Buongiorno a tutti.
Posto qui il frutto del lavoro di collaborazione con Raemar e Demiurgo, ai cui lavori rimando con un link: Raemar= http://www.dragonslair.it/forum/showpost.php?p=544841&postcount=20
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Introduzione (ad opera di Raemar):
La pioggia pesante rendeva la strada difficilmente praticabile, come non fosse bastato il peso trasportato ad affaticare la mia andatura. Eppure, non potevo non considerare la pienezza di quella situazione. L’autunno, i suoi venti, i suoi odori, i suoi differenti umori, il sole pallido, la pioggia fine, le diverse gradazioni di bagnato. Mentre mi dirigevo verso la locanda, i capelli appiccicati fastidiosamente alla fronte fino a oscurarmi in parte la visuale, mi era impossibile non percepire l'odore dell'erba fradicia, del fango solcato dalle ruote di un carro, del fumo delle abitazioni che portava in strada diversi sapori. Il rumore dell'acqua contro la pietra e la terra, il pestare di piedi incerti al margine della strada, il vociare soffuso oltre le porte chiuse. Perfino la quasi invisibile nuvola di vapore che si formava di fronte alla mia bocca a ogni respiro affannato era motivo di immensa gioia per il cuore. Quando giunsi di fronte all'ingresso della Pietra miliare, trassi un respiro più profondo e lo sputai fuori con tutta la poca forza che mi era rimasta dalla sera precedente. Entrai e per un momento il mondo si fermò. Mentre chiunque fosse nella sala mi osservava incerto, lasciai scivolare il corpo dalle spalle al tavolo libero più vicino in un unico movimento che sapevo il mio corpo non avrebbe sopportato. Stremato, caddi a terra. E la stanza, improvvisamente, si rianimò, divenendo contemporaneamente buia.
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Sogno (ciò che ho scritto io prendendo spunto dalla parte di Raemar)
La prima cosa che vidi furono le nuvole, che in pesanti nembi affollavano il cielo; la prima cosa che sentii fu il lento picchiettare della pioggia sul mio volto e lo strascichio dei piedi di Marco sul terreno fangoso. Non avevo cognizione del tempo che era passato e non mi interessava, esattamente come non potevo sapere quanta strada ci separasse dal villaggio. La sera prima era stata un inferno, una di quelle giornate da cancellare e dimenticare, da rinchiudere nella memoria per sempre. Marco, inerpicandosi a fatica lungo gli erti sentieri della boscaglia, taceva, assorto in pensieri non dissimili dai miei. Provai una prima volta a parlare, ma il profondo taglio che mi aveva squarciato il labbro superiore mi impedì di articolare qualcosa di più di un fioco spirare sibilante. Marco si fermò, per pochi secondi smise di trascinarmi. Dopo aver preso le mie braccia, abbandonate lungo le sue spalle, e avermi appoggiato a terra, mi pulì i capelli dal fango, mi guardò. I suoi occhi azzurri incontrarono il marrone dei miei. Il suo volto appariva stanco, provato. Non so come apparisse il mio, ma potei leggerlo nella triste espressione che Marco assunse. Quando, piangente, parlai, fu il labiale a permettere la comprensione di quanto dicevo.
Marco seguì per un poco, mise una mano davanti alla mia bocca e invitò con l'altra a non parlare. Capii e tacqui. Riprendemmo il viaggio e ripresi ad ascoltare la pioggia, parte di un mondo che mi appariva solo ostile, che non poteva apparirmi in modo diverso dopo tutto quello che era successo.
Fu la costante ritmica del nostro incedere a conciliarmi il sonno. Chiusi gli occhi e mi assopii. Ho vaga memoria delle prime immagini, delle prime sfocate figurazioni oniriche. I dolori impressi nella mia mente immediatamente ri-apparvero e il tenue bagliore del focolare acceso nel camino tornò a brillare nel salotto di casa mia.
Nei colori della mia immaginazione ogni cosa apparve più scura di quanto fosse in realtà: i vestiti di mia madre, pesanti e lanosi, il volto di mio padre, su cui i bagliori della fiamma disegnavano macchie quasi pittoriche, e le mie stessi mani, che osservavo e sfioravo accostandole, intorpidite dal freddo, al caldo focolare. Era strano sapere quello che di lì a poco sarebbe successo, come era strano sentirsi a un contempo spettatrice ed attrice. La porta si spalancò e, mentre mi preparavo a sopportare una seconda volta quelle sofferenze, voltai curiosa il volto. Quando lo vidi muovere quei pochi passi all'interno del locale sapevo già quali movimenti avrebbe fatto, eppure, come se non lo sapessi, feci quegli stessi gesti che sapevo di avere già fatto: in preda ad un terrore cieco urlai, mi accostai al muro e attesi.
Lui pose fine in pochi secondi alla vita dei miei, con due rapidi movimenti dell'indice sul grilleto di quel rozzo fucile; mentre parte di me soffermava gli occhi sui corpi privi di vita dei miei genitori, parte urlava, violentata.
So per certo che quel particolare momento del sogno fu solo un miscuglio di suoni: lo scoppiettio del fuoco; lo sbattere ritmato del mio corpo sul pavimento, costretta a quei movimenti dalla forza del carnefice; la voce di qualcuno che mi chiamava e che voleva strapparmi a quello spettacolo, dove ora un coltello mi squarciava le carni, vile gesto di sprezzo; la porta che si apriva sbattendo; il colpo di un secondo fucile; il peso di quello che ora era solo un morto, ancora congiunto alle mie povere carni.
Mi svegliai. Anna mi osservava, porgendomi una scodella di minestra. La porta si spalancò, chiusi gli occhi e sospirai...