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Inviata

La giornata era dolce e tiepida. I raggi del sole scaldavano anche l'animo più inquieto e la natura era generosa di forme e di colori. Gli piaceva la primavera. Respirare il profumo della foresta, mentre guardava suo padre che si allontanava sul suo cavallo nero per le battute di caccia, alle prime luci dell'alba. Ogni mattina, prima di avviarsi a cavallo del suo imperioso stallone, suo padre gli raccomandava di proseguire gli studi con devozione e passione. Il fanciullo annuiva svogliatamente. "Dunkan", gli diceva suo padre. "L'arte della spada è importante; non fare lo svogliato e ascolta quello che ti dice la mamma". Le lunghe battute di caccia prendevano tutto il giorno, a volte anche di più. Molte volte Dunkan dormiva già quando il padre rientrava. Sua madre era sempre indaffarata a mantenere la casa e dava disposizioni ai servitori come un vero generale sul campo di battaglia; ma quando gli occhi si posavano sul fanciullo il suo sguardo si addolciva. Per Dunkan, la sua mamma, assomigliava a uno si quei bellissimi angeli del quale aveva sentito parlare su storie e leggende. Ogni volta che ascoltava una di quelle stupende avventure, si perdeva nei meandri della fantasia, immaginando di essere lì, al fianco di eroi sui loro bianchi destrieri, stregoni dall'infinita conoscenza, combattendo contro draghi e feroci nemici.

Quella mattina di mezzestate il suo tutore per l'allenamento con la spada non c'era. Di solito era già lì, nel retro della casa, che lo aspettava seduto sulla panca sotto al portico, fumando la sua strana pipa a forma di martello, bianca come il latte appena munto. Il puzzo del tabacco a volte si sentiva a più di dieci passi di distanza, ma quella mattina l'aria era pervarsa del profumo dei fiori di campo. Ulfghor era una persona stranissima. Non aveva mai visto qualcuno che assomigliasse, neanche lontanamente, a lui. Basso quasi quanto Dunkan, ma robusto e tozzo con grosse braccia e mani enormi. Portava una folta barba nera, sempre curatissima e piena di trecce. I capelli erano raccolti a coda di cavallo e gli occhi scuri come la pece si intravedevano appena sotto le folte soppracciglia. L'unica cosa che risaltava del volto era il naso: grande e a patata, spesso rosso come un peperone, soprattutto quando era di pessimo umore. Era sempre in tenuta da battaglia e portava sempre con se la sua ascia; non la lasciava mai, neanche per mangiare. Ulfghor era un ottimo maestro: serio ma comprensivo, duro ma gentile. Dunkan guardava il cortile vuoto, cercando il suo mentore, ma intravide solo uno degli inservienti che scendeva a fatica le scale della cantina, con un grande catino colmo d'acqua. Il sole era caldo e dalla foresta, la brezza mattutina portava con se odore di pino e rugiada. Chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni. Non c'era nessun posto migliore di casa sua, pensò in quell'istante. Riaprì gli occhi e cominciò a giochicchiare con uno dei tanti calli che si erano formati da quando aveva incominciato a studiare le tecniche di spada. Non riusciva a resistere alla tentazione di stuzzicarli, seppur sapendo che gli avrebbe di certo fatto ancora più male durante l'addestramento. Non gli era ancora concesso di usare una spada vera a causa della sua tenera età, quindi suo padre gli intaglò una spada in legno. La spada era fatta in noce ed era giusta, giusta per lui, nè troppo corta nè troppo lunga. Suo padre aveva inciso la testa di un drago sul pomo dell'elsa e due artigli al posto della guardia. Quando gli fu donata, rimase talmente affascianato da essa che non se ne liberava mai; la portava anche a letto con se.

