che le mettesse vicino al fuoco ad asciugare, per vedere se poteva ancora recuperare qualcosa. Nel farlo si rese inconsciamente conto che gli involucri delle lettere erano perfettamente asciutti, così come le scritte d'inchiostro vergate spesse sulla carta. Tutto perfetto, come se non avesse mai neppure sfiorato una goccia d'acqua. Lo appoggiò sul tavolo e si rese conto che come minimo doveva essere magia.

Fissò tutto quanto interdetto, incapace di credere in una simile fortuna. Poi mise le lettere da parte. Il simbolo sullo scrigno era un richiamo inarrestabile ed invitante. Dimenticò di essere quasi senza vestiti ora ed i brividi per il freddo si attenuarono. Poteva forse nascondere una serratura che non fosse in grado di vedere?

L’uomo raggiunse la locanda abbandonata: il ragazzino era entrato lì dentro, non c’erano dubbi su questo. In effetti lo aveva sottovalutato, si era mostrato più resistente e più tenace di quanto avesse creduto. Ma presto l’incantesimo dello scrigno avrebbe fatto effetto ed allora l’impulso irrefrenabile di aprirlo sarebbe rimasto l’unico pensiero logico nella mente di quel povero ragazzo. Nient’altro: in parole povere sarebbe impazzito senza riuscire ad aprirlo. Come avveniva a tutti coloro che se ne impossessavano, senza averne il diritto. Per questo l’uomo doveva vedere cosa stava accadendo: prima che il piccolo ladro impazzisse del tutto e potesse nasconderlo da qualche parte. Non c'era anima viva lì.

Peccato. Nemmeno questa volta il piano aveva funzionato: non sarebbe riuscito a capire chi avesse voluto realmente appropriarsi del cofanetto. Chiunque fosse era estremamente cauto: tutti quegli intermediari in quell'affare erano serviti a non sporcarsi le mani ed a non correre alcun rischio.

Aveva messo a repentaglio la sicurezza del cofanetto e l’integrità mentale di un ragazzino per nulla. Peccato.

Un rumore in fondo al vicolo lo mise in allerta. Evidentemente era stato seguito fin lì.

Due figure si avvicinavano dal fondo dello stretto vicolo: li riconobbe. I due uomini che avevano atteso il ragazzino prima. Sapevano che sarebbe stato costretto ad affrontarli. Erano in superiorità numerica, ma il vicolo era talmente stretto da impedire loro di affiancarsi per attaccarlo contemporaneamente. Avrebbero dovuto affrontarlo uno alla volta e per di più non potevano immaginarsi di che cosa lui fosse veramente capace. Quei due sicari senza insegne sui vestiti gli rammentavano che era a corto di tempo: doveva raggiungere il ragazzino il prima possibile. Sguainò la spada perfettamente lucida, l’acciaio che scintillava nella purezza del filo ed il movimento che produsse un rumore nitido e cristallino che riverberò nell'aria. La presa della mano sull’elsa gli diede il solito familiare brivido della battaglia. Non sarebbe stata una cosa lunga, pensò.

Guglia teneva il cofanetto tra le mani: ora il desiderio di sapere cosa vi fosse custodito lo bruciava dentro come una febbre inesauribile. Uno stimolo simile alla fame che annulla la logica ed il raziocinio di un essere umano. Sul legno non vi era altra iscrizione e scritta al di fuori dello stemma. Guglia pensò che almeno quello avrebbe potuto dargli un indizio. Poi chissà perché, nella mancanza assoluta di qualcosa che gli desse un'idea per aprire quella maledetta scatola, chiuse gli occhi. Se non c'era nulla da guardare così avrebbe dovuto semplicemente ignorare tutto. Era un'intuizione folle. Anche con gli occhi chiusi sentiva la presenza del cofanetto tra le mani. Al tatto passò le dita sul legno intarsiato del simbolo e pensò che quello era la chiave di tutto: qualcosa sotto gli occhi di chiunque, ma allo stesso tempo ben nascosto. Per guardare dentro quello scrigno avrebbe dovuto semplicemente cercare di non vederlo. Doveva toccarlo, entrare nel suo incantesimo, farsi una chiave nella mente.

Il primo dei due non perse tempo e roteò con fluidità l'arma corta che teneva fra le mani: non voleva colpire, non ancora almeno. Sentì il sibilo dell'arma che attraversava l'aria dove si trovava la sua testa fino a pochi istanti prima. Questo non gli impedì di schivare velocemente quei colpi fulminei, ma poco convinti. Non voleva realmente colpirlo: soltanto spaventarlo e farlo scappare. Volevano il ragazzino, ma non erano disposti a spargere sangue a meno che non fosse necessario per ottenere ciò che volevano. Sorrise.

Lui non era disposto ad arretrare. Con una mossa potente e decisa fermò a mezz'aria la lama avversaria. Gli acciai diversi strisciarono l'uno contro l'altro, fino alle rispettive guardie che sprizzavano di scintille. Lo cacciò indietro nel vicolo, spingendolo con tutta la forza verso il compagno che lo aspettava dietro. In questo modo liberò l'arma. Ma l'altro non si diede per vinto: riprese il controllo dell'arma e recuperò il terreno perso, avvicinandosi minaccioso. Lui si mise di nuovo in guardia, deciso a vibrare un colpo rapido e preciso per metterlo fuori combattimento. Questo per poco non gli costò la vita.

In pochi passi l'altro gli fu addosso con raddoppiata ferocia, l'acciaio che mordeva letale lo spazio davanti a lui. Però la lunga lama lucida respingeva ogni attacco e colmava ogni lacuna della sua difesa. L'altro puntava tutte le proprie forze su una soluzione rapida dello scontro, ma non era così. Ciò nonostante sorrideva. Un sorriso maligno di trionfo che a tutta prima lui interpretò per un'espressione di sfida. Poi ebbe un'idea, una sensazione dettata dal puro istinto di tante battaglie alle quali era sopravvissuto: il secondo uomo era scomparso, mentre quello davanti a lui sorrideva e lo stava bloccando nella medesima posizione nel vicolo. Non attese di essere attaccato stavolta: sollevò l'arma con tutte le proprie forze e si scagliò in avanti come un fulmine, calandola come una mannaia e mandando l'arma del proprio avversario a volare e rimbalzare sul terreno. L'ultimo colpo l'aveva spezzata di netto. Fin troppo facile: si girò alle proprie spalle calando la lama dietro di sé in un stretto arco dall'alto verso il basso.

