In linea più generale, ritengo che molto dipenda da registro dello scritto. Un romanzo d'avventura in un mondo verosimile deve in qualche modo conservare una coerenza adeguata a non interrompere la sospensione della realtà nel lettore.
Tanto più il mondo è verosimile, tanto più la sospensione della realtà diventa profonda. Il "problema" è che la cultura media del pubblico "lettore" è generalmente aumentata, quantomeno in termini di diffusione dell'informazione.
Ad esempio, se fino a metà secolo la fisica di frontiera era un argomento magico e sconosciuto, quindi con radiazioni nucleari e/o raggi cosmici, si poteva giustificare qualsiasi cosa in ambito fantascientifico, oggi serve sapere di cosa si parla quando si toccano certi argomenti. Idem per un libro fantasy o storico: i clichèe vanno spesso arricchiti al punto che qualsiasi informazione palesemente approssimativa rischia di essere uno scivolone per almeno una parte erudita dei lettori.
Nonostante tutto questo, rimane la domanda di fondo: quanto ho bisogno di approfondire un argomento? Quanto è funzionale alla storia, alla trama, all'avventura?
Credo che per definire di volta in volta questo indice si debbano tenere presente una serie di domande:
1) Quante volte parlerò dell'argomento e quanto approfonditamente
2) Quanto l'assenza di dettagli toglie alla storia
3) Dei potenziali lettori, visto il genere del romanzo e il target che mi sono prefissato, che percentuale ha una cultura maggiore della mia sull'argomento? (Ad esempio, riguardo alla storia della Russia tra il IX e il X!!! secolo, per dire...)
4) Un'imprecisione sarebbe giustificabile come espediente narrativo o sarebbe una palese evidenza di ignoranza da parte dell'autore?
Ci potrebbero essere altre questioni che non vedo ma credo che le decisioni debbano essere prese di volta in volta.
Riguardo al purismo, farò un esempio: Tolkien ha fatto poco più che impastare una serie di mitologie, rimpiazzando di sana pianta quel che non gli andava a genio. Per molti versi un purista della mitologia norrena, ad esempio, potrebbe scoprire inorridito come alcuni degli infidi e reietti dvergar siano diventati amabili e simpatici compagni di viaggio del povero Bilbo (Tolkien non si è inventato TUTTI i nomi di TUTTI i nani de "Lo Hobbit"). Questo pastone senza criterio, oltrechè giustificato dal secolo di letteratura ormai passato, non è però niente di strano se si considera il tutto come un espediente narrativo.
Differente sarebbe se ad oggi qualcuno volesse approfondire i temi trattati da Asimov nel ciclo dei Robot. Scrivere un romanzo credibile sulle AI al giorno d'oggi richiede uno studio approfondito, intelligente e sagace sull'argomento, che renda la parte fanta credibile più o meno quanto la parte scienza.
O almeno che faccia andare le due cose assieme, senza evidenti cuciture.
Per un esempio di documentazione a mio avviso perfetta cito "Il quinto giorno" di Franz Schatzing oppure "Nel bianco" di Ken Follet.
Per fare un esempio di un caso letterario basato sulle imprecisioni documentali e sull'espediente narrativo della "coerenza interna", mi duole dover premiare "Il codice Da Vinci".
Augh e buona strada.