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caregadras

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  1. caregadras

    L'ultimo di Bisanzio.

    L’ULTIMO DI BISANZIO. L’alba arrivò come al solito, di soppiatto, calma e rabbiosa come ogni mattina di sole senza incertezze; si fece strada tra le fessure delle imposte sgretolate, rose dai tarli e dalle durezze dei tempi, tastò con luce orgogliosa gli squallidi tavoli da tempo non più protetti da dorature spesse almeno un dito, fuse ora in qualcos’altro lontano da qui, giunse fino al suo giaciglio e ai suoi occhi, ed egli li aprì. La mano sulla spada, lasciando la presa del pugnale in dormiveglia sotto il cuscino, a cercare le vesti e la corazza, sperando che la vista dalla sua finestra fosse migliore, o anche solo diversa. Ma così non era naturalmente; turhi, turchi e turchi, intervallati qua e là da armature che puzzavano di mercenario, di certo infedele, forse addirittura senza Dio; ecco i nuovi barbari. Costantino XI Paleologo nelle sue insegne d’Imperatore d’Oriente, nelle polveri della gloria che fu e delle mura che sono, anche se non per molto ancora, scendeva le scale a fatica, con una spalla perforata, e passeggiava tra le grida di stupri, omicidi e battaglie, che risuonavano di tempi andati che mai più saranno e di gesta e imprese che mai più saranno cantate, la mano sulla spada che fu di Costantino il Grande, e gli occhi su quella luce che indagava, snidava la distruzione nella coltre di nebbia e fuligine che s’alzava dagli incendi, irridente, conciliante quasi, e lo indirizzava verso uno degli ultimi drappelli che si battevano per l’Unico che li aveva abbandonati. Si sorprese addirittura ad esclamare: “Non è rimasto nessuno che mi uccida?”, ma no, si disse, non era rimasto proprio nessuno, comprese specchiandosi nelle pozze porpora della strada che lasciava intravedere la Bella, Santa Sofia, Santa Sapienza, le chiese consiglio senza averne bisogno, e decise allegro. Correva ora, spensierato, piangendo sollevato di ogni peso, la polvere che s’alzava alle sue spalle insanguinate si prendeva mille anni di gloria e li gettava al vento, in alto fino a quel sole che salutava la sua liberazione dall’angustia di essere l’ultimo per l’eternità, di essere legato per sempre alla caduta e all’oblio e così menò fendenti con la mano buona, ridendo piangendo, ebbro e disperato, finalmente libero e uomo, splendente nelle sue insegne e nella lucida follia, mentre sempre più fragorose salivano alle sue orecchie i canti delle liturgie e dell’incoronazione, gli scudi di schiere immense e sfolgoranti risuonare festose e orgogliose, i visi degli imperatori che furono e che ora lo consolavano con uno sguardo di sospirante comprensione, concilianti e amichevoli come nei suoi sogni non furono mai, e con l’ultimo respiro, ignorando il moro che lo colpiva alle schiena, seppe: che senso avesse avuto tutto questo, vivere, battersi per la gloria degli avi e di un Dio meschino indifferente e lontano, e morirne. E videro i suoi stivali, ma non lo riconobbero.
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  2. "L'arte" di Bredunlago, Signore della Gilda dei Giullari. tratta da il sepolcro e la staffa - cap. la capanna sulla collina. L'Arte nasce e vuole la vita, l'Arte dei cieli, la meta infinita. L'Arte che cerca, si odia, si ama, l'Arte che non vuol se non ciò che brama. L'Arte ima, silente, sacrale, l'Arte d'Angeli viventi nel Male. L'Arte combatte, furente, mai è vinta, l'Arte della Gloria, d'Alloro cinta. L'Arte sovrana, divina e minuta, l'Arte che irride, mai giace muta. L'Arte che lumi abbraccia nell'argento, l'Arte sorella degli uomini e il Tempo. un saluto a toute le monde! Francesco Caputo.
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