Da dove venivano quei pensieri?

Guglia non se lo chiese: la maggior parte della sua anima ora non era altro che un vorace impulso a conoscere, sapere ciò che era racchiuso in quell'oggetto; una piccolissima parte di sé invece era ancora un individuo che non aveva mai pensato di essere. Qualcuno capace di pensare e ragionare, anche nei momenti peggiori. Quello in realtà era l'io che gli aveva permesso sempre di sopravvivere, come ora che la sua mente veniva strappata via a brani da quell'indicibile bisogno di sapere. Sotto le sue dita il legno degli intarsi si spostò leggermente, come se una molla fosse diventata più cedevole ed avesse iniziato a spostarsi. Guglia non aprì gli occhi: prima quella strana rientranza nell'intarsio non c'era stata.

Click.

Il coperchio si aprì sotto le sue mani.

La lama incontrò la carne e squarciò le costole dell'uomo che si stava lanciando dietro di lui. Un attimo dopo e le parti sarebbero state invertite. Avevano pensato di approfittare della sua distrazione per aggirarlo da dietro. Vide lo stupore ed il dolore che passavano sul viso del sicario, ma non fermò l'impeto della spada: lasciò che bevesse il sangue dovutole e completò l'affondo. Il sicario scivolò a terra morto. Si voltò:

Lui era il Maestro d'armi e non aveva più tempo da perdere. Si aspettava che l'altro lo stesse già per assalire, ma quello, visto il malpartito, si stava dileguando di corsa al lato opposto del vicolo. Meglio così.

Rinfoderò la spada e cercò un varco per entrare nella locanda apparentemente abbandonata. Lasciò il cadavere dove si trovava; non aveva tempo ora di sbarazzarsene. A malapena ora avrebbe potuto recuperare il cofanetto ed andare via da lì.

Guglia sentì un improvviso senso di trionfo. C'era riuscito alla fine. La sua avidità stava per venire soddisfatta. Ora avrebbe saputo cosa ci fosse di tanto importante in quel cofanetto: aprì gli occhi. Ed immediatamente si rese conto di aver commesso un gravissimo errore.

Era come se l'interno di quella scatola avesse una propria vita e Guglia non ne potesse distogliere lo sguardo. Lo teneva inchiodato a sé in una ridda di immagini che il ragazzino faticava a capire. Un attimo prima era nella stanza di una locanda e l'attimo dopo volava a pelo d'acqua sul mare e sotto la superficie del mare, sempre più lontano. Vide le rotte che portavano fuori dalla vecchia Sevoran, verso altre civiltà. Vide le navi che solcavano i mari alla ricerca di fortuna ed in fondo vide i passaggi che garantivano la comunicazione tra questo mondo e l'altro mondo. Vide l'onda di marea che aveva cancellato tutto, ma gli antichi passaggi erano rimasti: ora erano sigillati e dormienti. Vide quello che si celava al di là di essi… Guglia non voleva guardare. Non fino a qual punto, ma non poté farne a meno. Era come se l'esplosione improvvisa di una rivelazione lo avesse catturato e si imponesse a lui. Non c'era via di uscita, non c'era alcuna salvezza. Doveva sapere ciò che aveva desiderato conoscere. Anche se farlo avesse significato morire. La sua mente non resse e lo trascinò in un mondo caotico di conoscenza. Guglia cercò di proteggere in qualche modo la propria identità, ma era troppo per lui. Un istante dopo giaceva riverso nel buio della semincoscienza, le ultime immagini che ancora fluivano a lui, incidendosi nella sua memoria, riducendolo a qualcosa di simile ad un vegetale. Era già diventato come cieco, cominciò a perdere la sensibilità del proprio corpo e si sentì affondare, incapace di reagire. Il cofanetto si chiuse di scatto. La sua stupida avidità aveva richiesto un prezzo e tale prezzo era stato pagato.

Era ancora nella stessa posizione quando il Maestro d'armi lo raggiunse nella stanza. Troppo tardi pensò, avvicinandosi al corpo riverso ed immobile e tastandone il polso, convinto che fosse ormai morto da un pezzo. Allora la rassegnazione e l'amarezza lasciarono il posto allo stupore: il ragazzo era ancora vivo: respirava debolmente, ma ancora resisteva. Sarebbe sopravvissuto. Il Maestro d'armi notò gli occhi spalancati vuoti: con il tempo avrebbe ripreso a vedere. Raccolse da terra il cofanetto ed ammirò il simbolo finemente cesellato sul coperchio. In genere la magia del cofanetto uccideva senza scampo: il segreto era troppo pericoloso perché venisse comunicato ad altri che non fossero il suo custode. Tutti provavano la bramosia di conoscerne il segreto, ma ognuno puntualmente moriva nel tentativo di carpirlo. Tutti tranne uno: lui anni prima era sopravvissuto per diventare Maestro d'armi, custode del segreto. Ora erano in due ad essere sopravvissuti. Possibile che chi avesse commissionato quel furto si fosse atteso una cosa del genere? Chiunque fosse stato si era dimostrato ancora una volta molto furbo e previdente: evidentemente era a conoscenza del piccolo particolare della trappola. Ora però il cofanetto non aveva più importanza: il segreto aveva trovato un altro contenitore, di tutt'altra specie.

E così quel piccolo straccione sarebbe stato il prossimo Maestro d'armi. Quando la vista fosse tornata ci sarebbe stato molto lavoro da fare. Il Maestro sollevò il suo nuovo allievo sulle spalle e con un movimento rapido fece scomparire lo scrigno sotto i suoi vestiti. Senza guardarlo ricordò beffardamente cosa dicesse la scritta nascosta nell'intarsio del simbolo principale. Era difficile notarla, ma c'era.

"Potrai conoscere solo ciò che puoi sapere" diceva.

Uscì dalla locanda nel vicolo ancora deserto. Il corpo del sicario che aveva ucciso non c'era più: una cosa in meno di cui preoccuparsi. Accomodò meglio il peso del ragazzino sulle spalle. Non si svegliò mai durante il tragitto di ritorno alla barca, attraverso la città.

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1.

