Non si era ancora nemmeno avvicinato al cancello, e già John si sentiva teso, nervoso, angosciato addirittura. Erano ormai ventidue anni che nessuno entrava più lì, John si era sempre stupito che quel posto non fosse pieno di vagabondi, ma ora forse cominciava a capire perché, visto lo stato in cui versava quel luogo che un tempo aveva offerto risate e divertimenti a migliaia di persone.
Il vecchio lunapark di Dunwich era stato un'attrazione importante per più di mezzo secolo, era insolitamente grande per una città così piccola, ed era legato a un circo che sei mesi all'anno si univa nell'area adiacente, aggiungendo le proprie attrazioni a quelle del posto.
Il tutto fino a ventidue anni prima, al tempo del “Macellaio”.
John se lo ricordava, anche se allora era stato ancora solo un bambino. Un paio di ragazzini e tre adulti erano stati trovati fatti a pezzi nel castello dei fantasmi e nel tunnel dell'amore, il colpevole non si era mai trovato e la cosa, unita alla quantità di leggende del posto, aveva gettato una luce maledetta sull'intero complesso. In realtà ci era voluto fin troppo poco perché qualcuno cominciasse a tirare in mezzo il soprannaturale e sussurrare di spettri e mostri che infestavano il luna park, ma per una ragione o per l'altra il posto cominciò a perdere visitatori. Anche troppo in fretta, a dire il vero, visto che già la settimana successiva, quando era stato completamente riaperto al pubblico, non c'era andato quasi nessuno.
Il sesto cadavere trovato sulla ruota panoramica non poteva certo aiutare gli affari, e infatti nessuno osò più mettere piede in quel posto finché non fosse stato trovato il colpevole.
Dopo oltre due decenni, non era stato trovato proprio nessuno e questo era lo stato in cui si presentava il luna park adesso. Sembrò quasi che il posto volesse vendicarsi di quell'abbandono tenendo sbarrate le porte, infatti John ci mise un bel po' per entrare, il cancello era ormai arrugginito e distorto, lui dovette scavalcare per poter fare il suo ingresso, e una volta dentro se ne pentì.
Il vento gli ululava nelle orecchie, e quel grido solitario diventava un mugugno innaturale quando l'aria passava attraverso chissà quali spazi ristretti, feritoie e rottami. Appena entrato, sulla destra, una scritta “Unpredictable fortune” ormai consumata dalle piogge di due decenni e un vetro in condizioni pietose indicavano il gabbiotto dell'indovino, un pupazzo col volto dipinto di nero, bianco e giallo, mezzo dollaro per un foglietto con scritto il proprio futuro.
Quasi come se volesse esorcizzare la sua paura, John ghignò e infilò mezzo dollaro nella fessura delle monete. Ovviamente non successe nulla, né lui si era aspettato il miracolo.
“Beh, non è stato il mezzo dollaro peggio speso della mia vita, in fondo”, pensò tra sé.
John ricominciò a camminare fra le attrazioni ormai decadenti, con circospezione e timore: dopotutto stava inseguendo un assassino, non era lì in visita di piacere! Estrasse la beretta e avanzò, ripensando agli ultimi due mesi per far crescere la rabbia e la determinazione.
Quella notte di gennaio era rientrato a casa da un viaggio a Helsinki e aveva trovato solo rovina: molti mobili erano stati fracassati o ribaltati, televisore al plasma, pc, stereo, persino due lavandini erano stati distrutti. Nella stanza da letto invece aveva trovato Emily, nuda, aperta in due da una lama, e la vita di John era probabilmente finita in quel momento. Poi qualcosa era saltato fuori dal ripostiglio, una grossa ombra che quasi l'aveva investito e che era corsa verso la porta. John l'aveva visto bene, il bastardo, mentre fuggiva, aveva visto la cappa rossa e la spada, erano oggetti troppo strani per non vederli e non ricordarli.
Il medico legale aveva detto che non c'era stata violenza carnale su sua moglie, ma lui l'aveva a malapena sentito parlare. L'identikit fornito alla polizia non era servito a nulla, e lui si era messo a cercarlo per conto suo, anche con mezzi poco leciti. Un piccolo spacciatore (da cui, a dire il vero, lui stesso ormai si riforniva regolarmente) gli confidò che un tipo che corrispondeva a quella descrizione era da poco apparso in città, lui l'aveva visto un paio di volte che correva in strada tra le ombre delle macchine e dei palazzi, una volta gli aveva persino chiesto una dose, anche se l'aveva fatto coprendosi il volto con un passamontagna e una sciarpa, e aveva parlato con una voce stranissima, sicuramente contraffatta.
Sam se l'era fatta sotto, gli aveva dato la roba e se n'era andato continuando a guardarsi indietro. Poi l'aveva visto entrare nel luna park, e a quel punto Sam si era messo proprio a correre. Il giorno dopo aveva cominciato a spacciare in un'altra zona.
Quella sera, l'ultima di tante, John era tornato nei pressi del luna park, armato come sempre, e finalmente l'aveva visto rientrare scavalcando un muro. Ovviamente aveva detto alla polizia di cercarlo lì, ma non avevano trovato nulla e nessuno. John allora aveva deciso di fare da solo.
