Dopo molte critiche e commenti in generale apro questa discussione per, appunto, discutere del mio racconto tirato su velocemente...
Il nome del mentore
Come ogni mattino Silumin era costretto, molto assonnato, ad alzarsi dal letto di paglia della sua piccola casa in campagna. I suoi lunghi capelli corvini sparsi sul cuscino di piuma quasi non volevano saperne di staccarsi da questo, mentre i suoi occhi, verdi, chiari e avventurosi impiegarono poco a mettere a fuoco la nuova giornata che gli si presentava davanti perché volevano affrontarla. Sapeva bene che ora come non mai doveva impegnarsi nello studio con il suo mentore. Dopo la Guerra, avvenuta poco più di due anni fa, occorrevano braccia e gambe per contrastare il prossimo ed inevitabile attacco. Il ragazzo sedicenne aveva scelto di seguire la via del mago guerriero; la via più aspra che un giovane potesse seguire, perché impiegava il corpo e la mente in un’armonia non adatta ai più. I genitori e i tre fratelli più grandi, lavoravano incessantemente in campagna per permettersi il pagamento dei suoi studi. Silumin naturalmente era consapevole del sacrificio che i suoi famigliari facevano per lui; infatti li ripagava con il suo impegno negli studi, nella sua educazione e disponibilità. Il ragazzo fu scelto perché da piccolo, racconta la madre, mentre lei attingeva l’acqua dal pozzo vicino casa, Silumin creò una bolla, poi un’altra e un’altra ancora che salendo dal buio a ricoprì il cielo di trasparenti riflessi di luce.
Silumin avvertì una leggera pressione sul fianco, e infatti sua madre, Misha, lo stava dolcemente incitando per farlo alzare ma con così tanta premura e leggerezza che Silumin non ne avvertì quasi il contatto.
Si vestì in fretta con la solita casacca da allenamento, che scivolava con tranquillità lungo il robusto corpo formatosi con l’aratro, nei momenti precedenti all’addestramento. Uscì dalla porta di legno che lo separava dallo stretto corridoio, ma sua madre lo blocco; uscendo dalla cucina
«Ti stai dimenticando il pranzo Silumin!», la donna, una bella e alta signora dalla voce cortese ma dal carattere forte, gli diede un piccolo sacchetto di tela al cui interno vi erano alcune pesche e albicocche, le primizie di quella che si preannunciava una calda ed afosa estate. Lui guardandola sorrise e le disse:
« Grazie, non so come farei senza di te». Uscito di casa una brezza calda lo abbracciò e lui si sentì invaso di pace e dalla serenità, «Davvero una bella giornata!» disse divertito al vento. Durante il camino addento una succosa pesca rossastra che lo sfamò durante il percorso erboso che portava da casa sua ai piedi del monte Mutragh, ricco di stravaganti fiori e altissime querce secolari, le quali con violenza affondavano le loro radici nel terreno e ne risucchiavano tutto quello che potevano.
Come sempre Silumin veniva accompagnato da un cavallo bianco, Iod, che il maestro evocava per lui vicino ad una quercia accasciata inerme al suolo, dopo l’entrata nel bosco.
L’animale attese pazientemente l’arrivo del giovane, affinché lo conducesse nel luogo stabilito dal suo maestro, ogni mattino diverso, per farlo sentire il più possibile a disagio ma a contatto con la natura, questo faceva parte del suo addestramento. Dopo un breve viaggio, il cavallo si fermò di fronte al mastodontico tronco tagliato di una quercia di cui non si riuscivano a contare gli innumerevoli anni, composti da un intrico circolare di lineamenti marroncini; ma il suo sguardo si fermò in un punto preciso: un fungo dal lungo stelo candido, con il cappello color indaco, cresciuto su quel tronco. Gli venne una strana voglia di addentarlo, anche se sapeva che poteva essere pericoloso.
“Cosa mi sta accadendo io non devo mangiarlo, potrei incorrere in un bel guaio! Ma io ne ho voglia… infondo è solo un morso no? Che cosa mi potrebbe mai capitare?”
Non pensando oltre tese la mano verso il cappello indaco del fungo deciso a strapparlo e masticarlo, si sentiva strano e… primitivo.
“Un piccolo morso… poi non lo assaggio più, solo per sapere di che sa… Infondo potrebbe non essere pericoloso…”. Il suo mentore, apparso da non si sa dove, gli strinse vigorosamente la mano tesa verso il vegetale « Quello è un fungo malefico!» esordì «Emana spore che, attraverso impulsi nervosi al cervello, hanno la capacità di spingere l’essere, dotato di tale organo, a mangiarlo», dicendo questo pronunciò alcune parole un una lingua magica che a lui ancora non era concesso conoscere, ed una sorta di involucro trasparente si disegnò attorno al pericoloso vegetale. Sentì la fame svanire e allora il maestro gli lascio la mano, che si accostò lentamente alla coscia. Il saggio mago, un uomo bruno, alto e muscoloso, dai modi burberi, continuò il discorso: «Dopo essere mangiato, il veleno uccide l’essere che lo ha morso, ma il fungo lascerà spore che all’interno dell’organismo cresceranno diventando altri innumerevoli funghi e il povero malcapitato diventerà il succube di tale fungo, infatti questo vegetale tramite impulsi nervosi al cervello, a patto che pero questo sia ancora intatto, spingerà l’assoggettato ad uccidere, per nutrire il fungo, di organismi viventi da infettare».
“Cosa stavo per fare… che sciocco che sono stato!”