La vidi dove sarebbe rimasta fino alla fine. Avete presente la panchina a strisce verdi e blu di piazza Dogana, quella rivolta verso la rotonda, davanti al bar Moka? Stava seduta là, a gambe incrociate, lo sguardo fisso sui cassonetti della spazzatura sul lato di fronte. Buffo che guardasse proprio da quella parte, se si pensa a come è finita.

La vidi mentre tornavo a casa dopo una partita di calcetto al parco, sudato fradicio e imbacuccato nel giaccone pesante per non ammalarmi.

Mi avvicinai incuriosito e la prima cosa che notai fu che era carina. Occhi luminosamente vuoti, azzurri, un po’ spalancati, capelli biondo sporco; molto magra, sottile, con un sorriso appena accennato, incompiuto. Era scalza, il rosa pallido delle piante dei suoi piedi nudi faceva capolino da sotto le ginocchia. Non le diedi più di diciassette anni, l’età che avevo io allora.

Era tardo pomeriggio, uno di quei primi dolci pomeriggi di primavera, quando un vento tiepido soffia da Sud-Ovest e la città ghiacciata dal torpido sogno dell’inverno si risveglia ai raggi del sole rinato. Le vernici metallizzate delle macchine in colonna nella rotonda riflettevano la malinconica luce del tramonto. Gruppi di ragazzi e ragazze in giacche leggere, i volti arrossati dal primo sole, dopo tanto tempo tornavano ad affollarsi davanti alle gelaterie riaperte e si spingevano ridendo con aria spensierata.

Ma lei a tutto questo era estranea. Dava l’impressione di essere completamente avulsa da ciò che la circondava, lontana anni luce dal tepore e dalla primavera. Stava là e basta, come sarebbe stata chiusa a chiave in camera sua, o sul divano di una discoteca, o sul fondo dell’inferno, per quanto sembrava che gliene importasse.

Quando le passai davanti per imboccare la via in cui abitavo, qualcosa in lei mi colpì molto. OK, era carina, ma niente di eccezionale, decisamente troppo magra… No, che fosse bella non c’entrava nulla; furono i suoi occhi. Per un attimo incrociai il suo sguardo e in esso percepì allo stesso tempo un’incredibile intelligenza, immensamente superiore alla mia e a quella di chiunque altro avessi mai conosciuto e un vorticoso senso di vertigine, di vuoto assoluto. Come veder esplodere una supernova in un buco nero.

Tornai a casa turbato e quella sera a letto rimuginai a lungo su ciò che avevo visto, incapace di prendere sonno. Non riuscivo a togliermela dalla mente.

La mattina dopo andando a scuola la rividi. Era sempre seduta su quella panchina, nella stessa posizione e con lo stesso sguardo incomprensibile fisso nel nulla. Poteva non essersi mossa di un millimetro.

A scuola non ne parlai con nessuno, non mi sembrò necessario. E poi pensai che a raccontarla sarebbe parsa una cosa stupida, di poco conto, così decisi di tenerla per me. Eppure non ascoltai una sola parola di ciò che dicevano i professori e nemmeno per un secondo smisi di pensare a quella strana ragazza sulla panchina.

Non mi stupii di trovarla ancora là quando tornai a casa a ora di pranzo. Presi il cellulare e fingendo di telefonare la osservai con la coda dell’occhio per qualche minuto. Sedeva nell’immobilità assoluta. Guardandomi attorno mi accorsi con un certo fastidio di non essere il solo ad averla notata. Proprio allora dalla banca uscirono degli impiegati che la guardarono incuriositi e sul balcone di una casa che dava sull’incrocio una donna con un grembiule lillà le lanciò una lunga occhiata mentre si chinava per annaffiare i gerani sul davanzale. I soliti vecchi alcolizzati del bar Moka, alticci fin dal primo mattino, accennavano a lei con le teste e la squadravano ridendo sotto i baffi.

Quel pomeriggio inventai un pretesto per giustificarmi davanti a me stesso e tornai in piazza Dogana. Non se n’era andata. La curiosità prevalse e, fatto un respiro profondo, mi sedetti sulla panchina accanto a lei.

- Ciao – dissi sfoderando il mio sorriso più accattivante

Lei non sembrò avermi sentito. Nemmeno si girò per guardarmi in faccia, non mosse un muscolo del viso. Continuava a tenere lo sguardo fisso dritto davanti a sé, nella stessa direzione del giorno prima, verso i bidoni della spazzatura.

- Ciao – ripetei a voce più alta.

Nulla. Non dava il minimo segno di essersi accorta della mia presenza. Pensai che potesse essere sorda, o cieca, o entrambe le cose.

- Ehi, parlo con te! – Mi chinai verso di lei nella speranza di attirare la sua attenzione, ma fu inutile. Rimase immobile come una statua.

Spazientito, le misi una mano davanti agli occhi e la agitai su e giù. Nulla. Le diedi uno schiaffetto sulla guancia, poi un altro leggermente più forte. Un albero avrebbe reagito allo stesso modo.

Pensai che potesse essere morta. Si sa un corpo può rimanere per molto tempo nella posizione in cui la vita lo ha lasciato. Dopo aver dato un’occhiata circospetta alla piazza (nessuno in quel momento sembrava guardare dalla mia parte, nemmeno gli assidui del Moka) mi inginocchiai per terra di fronte a lei e la guardai bene. Non batteva le palpebre e non sembrava respirare.

Vagamente impaurito dalla possibilità di trovarmi così vicino a un morto, alzai la mano e le toccai timidamente la fronte. La tolsi di scatto, la posai di nuovo, feci il confronto con la mia.

Era calda almeno quanto me. Forse era morta da poco, avevo sentito da qualche parte che un cadavere ha bisogno di un po’ di tempo per raffreddarsi.

In preda a un’ispirazione improvvisa le presi la mano abbandonata inerte sulle ginocchia e le tastai il polso sottile. All’inizio non sentii nulla. Non riuscivo a concentrarmi a causa delle macchine che rombavano ininterrottamente a pochi metri da noi e avevo paura di attirare l’attenzione dei passanti. Molto probabilmente qualcuno nella piazza si era accorto di me e osservava ciò che stavo facendo.