In quel momento, approfittando dell'assenza di Ulfghor, gli venne una voglia matta di fare un giro per la foresta. Non gli era permesso di gironzolare da solo, specialmente tra gli alberi, ma l'aveva fatto talmente tante volte, che ormai quella foresta la conosceva come le sue tasche. Sfoderò la spada assicurata alla cintola, e cominciò a mimare una battaglia, immaginando di scontrarsi contro un drago dalle scaglie scarlatte. Uscì così dal cancello del giardino e si addentrò tra gli alberi, saltando e menando fendenti a destra a manca. Ora si immaginava un battaglione di purulenti orchi che lo minacciavano con mazze e pesanti lance, ma lui era indomabile e la sua leggendaria spada fece mambassa del nemico. La giornata era stupenda e la foresta profumava come non mai. Presto si sentì stanco, e decise di fermarsi in una radura dove c'era un piccolo laghetto e i resti di quello che una volta, secondo lui, era stato il giardino di qualche principesca villa. Il sole era alto in cielo. Le nuvole facevano capolino tra gli alberi e per un po' si diede a uno dei suoi passatempi preferiti: sdraiarsi sull'erba a pancia in sù e guardare le nuvole, provando a vederci forme e volti. Il tempo passò e, senza accorgersene, si addormentò sull'erba fresca.

Arpì lentamente gli occhi. Aveva una strana sensazione, come se qualcosa di minuto gli stesse camminando sulla pancia. Con gli occhi ancora annebbiati dal sonno, vide una faccetta sporgersi dal suo petto.

"Sto sognando?", pensò ad alta voce, strofinandosi gli occhi.

"Se questo è un sogno, allora è un bel sogno!", rispose una vocina allegra.

Si mise a sedere sull'erba, un po' sopreso nel sentire una risposta del genere, e quella piccola creaturina scivolò dal suo petto fino a terra, presa alla sprovvista dal movimento improvviso del fanciullo. Un grande sbadiglio si disegnò sul suo volto, mentre quell'esserino giaceva scompostamente sull'erba tra le sue gambe. Ora poteva vederla meglio. Era alta poco più di una mela e sembrava una bambina in miniatura. Aveva capelli color della terra e occhi più blu del blu del cielo, la pelle abbronzata color dell'ambra e portava un vestitino fatto di strane piccole foglie argentee. Quello che di più lo sorprese furono le ali che aveva: verdi con sfumature azzurre, piene di nervature come le foglie di un albero, si aprivano dalla schiena.

"Per tutte le lucciole che botta!", eslcamò la creaturina con una nota dolente, rialzandosi da terra e massaggiandosi vistosamente la nuca con la mano destra. La sua voce suonava come mille campanelle d'argento, melodiosa e ipnotica. Dunkan la squadrò curioso.

"Cosa sei tu?", chiese con fare buffo.

"Come, cosa sono?!?", rispose lei stizzita. "Sono una Fata! Voi gambelunghe siete tutti così maleducati?", disse, incorciando le braccia con fare imbronciato. Dunkan era stupito e affascinato. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Era bellissima. Le sue forme erano sinuose, come quelle di una donna adulta, eleganti. Aveva un portamento regale, ma in quel momento sembrava solo una bambina. La curiosità innata della fata, dopo poco, prevalse.

"Sei differente dagli altri gambelunge", disse. "Sei più basso! Sei un Nano?". Dunkan la guardò senza rispondere, con aria interrogativa. Nano?, pensò tra sè e sè. "Non conosci i Nani?", chiese la fata con un tono di voce quasi sarcastico. Dunkan continuava a guardarla con un'espressione ebete dipinta sul volto.

"Sei buffo!", continuò ridacchiando. "Dovresti vedere la tua faccia in questo momento!", e scoppiò in una risata fragorosa, che assomigliava al tintinnio di milioni di bicchieri di cristallo. In quel momento fu come se l'erba si animò e fiori del colore dell'acobaleno nacquero, germogliarono e sbocciarono in un istante intorno a quell'esserino che incuriosiva tanto Dunkan.

  • 1 mese dopo...

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Sono mesi e mesi che non scrivevo sul forum, ma ogni tanto torno a sbirciare :-)

Questo inizio di racconto promette bene davvero. Se vuoi una critica costruttiva (da un profano), fossi in te rivedrei un attimo l'uso degli aggettivi. Ci sono molti superlativi, oltre ad aggettivi ed avverbi "ad effetto" che che tendono a creare stupore (bellissimo, stupendo, sempre, mai...). Potresti evitarne alcuni e lasciare che siano le descrizioni e gli avvenimenti a parlare. Il risultato, credo, sarebbe più naturale.

Se hai scritto il seguito postalo, mi piacerebbe leggerlo.

:bye:

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