Nella sua mente il giovane commentò lo scempio che poteva accadergli se solo lo avesse morso. Il suo tutore sapeva molte cose e Silumin pendeva dalle sue labbra nelle spiegazioni, assorbiva tutto quello che diceva e lo custodiva al sicuro nella sua mente. Dopo la spiegazione, il giovane adepto, non sapeva perché il suo maestro lo avesse condotto in quel luogo ma si sedette al fianco del maestro che nel frattempo si era accomodato su una roccia a pochi piedi di distanza dal fungo indaco
«Dovrai resistere agli impulsi del fungo per un lasso di tempo tale che esso si rinsecchisca ed esploda. Se supererai la prova, ti dirò il mio nome.»
Silumin rimase a bocca aperta, trattenne l’esultanza di quel fantastico e doloroso momento, perché sapere il nome del proprio mentore voleva dire che esso ti avrebbe portato in giro per il mondo insegnandoti i suoi segreti, le sue magie, le sue formule, tutto; ma voleva pure dire lasciare la propria famiglia, amici e nemici per compiere una vita di studio, guerre, inganni ed incantesimi. Il nome di battesimo veniva abbandonato durante un rito magico, che si tramanda da mentore ad allievo, e non veniva mai pronunciato perché la magia della notte poteva produrre formule di morte sul nome e con ripercussioni sulla persona.
Estasiato, Silumin non sapeva cosa dire ma alla fine, con la gola secca dallo stupore, e dal misto di emozioni, riuscì solo a dire: «Accetto, maestro», perché sapeva che questa era la formula rituale per acconsentire a decisioni facoltative «Bene, io ora mi assenterò, quindi al mio ritorno o sarai morto o ti verrà concesso di seguirmi».
Detto questo sciolse l’incantesimo che avvolgeva il vegetale e, se ne andò cavalcando il candido Iod che poco prima aveva accompagnato Silumin in uno dei giorni più importanti della sua vita.
Il maestro, naturalmente, non si allontanò dal luogo dove il suo sottoposto stava per compiere una delle sue più pericolose prove, ma si era reso invisibile. La prova consisteva nel constatare la volontà, una prova importantissima sia per un mago che per un guerriero. In quel modo si sarebbe visto se il giovane aveva le effettive capacità di compiere l’ addestramento da mago guerriero. Con Silumin lui aveva passato poco più di un anno insegnandogli tutto il necessario sulla base della magia, alchimia, geografia e storia. “Persino nelle corti, spesso, figli di nobili, giunti a due anni di apprendistato, non posseggono ancora le capacità necessarie per apprendere la magia”, con questo suo pensiero non voleva sminuire la classe nobiliare quanto elevare quella agricola. Sapeva per certo che Silumin era dotato, era una vera e propria fortuna essere diventato suo tutore, perché per un mago guerriero la cosa più importante dopo la morte del maestro, e il completamento degli studi era di trovare un allievo dotato.
Il maestro guardo per la prima volta dolcemente il suo allievo battersi contro se stesso.
Spore violacee volteggiavano mortali nell’aria.
Contemplò quel simbionte, ma subito la testa iniziò a sfarfallare, allora decise di chiudere gli occhi in meditazione. Passò poco e strani pensieri gli affiorarono la mente: lui che mangiava il fungo e diventava potentissimo, un mago, con poteri illimitati, molteplici capacità, di fronte a cui il mondo intero si sarebbe inchinato. Il desiderio era malevolo ma colmo di un senso di potere e spinto da questo tremendo desiderio si alzò dal masso, ma poi ritornato per un attimo in se, saltò all’indietro, come se fosse stato una scatto involontario del corpo e ricadde seduto sul masso che sembrava non avere consistenza. “ “Devo stare calmo e rilassato… Mi concentrerò sulle forme di vita intorno a me escluso questo maledettissimo fungo!” Sfiorò con la sua percezione quello che doveva essere un topolino spaventato da un gatto selvatico poco più in la del roditore, una quercia, due tre un gruppo di funghi, ma dopo la sua mente trovò il suo odiato fungo.
Allora capì che doveva combattere, la sua prima battaglia, e comunque una tra le più importanti. Combatté contro se stesso e gli impulsi del fungo, in un tumulto di pensieri, negativizzando il positivismo del fungo, se gli dava potere lui non lo voleva, se gli dava forza non la voleva. Si immaginò diventare un orrendo mostro che mangia animali selvaggi e persone, in cerca di nulla e nessuno. Sentendosi meglio, spiritualmente ma con un orrendo mal di testa, si rilassò. Seduto sulla pietra sciolse le spalle, si rasserenò, distese le gambe e riaprì gli occhi serrati. Vide una strana forma giallognola dove poco prima c’era il fungo indaco. Non sapeva quanto tempo era passato, quanto avesse trascorso a lottare contro un fungo, ma tutto una nuvoletta colorata si sviluppò dal fungo che esplose in una miriade di colori. I colori di quel fingo segnavano una fine ed un nuovo inizio.
«Congratulazioni, ora potrò rivelarti il mio nome». Come era comparso, nuovamente riapparse, dal nulla e le sue parole erano finalmente dolci, rotte dall’emozione. Tutto era in silenzio; il vento aveva smesso di portare brezze calde, gli uccelli smisero il loro assordante cinguettio , l’erba immobile. «Tarich». Parola dall’immenso potere, densa di un chissà quale significato. In quell’attimo gli elementi si sono placati, il mondo ha smesso di girare, La vita e la morte si sono smesse di rincorrere, “Tarich”, un nome carico di magia.
Ringrazio tutti quelli che hanno avuto la voglia, (e il tempo, che in questi giorni a me personalmente manca) di leggerlo. Sono benvenute critiche costruttive e commenti...
P.S. il racconto portebbe continuare