Faticosamente riuscii a distogliermi dal rumore e dalle preoccupazioni e cominciai a sentire qualcosa. Più che un battito, era un lento flusso continuo, simile a al moto di una marea, ma pensai di poterlo ritenere un prova sufficiente del fatto che fosse viva.

Mi risedetti accanto a lei sulla panchina e la guardai di nuovo. Forse era in coma, dato che non batteva le palpebre, non sembrava respirare e avere coscienza di sé, ma rimaneva da chiarire come era potuta era arrivare fin lì. Forse stava proprio in quella posizione quando si era sentita male. Tipo un infarto o un ictus o qualcosa del genere.

Mi sentii in imbarazzo a stare seduto in silenzio su una panchina accanto a una ragazza seduta immobile a gambe incrociate, apparentemente morta. Scossi la testa, mi alzai e feci per tornare a casa.

- Io non ho idea di chi tu sia. – Aggiunsi intenzionata ad andarmene, ma poi mi risedetti.

- O del perché tu stia qui seduta immobile da ieri pomeriggio. – Sapevo che non poteva sentirmi e ciò che stavo facendo era completamene privo di senso, ma proseguì.

- In realtà non so nemmeno cosa ci faccio io qui con te. Escludo che tu sappia che ci sia anch’io. Non ho mai visto una cosa strana come te, sai? Te ne stai talmente immobile, con un’aria talmente distaccata che ho creduto che fossi morta. Ma non lo sei, questo è chiaro; anzi, non sei meno viva di tutti noi altri, probabilmente. – Una volta cominciato non riuscii più a fermarmi.

- Perché in fondo ora che ci penso non è che la mia vita sia particolarmente interessante, e non so quella degli altri lo sia. Per carità, non mi posso lamentare. Niente malattie, perdite importanti o sfighe vere… A rigor di logica dovrei essere felice. In teoria la felicità è una condizione negativa: se non stai male, e quindi mangi, bevi, dormi e ti senti sufficientemente libero, be’, allora stai bene, e se stai bene è ovvio che tu sia felice. Non c’è un solo motivo serio al mondo per cui non dovrei esserlo. OK, magari non riesco a farmi la ragazza che voglio, prendo un brutto voto a scuola, litigo con mia madre… Ma questa è roba che nel peggiore dei casi ti può far sentire un po’ giù, stop… Se fossero questi i problemi del mondo... No, non so… E’ solo che… Mi manca qualcosa, non so se capisci cosa intendo… Cioè, certo, è un problema mio, ma questo non vuol dire nulla, visto che stiamo parlando di me. E’ come se avessi sempre vissuto con l’impressione di perdermi qualcosa… Qualcosa d’importante, di fondamentale…

Insomma, avrete capito. Vi risparmio il resto.

Da quel giorno andai da lei tutto i pomeriggi. Parlavo, ridevo, balzavo in piedi per spiegare meglio ciò che dicevo, mi risedevo, mi entusiasmavo, mi sconfortavo... Lei era la più grande ascoltatrice che avessi mai conosciuto, compresa mia madre. Era confortante sapere di poter contare su qualcuno che non ti interrompeva e non ti contraddiceva mai, non dubitava di nulla e non faceva domande.

2.

- Ma tu non hai mai fame? – Era così che cominciavo sempre. All’inizio era una specie di gioco, ma poi divenne una preoccupazione più seria, e infine una preghiera disperato. Dimagriva di giorno in giorno, era sempre più, brutta e sciupata. Anche se guardandola era impossibile pensare che qualcosa che riguardasse anche solo lontanamente la terra e le necessità materiali potesse toccarla, credo che avesse bisogno di mangiare proprio come tutti gli altri. Vederla assottigliarsi e perdere progressivamente le forze era straziante, e in quegli ultimi terribili giorni ogni volta mentre tornavo a casa dopo che essere stato con lei faticavo a trattenere le lacrime. Un giorno portai con me del pane e, pur sapendo già prima che sarebbe stato inutile, feci un timido tentativo di imboccarla. Ma l’increspatura di quel sorriso ultraterreno non voleva saperne di aprirsi, e non ebbi il coraggio di aprirle la bocca a forza e infilarci il cibo contro quello che sembrava un suo desiderio.

Sapevo che la cosa giusta da fare sarebbe stato portarla all’ospedale o almeno avvertire qualcuno di competente. Un paio di volte la coscienza riuscì quasi a prendere il sopravvento e fui sul punto di parlarne con mio zio, che è medico, ma non lo feci mai. Mi giustificavo pensando che di sicuro non soffriva, dato che non era cosciente, che quella non poteva che essere la sua volontà e che comunque sarebbe stato impossibile aiutarla più di quanto facevo io. Non so quando o da dove mi sorse quest’idea, ma nel giro di poco mi convinsi di essere per lei una sorta di guardiano. Ero io che la facevo felice andandola a trovare tutti i giorni. Ero io, soprattutto, che cercavo di difenderla dagli assalti del mondo esterno.

Vivevo nel costante terrore che venisse il giorno in cui non l’avrei più trovata. Ero perseguitato da sogni in cui lei, stufa di me, se n’era andata e io la rincorrevo per il dedalo le viuzze della città vecchia. La cosa peggiore era che mentre la inseguivo sapevo bene che non avrei mai potuto raggiungerla. Forse intuii fin dall’inizio che il suo soggiorno sulla panchina sarebbe stato breve, e fu proprio la tacita consapevolezza di ciò a lacerarmi. Forse l’ho sempre sentita troppo estranea a tutto ciò che c’è qui per poter credere che sarebbe rimasta a lungo.

Fin dalla prima volta che la vidi mi accorsi del crescente interesse della gente nei suoi confronti. Mentre stavo con lei notai che non c’era una sola persona che passasse da quelle parti che una volta al giorno non deviasse di poco il suo percorso per guardarla. E molto spesso qualcuno quando incrociava il suo strano sguardo si fermava e fissava a lungo.

Non ero nemmeno l’unico a parlare con lei. Vidi più volte delle persone che non conoscevo avvicinarsi cercando di non farsi notare e lasciarsi cadere al suo fianco. Proprio come facevo io, le parlavano concitatamente per ore.

Sapere di non essere il solo a occuparsi di lei, a considerarla importante e soprattutto a parlarle mi rendeva geloso oltre ogni limite. Pensavo che nessuno potesse amarla nemmeno con un milionesimo dell’intensità con cui l’amavo io, che nessuno tranne me potesse capirla…Quella gente superficiale e falsa non aveva il diritto di starle vicino e intromettersi nella perfezione del nostro rapporto. Ognuno dei loro stupidi sguardi la offendeva e la insudiciava.