Il giustiziere della notte tornò alla realtà proprio mentre passava vicino alla ruota panoramica: dopo ventidue anni c'erano ancora i sigilli strappati della polizia e le macchie di sangue che la pioggia non era riuscita a cancellare. Gli sembrò di scorgere un movimento con la coda dell'occhio, ma non vide niente quando si girò.
Le nubi si addensavano in cielo come facevano nella sua testa, un lungo tuono risuonò in lontananza e gli segnalò l'arrivo di un temporale coi fiocchi. John strinse salda la sua beretta e continuò a cercare quel maledetto assassino, era disposto a tutto pur di trovarlo, aveva già perso tutto per quell'ossessione.
All'improvviso la ruota entrò in funzione. John lanciò un grido per lo spavento e non si chiese nemmeno come potesse essere possibile, rimase un po' a guardarla e poi ricominciò la caccia, i sensi tutti all'opera, il corpo pronto a scattare, la Forza scorreva in lui, novello Charles Bronson di Dunwich.
I comandi della ruota erano deserti, comunque, e nessuno poteva essersi avvicinato. Forse c'erano altri comandi da qualche altra parte, pensò, magari sotto terra. Rincuorato da quel pensiero, John passò alla prossima attrattiva: il tiro al bersaglio.
C'erano ancora i piatti di ceramica appesi, pupazzi che anni prima sarebbero stati dei premi e palle da tennis ormai marce. Ne prese una e la lanciò: piatto piccolo, dieci punti. John sperò di fare centro anche con la pallottola nella testa di quel bastardo assassino.
Un telefono squillò lì dentro, John fece un altro salto mentre cercava di capire da dove provenisse il suono. Dentro il capannone, nascosto da una tenda, trovò un vecchio telefono grigio e impolverato, stile anni '60. Sì sentiva come dentro a un film horror, quando il pubblico grida “Scappa! Che aspetti?”. Aveva sempre giudicato stupida l'ostinazione dei protagonisti di quei film, che andavano avanti anche al buio in braccio alle peggiori mostruosità, e adesso si sentiva altrettanto stupido nel prendere la cornetta invece di scappare e continuare la caccia – o abbandonarla.
“Ciaaaaao Joooohn!” La voce dall'altra parte era stridula e soffocata, il sangue gli si gelò nelle vene. “Mi stai cercando? Vedremo se riuscirai a trovarmi. Nemmeno mi nascondo, sai? Ti aspetto. Nutrirai la pioggia col tuo sangue.”
Aveva riattaccato, così riattaccò anche lui, in preda a uno strano terrore macchiato però dall'onnipresente rabbia. Si chiese cosa avesse voluto dire, e non gli piacquero per niente le gocce di pioggia che proprio in quel momento avevano cominciato a battere sulla tettoia arrugginita. Il rumore martellante diventò ben presto insopportabile, John schizzò fuori sbattendo contro la porta e rimbalzando come la pallina di un flipper nello stretto passaggio tra i baracconi.
La pioggia prese a picchiettargli sulla testa, ormai non sapeva più se essere angosciato, terrorizzato o furioso. Forse un misto delle tre cose, pensò, ma non avrebbe mollato comunque.
Il castello dei fantasmi fu la vista che più gli diede i brividi e lo convinse quasi a lasciar perdere. Era un castello alto dieci metri, si entrava dal portone principale e si usciva dal retro, dentro era un continuo di luci lampeggianti e fioche, suoni paurosi e pupazzi animati. Ora, alcuni pupazzi delle altre giostre penzolavano impiccati e infranti dalle torri, messi lì da chissà chi e chissà da quanto tempo. La scritta “Ghost Castle” che incombeva dall'alto era stata in parte distrutta e riscritta con le bombolette spray, e indicava ora il “Death Castle”. Considerato il ritrovamento dei due ragazzini e dell'adulto di vent'anni prima, non era poi così fuori luogo, o forse era stato fatto apposta da qualche mente malata.
Malgrado la pioggia e i tuoni, John riuscì a sentire il cigolio di una porta poco distante, forse quella del retro. Decise di fare il giro e andare a vedere, ma vide che qualche carrozzone era stato ribaltato per ostruire il passaggio da ogni parte.
Evidentemente doveva entrare, per continuare.
L'interno era umido, buio, maleodorante. John agitò freneticamente la torcia da una parte all'altra cercando di orientarsi, la pistola puntata perennemente vicino alla fonte di luce, la tensione che lentamente si tramutava in calma determinazione.
Una violenta risata maniacale echeggiò nel castello, una voce che non poteva appartenere a un essere umano. John tremò e si sentì gelare, il sudore gli imperlò la fronte mentre le gambe si rifiutavano di fare un solo passo. All'improvviso le luci si accesero, gli animatroni tornarono in funzione e lui rifiutò di chiedersi il perché, era tutto troppo strano. Quella luce però lo rendeva meno nervoso e lo spinse ad avanzare, seguendo un passaggio dentro una specie di cilindro bianco e nero che ruotava come una spirale, pochi metri sufficienti a dargli il mal di testa.