Un pomeriggio arrivai che sulla panchina era già seduto qualcuno. Era un ragazzo qualche anno più piccolo di me, tarchiato e con la pelle olivastra. Mi appoggiai con la schiena a un palo poco distante e rimasi ad ascoltare, gli occhi ridotti a due fessure dalla rabbia.

- Io, comunque, sono Pablo. – diceva il ragazzino con un accento straniero, facendo ampi gesti con le mani. - Cioè, in realtà Paolo, però la gente di solito mi chiama Pablo, no? Cioè per Pablo Escobar, no? Quello di Blow, presente? Non è che spaccio, eh! Lascia stare! Al limite porto le storie di mio fratello a certi tipi… E’ che è un nome figo, Pablo, no? Cioè, ha stile! Sai quanta gente che si chiama Paolo! E invece Pablo no, magari in Spagna, ma quello chissenefrega! Cioè, non è che siamo in Spagna, no? Pablo a scuola tutti sanno chi è… Solo che una volta lo ha sentito mio padre, no? Lo odio, mio padre! Comunque, vabbò non ti sto a dire tutto bene, ma mio padre ha sgamato l’Ale che mi chiamava Pablo, no? Allora le ha detto di levarsi dai ******** subito che la prossima volta le spaccava la faccia e quando lei se n’è andata mi ha dato una fracca di botte. Cioè, solo perché mi ha chiamato Pablo, no? E’ che lui dice che mi ha chiamato apposta Paolo perché quando sono nato sapeva già che poi venivamo qua in Italia, no? Perché Paolo è un nome italiano, no? E allora gli fa incazzare che non mi chiamano così, anche perché lui dice che Pablo è un nome di *****, no? Proprio una gran testa di *****, mio padre…

Non riuscii più a trattenermi e lo insultai dicendogli di andarsene subito. Se non ci fosse stata lei a farci vergognare di noi stessi non ho dubbi che saremmo passati alle vie di fatto. Molto probabilmente le avrei prese.

Un sabato notte passai di là per salutarla mentre tornavo a casa e assistetti a una scena che ricorderò per sempre. Un barbone era inginocchiato per terra di fronte alla panchina, nella stessa posizione in cui qualche giorno prima io le avevo tastato il polso. Le baciava i piedi sotto le ginocchia e piangeva.

- Io ti amo! – urlò a un tratto, la voce impastata dall’alcol – Ti amo più di quanto amavo lei! Non è possibile! Non è possibile! – singhiozzò premendo il capo sul suo grembo.

- Tu non sei lei e io non posso amarti! Perché? Perché? – Si rialzò barcollando e presa una bottiglia da terra la scagliò contro un cartello mandandola in frantumi.

- Perché? Tu non sei morta! Lei è morta e mi ha lasciato qui! Qui! – Prese da terra un’altra bottiglia e spaccatola contro la panchina si ferì la guancia con un vetro rotto. Poi con urlo disperato alzò il vetro nella sua direzione e per un secondo sembrò sul punto di ferirla, ma lo riabbassò subito e si accoccolò per terra sotto di lei, piangendo in silenzio.

3.

Due settimane dopo della creatura di sole e cielo che era stata prima non era rimasto nulla. Due enormi occhi febbricitanti si aprivano come ferite sulla sommità di un sacco d’ossa ricoperto di pelle trasparente. Era sera e una spessa coltre di nubi scure gravava sulla città. Non la guardavo, per non piangere.

- Sono due settimane che te ne stai sola su una panchina e tutta questa gente ti rovescia addosso se stessa. Chissà cosa pensi di noi, delle nostre stupide vite… Ti costringiamo a farne parte, ma non ti abbiamo mai chiesto il permessi – Un lampo illuminò il cielo sulle nostre teste e il rimbombo sordo di un tuono lo seguì. - Ma si vede lontano un miglio che tanto non te ne frega niente, nemmeno quando ci mettiamo a piangere o a urlare. – Grosse gocce di pioggia cominciavano a cadere. - No, non ti tocca la ***** nella quale noi soffochiamo ogni giorno. La sovrasti da un’altezza troppo incomparabilmente elevata perché possa riuscire anche soltanto a sfiorarti. Tu non sei qui insieme a noi, tu sei lontanissima. Cosa ti importa di mangiare? Mangiare serve solo a non morire. E cosa importa a te di ********* come la morte? – La pioggia si abbatteva con intensità sempre maggiore e le gocce cominciavano a infilarmisi nel colletto della giacca e a scendermi sul petto in rivoli gelidi facendomi rabbrividire. Mi sentivo pieno di una rabbia gelida e impotente che non avevo mai provato prima.

-Hai mai pensato al motivo per cui i cessi hanno le porte? – dissi alzando la voce fin quasi a urlare, stringendo i pugni nascosti dalle maniche della giacca. - Te lo dico io. Perché la nostra più grande paura è farci vedere mentre stiamo cagando. Che ci vedano nudi e dicano che siamo grassi, o troppo magri, che abbiamo il ***** piccolo, i brufoli sul **** o troppi peli. Tutto qua. E allora l’unica cosa a cui pensi è una porta per chiudere fuori il resto del mondo, così non riusciranno a vederti. Ma una porta non può fare nulla contro la paura, quella rimane con te, sempre. Non riesci a sopportare di sapere che ci sarà sempre qualcuno pronto a spiarti dal buco della serratura, o che si chinerà per guardarti dal pertugio sotto, per ridere dei tuoi segreti più rivoltanti. E invece di uscire e affrontarlo da uomo pensi a nasconderti meglio. Credi di risolvere i tuoi problemi incastrando un pezzo di carta igienica nella serratura, costruendo una barriera più efficace. Solo che a forza di stare al chiuso l’aria prima o poi si consuma. E allora, se vuoi continuare a respirare, rimane solo la paura. E buonanotte.

E buonanotte – ripetei incamminandomi con la testa incassata nella spalle e le mani in tasca, bagnato fradicio, sotto la pioggia che mi scrosciava addosso. Non saprei dire se stessi piangendo.

4.

La mattina dopo era domenica. Mi svegliai all’alba e quando capii che non sarei riuscito ad addormentarmi mi infilai i vestiti e scesi in strada. Il sole cominciava appena a risalire il suo percorso nel cielo luminoso e i suoi raggi si riflettevano attraverso l’aria pulita dalla pioggia sull’asfalto non ancora asciutto.

Lei, rachitica bambola, giaceva scomposta in una pozzanghera davanti alla panchina. Aveva vinto la fame

Non mi avvicinai, rimasi a guardare. Alle sette e mezza, quando aprì il bar e i fragranti aromi del caffè e del pane tostato si sparsero nella piazza, una cameriera con le tette grosse uscì fuori sorridendo. Guardò verso la panchina e il sorriso le morì sulle labbra. Esitò un attimo, poi corse da lei e la sollevò senza fare nessuno sforzo, tanto era leggera. Attraversò la piazza cullandola fra le braccia e, dopo aver fatto leva sulla barra con il piede, leggermente, la lasciò cadere nel primo bidone della fila.

5.

Per un po’ la gente che capitava da quelle parti aveva un’aria triste, svuotata. Passò del tempo e lentamente il senso di vuoto scemò finchè un giorno nessuno si ricordava più perché passando da piazza Dogana lo sguardo era involontariamente attratto da una certa panchina a righe verdi e blu, o a cosa fosse dovuto lo strano disagio che quella vista sembrava causare.

Come era destino che accadesse, ci dimenticammo di lei.

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  • 2 settimane dopo...

Vi chiedo scusa per il ritardo, ma mi riconnetto solo oggi da venerdì.

L'edizione di febbraio è stata un po' sottotono e le votazioni sono state molto poche, ma abbiamo comunque un vincitore! :-)

Il primo posto per il mese di febbraio va a

Fame

di

Andar

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Oh cielo, gosh, non so cosa dire, non me l'aspettavo e di certo non lo merito... Ah, diamine, a chi voglio darla a bere?

Certo che me lo meritavo! Sono troppo bravo!

A voi forumisti letterati un sentito ringraziamento e un sonoro rimprovero: possibile che solo due prodi abbiano raccolto la sfida di febbraio, e che così pochi (a quanto dice il buon moderatore) abbiano votato (ovviamente per me)?

Va bene che molti si saranno lasciati scoraggiare trovandosi a competere con un sì fine esempio di arte scrittoria, ma di certo mi aspettavo una concorrenza più agguerrita!

Onore al merito ai due coraggiosi scrittori che si sono cimentati con me nella competizione, e di cui posso solo dire questo: non sono stati loro a perdere per via di racconti immeritevoli (au contraire, alloro e lodi a entrambi). Sono stato io a vincere grazie alla mia penna sopraffina!

Coraggio, date una spallata a questa mia momentaneamente giustificata supponenza. Raccogliete la sfida, fate del vostro meglio per il contest di marzo, e vedremo se riuscirete a battere il mio capolavoro prossimo venturo. Chi ci sta?

Un Andar volutamente irritante e dannatamente bravo

p.s.: ah, ovviamente ogni commento sul racconto di febbraio è il benvenuto. I complimenti soprattutto. Persino le critiche, se per caso riuscite a trovarne qualcuna valida. Hahah (risata malefica ma non troppo a lungo protratta).

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  • 3 mesi dopo...

A suo tempo fu scritto per partecipare al concorso di Samirah sul tema "Fame". Non lo inviai allora perché lo ritenni inadeguato. Lo propongo ora ché mi sento colpito dalla notizia della schedatura dei bambini Rom come criminali congeniti (rivalutiamo Lombroso!), dai bollettini dei naufragi che vanno trasformando il Mediterraneo in un immenso cimitero, dal razzismo crescente degli itliani che mi sembra manchi poco a che reclamino il triangolo giallo da appuntare su ogni giacca a righe rosse!

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

BAJRAM

Sollevarlo così in alto e con tanta facilità... non ci poteva credere!

Volava il bestione... continuava a salire con la sua mole sotto la spinta dalle sue braccia levate... lento come una piuma nel cielo pulito e gorgogliante il suo fulgido blublublu.

E’ un televisore quello che sale... un televisore enorme quanto un edificio!... e lassù raggiunge e spaventa uno stormo di uccelli stridenti... e ancora vola più in alto quasi a colpire un'aquila che fa la ruota sulle ali larghe, le piume dispiegate e ferme, e che lo fissa con apprensione.

In lenta parabola, infine, precipita su un sasso... emette un gemito. Qualche scintilla... sfrigola, rimbalza...

BANG!!! BAANG!!!

Esplode e proietta in largo gli improbabili indumenti... giacche a righe rosse con il bavero rosso lucido... e scarpe da tennis Nike. E anche telecamere. E poi facce da c**o, profili di soliti st****zi... Veline!

Gli stracci imbrattano la luce blu del bel cielo dei suoi monti.

Tutto poi cade volteggiando... al rallentatore.

E BAANG!!!... Un nuovo scoppio!

Fumo e volo di stracci che ricadono.

Lenti.

E BANG! BAANG!!!...

E ancora!...

E’ sveglio!... la porta del casolare sbatte violenta al soffio di uno sgarbato e caldo favonio che ad intervalli gli scudiscia il viso con una carezza infuocata ed iraconda...

Bang!... e BAANG!!...

E’ mattino inoltrato ed è solo nel casolare semidiroccato.

Sono usciti tutti prestissimo e sono lì nel campo piegati sotto il sole impietoso a raccogliere pomodori per duemila lire l’ora esclusi vitto e alloggio... E lui da due giorni non lavorava e li aveva trascorsi , que due giorni, affossato nel materasso pulcioso, semicosciente, arso dalla febbre e scosso da brividi.

Questa mattina si sentiva meglio e con gesto annoiato e stanco si era levato sul materasso umido.

Era sudato, ma calmo ché non usciva da un incubo... anzi!

Quel sogno, nonostante la sua condizione, lo lasciava ora quasi gratificato rinfrancato soddisfatto, come avesse eseguito la giusta vendetta nei confronti di quello che considerava il responsabile delle sue sventure, il televisore.

Restò accoccolato sul materasso, lo sguardo assente fisso alla parete sulla quale proiettava, come su uno schermo, i suoi monti ... il suo cielo blu.