Appena superato il passaggio, sulla destra un machinino abbigliato da Mr Hyde cominciò a prendere a bastonate un altro pupazzo in “abiti civili”, mentre le luci si spegnevano man mano che lui avanzava e Hyde cominciava a ridere come un matto.
John non si era mai sentito un eroe, era solo un uomo distrutto e vendicativo a cui interessava soltanto massacrare l'uomo che gli aveva portato via Emily. Non era un eroe, quel posto lo terrorizzava.
Salì delle scale che portavano a un corridoio con una decina di porte, una larga scia di sangue percorreva i gradini e si divideva finendo dietro a tre entrate. Una delle altre porte si aprì di scatto e un pupazzo di stoffa dalle sembianze di un pagliaccio maligno venne praticamente “sparato” contro il muro. John saltò per l'orrore e lasciò partire un colpo che finì nella parete laterale mentre il braccio meccanico riportava clown e porta allo stato originale.
Capito il messaggio, John attese che il cuore si calmasse prima di riprendere ad avanzare con estrema attenzione. Nel tragitto si aprirono altre due porte, ognuna con la sua dose di spavento che però lui affrontò a testa alta, e arrivò in fretta alla fine del corridoio maledetto. Tuttavia fu fortunato, perché il baraccone in rovina aveva perso un paio di pannelli laterali oltre la barricata, e lui poteva uscire senza doversi fare tutto il castello. A quel punto, John era più che felice di tornare sotto la pioggia.
“Braaaavo!” sibilò una voce dall'alto appena prima che uscisse, rimettendolo sulla difensiva. “Oh, non andare via! Ci sei quasi, va dove il cuore desidera, se hai il coraggio!”
John pensò di sapere cosa significasse, il killer gli stava facendo fare il giro delle attrazioni in cui erano stati trovati i corpi vent'anni prima, “dove il cuore desidera” non poteva che essere il tunnel dell'amore.
Era proprio lì in fondo, oltre la giostra dei bambini e prima delle montagne russe che passavano sopra a un'intera sezione del luna park.
Il tragitto non era lungo, ma a lui parve infinito mentre lo percorreva, un passo dopo l'altro, sotto la pioggia battente e con l'odore della polvere chiusa da anni che gli ottenebrava i pensieri. Gli sembrò che la beretta si agitasse nelle sue mani, come se il proiettile fosse ansioso di scrutare il cervello di quell'assassino. John sentì qualcosa e si girò di lato, e in lontananza lo vide.
Era fermo, in piedi sotto la pioggia, avvolto nella sua cappa rossa, ma senza spada. Era distante e John non poteva essere sicuro che l'uomo stesse ridendo come a lui pareva, anche se avrebbe giurato che quello era un ghigno divertito, cosa che lo fece ancora più imbestialire. Gli puntò subito la pistola contro, e notò che, con rapidità, anche il suo odiato avversario gli aveva restituito il favore.
“Così mi hai trovato, John?” gridò da lontano. “O sono io che ho trovato te!”
John non rispose, si limitò ad avanzare chiedendosi che importanza avesse chi aveva trovato l'altro, dato che ormai erano lì, faccia a faccia. Anche l'uomo sì avvicinò, entrambi mantenevano occhi e canna della pistola fissi sull'altro.
“Io ti ammazzo...” ringhiò John quando pensò che la distanza fosse ridotta a sufficienza da impedire che la pioggia coprisse le sue parole.
“Ci puoi provare, John!”
A lui sembrò che lo prendesse in giro, ogni volta che pronunciava il suo nome lo forzava, come se intendesse schernirlo, come se volesse metterlo tra virgolette. John non lo sopportava. Gli puntò l'arma alla fronte e cominciò a contrarre il dito, ma poi si fermò. L'assassino rideva.
Lui lo guardò confuso per qualche istante, aveva qualcosa di troppo familiare, non riusciva a capire cosa stesse succedendo.
“Finalmente hai capito, John”, disse l'assassino, ancora forzando il suo nome. “Oh, a proposito: benvenuto!”
Quell'ultima parola e il tono con cui era stata pronunciata lo fecero definitivamente impazzire. O forse rinsavire. Davanti a quello specchio impolverato, subito fuori dal labirinto di cristallo, John cominciò a ridere follemente in preda all’isteria e ad agitare la pistola, finché non la puntò di nuovo contro la testa dell'assassino con un'agghiacciante serietà e lo vide fare altrettanto.
Lontano, all'entrata del luna park, risuonò il boato dello sparo e sembrò solo un altro tuono, uno tra tanti, un rumore senza identità come l'uomo che l'aveva provocato, chiunque dei due fosse.
Il gabbiotto dell'indovino si illuminò per qualche istante, le luci si accesero e la testa del manichino si sollevò con la sua espressione vuota e solenne. Il biglietto uscì dalla fessura con un messaggio semplice che la pioggia cominciò subito a distruggere, dopodiché le luci si spensero, la testa ricadde in avanti e lì, nel vecchio luna park, non si udì più niente. Rimase solo un foglietto di carta con la scritta “Mors Mortis”.