Ristava... come in una trance.

E fu la nota bolsa di un gallo che strillò dall’aia un canto che somigliava ad un singulto rattenuto che lo riportò alla realtà. E subito dopo il ronzio di una mosca, un abbaiare lontano, lo squittio di un topo... le sanguinose ingiurie di un nemico invincibile .

Il suo cuore ebbe un sussulto e la nostalgia lo intenerì fin alle lacrime.

Solo e maleodorante.

Ogni speranza e sogno erano ombre sformate ed opache, e si rincantucciavano, immoti fantasmi, negli angoli bui della sua coscienza... su pareti scrostate in tutto simili a quelle della misera catapecchia infuocata.

Basta!

Sarebbe andato in città e si sarebbe dichiarato clandestino.

Magari lo avrebbero curato in un ospedale e poi lo avrebbero riportato a casa con foglio di via obbligatorio.

Prese la sua roba, un saccolo con l’improbabile giacca di foggia italiana, e se ne partì tutto solo come un cane frustato sulla strada polverosa dalla masseria verso la città...

Deciso!

Il saccolo di tela grezza contenente la giacca sotto il braccio, partiva senza nessun saluto, nessuna voce amica di commiato che lo sgravasse per un minimo dalla pena...

Solo!

Su una strada sperduta, sconnessa, senza traffico e senza l’ombra di un albero... la strada che conduceva alla lontananza ostile ed inconoscibile della città, nel regno della più triste realtà.

E il sole implacabile!

Ai lati i campi gialli erano un immenso sudario steso sulla grande pianura e davano la sensazione di attraversare il deserto... e sì che c’era anche la sete da deserto... e c’erano miraggi a bucare i suoi occhi cisposi e secchi.

Impero di morte!

Sulla vasta pianura una calma ossessionante e un silenzio corrosivo si allargavano fin oltre il tremulo orizzonte in una profonda nota di tristezza... la testa frastornata! Gli sembrava di essere fuori della vita in un’ebetudine molle che solo il forte improvviso dolore di crampi alla bocca dello stomaco ebbe il potere di dissolvere.

La stanchezza lo inchiodava al suolo... seduto su un mucchio di ghiaia. Cercava con lo sguardo ansioso un po’ d’erba da succhiare che gli calmasse la sete... Invano!...

Solo aride sterpaglie!

Raccolse un sassolino, lo spolverò strofinandolo sul pantalone e lo succhiò... Gli fece bene!... e con uno sforzo di volontà si levò, rimise il saccolo in spalla e biascicò una preghiera... lui che non aveva mai pregato!

Giunse in città che aveva un nodo troppo grosso alla gola ed un gran peso sullo stomaco... un sudore freddo gli gocciava dalla fronte... un pallore mortale gli sbiancava il volto.

Approfittò di una fontana per bere e dopo poco vomitò.

Già gli si annebbiava la vista e i crampi avevano ripreso a trafiggerlo come una lama... Non gli davano pace!

E così si trovò a passare nei pressi di un supermercato.

Non possedeva una lira, ma vi entrò lo stesso.

Tutti!.

Ogni sera riuniti intorno al desco di minestra di erbe e patate... lo schermo del televisore che svolge il suo mestiere di seduzione. E la pubblicità dei cibi per cani e gatti che più li attira... sugosi bocconcini di carne che danno l’acquolina...

E poi i lustrini, le giacche sgargianti, le belle donne...

E i quiz!

I quiz soprattutto!... che distribuiscono danaro a larghe mani su risposte a domande sempre più cretine alle quali tutti, e Bajram in particolare, sono in grado di dare risposte pronte e sempre esatte... Hanno anche inviato lettere proponendosi per il gioco.

“Cosa ci facciamo noi qui con la solita minestra da fame?”.

Era questa la frase che veniva ripetuta sempre più spesso ogni sera e ad ogni spot invitante:

“Venite!... Venite!... Ce n’è per tutti!... Allungate le mani e prendete!”.

Ma la loro, a dire il vero, non era proprio fame. Si trattava piuttosto di cronica insoddisfazione, improprio surrogato della vera fame... Comunque il “cosa ci facciamo qui” loro se lo chiedevano lo stesso, anche se i termini erano approssimativi.

Tutti avevano imparato la lingua da quella scatola magica... Bajram anche l’aveva studiata, la lingua... e a scuola aveva studiato anche il latino... Bajram!... La lingua italiana la parlava alla perfezione.

E continuava a ripeterselo, Bajram!:

“Cosa ci faccio ancora qui?... a minestra d’erbe! E’ lì c’è Lamerica!... A due passi!”.

E un po’ tutti in famiglia capivano ed erano disposti ad aiutarlo con i risparmi che ogni povero mette da parte per un futuro da sempre incerto... e lo incoraggiavano... e gli davano consigli.

“... Se nutrono cani e gatti con quel ben di Dio potranno mai negare a te una bistecca?... E poi andrai in televisione e li sbancherai... Tu Bajram!”.

Era entrato deciso nel supermercato... pensava... “Magari una scatoletta!... di bocconcini di carne per gatti... ricca di calorie!... un furto da niente!... e potrei venire a pagarla dopo, quando avrò guadagnato qualcosa”... questo pensava.

Trovò lo scaffale... e una scatoletta... la più piccola... ed anche qualche biscotto... un pacchettino piccolo di biscotti per cani!... pasto sufficiente a calmare almeno i crampi:.. “Ma sì, li prendo e chi s’è visto s’è visto!”.

Ma è la telecamera che lo ha visto!

E si facevano progetti, lassù!

In quella casetta sui monti sopra Valona:

“... non ci devi arrivare vestito di stracci e affollato su una marcia carretta del mare che immediatamente ti prendono, ti chiudono in un campo di calcio e ti rispediscono a casa... E Lamerica manco l’avrai vista... Tu, Bajram! Lamerica devi conquistarla!”.

E Bajram era un ragazzo, e ci credeva!

Si recò a Valona.

Glie lo assicurarono... Sarebbero salpati in gommone con mare calmo... e solo in pochi e selezionati... non sarebbero stati notati allo sbarco... con facilità si sarebbero mimetizzati purché vestissero all’italiana... abiti puliti e padroni della lingua... insomma dovevano farsi passare per italiani!... Mimetizzarsi!... Ne avevano traghettati già tanti e tutti avevano fatto fortuna... certo il viaggio costava qualcosa in più!... ma...

Bajram annotò la cifra.

Si fecero e rifecero i conti in famiglia: il traghettamento... la giacca a righe rosse con risvolti rossi e lucidi... taglio dei capelli all’italiana... scarpe da tennis Nike...

Tutti i risparmi andati!

Ma aveva provato gli indumenti ed era perfetto! Proprio un italiano!... Elegante!... Ci furono anche applausi.

Sbarcarono su una spiaggia isolata.

Era appena sera.

“Cambiatevi gli indumenti e allontanatevi... ma non in gruppo... uno per volta... Alla strada troverete delle auto che per cinquemila lire vi porteranno lontano in città... Buona fortuna!”.

Bajram aveva indossato i suoi improbabili abiti all’italiana... aveva incontrato il tassista abusivo che gli aveva chiesto seimila lire... aveva contrattato e con soddisfazione aveva chiuso per quattromila ottocento lire...

Molto soddisfatto! E pieno di fiducia nonostante le scarse residue risorse finanziarie.

Arrivò in città che i negozi erano ancora aperti e le vetrine illuminate... una doccia di luce!... Lo entusiasmavano.

Molti si giravano a guardarlo... certamente ammiravano la sua eleganza ed egli ancor più si dava tono impettito nella sua giacca.

In un bar... lo guardavano... qualcuno sfoderava un ghigno ironico.

“Un AMARO LUCANO, prego!”

“Non ne abbiamo!”

“Un VECCHIA ROMAGNA ETICHETTA NERA!”

“Quello che crea un’atmosfera?”

“Sì, quello!”

“Non ne abbiamo!...”.

La prima cosa che fece, appena fuori del bar, fu di togliersi l’improbabile giacca.

La mise nel saccolo di tela che conteneva i vecchi indumenti della traversata e dalla strada intravvedeva nel bar il gruppo vociante che si sbellicava dalle risate dandosi gran pacche sulle ginocchia.

La serata era calda.

Passeggiò stancamente... infine si sdraiò su una panchina e si addormentò.

Ed era mattino quando un poliziotto lo svegliò punzecchiandolo con un manganello... e lo invitava ad allontanarsi e restava lì fermo a seguirlo con sguardo perplesso.

L’alloggio era un casolare semidiroccato con alcuni materassi pulciosi direttamente sul terreno e senza luce, né acqua... gli sarebbe costato cinquecento lire a giorno, e c’era uno spaccio gestito dal caporale ove era possibile acquistare da mangiare a credito sulla paga.

Il lavoro!

Dieci ore a giorno nei campi a raccogliere pomodori sotto l’occhio vigile del caporale... E delle dieci ore solo sette erano retribuite, le altre due erano per il caporale.

Bajram poté lavorare solo tre giorni, poi fu preso da questa febbre. E il caporale, che prendeva una percentuale anche sulla quantità di prodotto raccolto, non lo volle più nel campo a causa dello scarso rendimento... e anche lo spaccio non gli faceva più credito.

Il vigilante del supermarket:

“Dove credi di andare, tu?... Vié un po’ qua... tu!”.

Oh, quale vergogna!

“Sono uscito senza portafoglio... sarei passato a pagare dopo... Ecco! Ho preso questo”, disse Bajram. E pose nelle mani dell’uomo i due prodotti:

i bocconcini per gatti e i biscotti per cani.

Il vigilante lo fissò bene in viso e non gli venivano più le parole... incerto... il misero bottino sulle palme delle mani aperte... indeciso.

Bajram disse che sarebbe ritornato più tardi e si allontanò... il vigilante restò immobile e, nel vederlo allontanarsi, confusamente pensava:

“In quelle condizioni!... possibile che si preoccupi del cane da sfamare?...”.

E una signora anziana lo incitava a catturarlo:

“Questi pensano che tutto gli sia dovuto... anche per i loro cani!... deve essere albanese... quello lì!”...

Ma nessuno lo inseguiva e Bajram si allontanava con passo reso più sicuro dalla scarica adrenalinica.

Come avesse trascorso quella giornata non lo ricordava. Il suo cervello funzionava solo al presente immediato ché rapidamente dimenticava ogni cosa.

Aveva vagabondato, si era seduto su qualche panchina... forse aveva anche dormito... quando riprese un barlume di coscienza, il sole era ormai al tramonto... un tramonto rosso di sangue.

E pensò:

“I miei monti sono dall’altra parte... se mi allontano con le spalle al sole arriverò al mio paese”.

Ma non voleva presentarsi alla sua gente coperto di stracci, aprì il saccolo di tela grezza e indossò la sua bella giacca a righe rosse con il bavero lucido.

Tutto si confondeva nel suo cervello mentre due ombre confusamente si materializzarono nel silenzio di quel tramonto di fuoco:

Follia!... Morte!

Raccolse tenace le residue forze e si incamminò verso oriente.

Quanto gli ci volle per raggiungere la spiaggia!

Già gli ultimi trasparenti bagliori di fiamma incrinavano l’orizzonte.

Un silenzio sospeso... un passo felpato di silenzio, mentre in cielo ballonzolavano nembi che sull’estremo limitare dell’orizzonte disegnavano una cortina compatta che avanzava e si stemperava nello spazio abbozzando in linee di impalpabili chiarori: la svelta sagoma dei suoi monti... scacchi di laghetti e fiumi azzurri... mentre i grovigli dei nembi assorbivano gli ultimi sprazzi del sole calante.

Al di là della vasta distesa delle acque gli sembrò di veder occhieggiare rade costruzioni, e trame di luci su cucuzzoli fantasiosi... e sui cucuzzoli paesini pittoreschi come presepi osservati dalla vallata dal sonno vigile di animali sospettosi.

L’ansia gli gonfiava il petto e gli mozzava il respiro mentre la notte si apprestava ad inghiottire uomini e cose mentre Bajram avanzava nelle acque.

Nell’incerta luce del dilucolo

Distesi in fila sul bagnasciuga

Coperti da sudari di stracci i corpi inerti

Un carabiniere di guardia

Fuma annoiato una sigaretta

Un refolo di vento solleva un bordo

Scopre la manica di una giacca a righe rosse

Una mano aggricciata come un ramo secco.

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