Allora, ieri sera ho scritto di nuovo.
Il problema è che ho provato a fare qualcosa di simil-autobiografico.
e come sempre spesso ci si lascia un pò andare non facendo troppo caso alla lingua italiana.
Anche a mente fredda faccio fatica ad aggiustarlo quindi magari vi chiedo un aiutino. ecco qui
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*Un, due, tre, quattro…
Quattrocentonovantanove e cinquecento*
La corda lasciata andare cadde a terra.
Le mani si appoggiarono sulle ginocchia, il corpo piegato in avanti faceva gocciolare il sudore sul pavimento.
Ansimava per la fatica, nell’aria gelida il fiato si addensava in pesanti nuvole
Il freddo invernale pungeva il torso lasciato scoperto; sembrava non sentirlo.
Gli occhi fissavano il vuoto. Uno sguardo esterno l’avrebbe erroneamente chiamata concentrazione.
Ma non lo era, era come un moto di inerzia. Un faticare per andare avanti senza pensare. Per evitare di pensare.
La mano sinistra iniziò a massaggiare il ginocchio proprio in mezzo e tre piccole e geometriche cicatrici
“cazzò.”
Si mise dritto, prese una maglia e la indossò di fretta.
La mano destra afferrò il pallone tenendolo tutto nel palmo sforzando i muscoli dell’avambraccio per il movimento
Uscì dal cancello e in tutta calma si incamminò verso un parchetto lì vicino.
Si avvicinò al canestro. Passandoci di fianco lanciò alla base un mazzo di chiavi
Si diresse verso il centro del campo e si fermò alla linea del tiro libero
*gambe leggermente divaricate, ginocchia piegate.
Angolo di 90° tra spalla e braccio, tra braccio e avambraccio, tra avambraccio e mano.
Mani a T sul pallone*
Fece un respiro profondo
*e distendi*
Solo cotone.
Sorrise e rivolse lo sguardo al cielo. Le mani sui fianchi e le gambe rigide.
La palla intanto dopo aver fatto un paio di rimbalzi a terra rotolava verso di lui.
Si piegò, corse e la afferrò.
In un unico movimento saltò e allungò il braccio facendolo arrivare a pochi centimetri dal ferro.
La palla scivolò dentro.
Si sentiva bene.
Poteva accadergli di tutto ma gli bastava indossare un paio di pantaloncini e andare a giocare che tutto passava.
Tutto sembrava futile, ininfluente in quell’unico istante.
Quell’unico istante in cui quella sfera arancione lasciata, accarezzata dalle tue dita, volava in una parabola sopra il campo e raggiungeva il canestro. Senza sfiorare il ferro entrava e la retina compiva un movimento innaturale verso l’alto.
Quell’unico istante, quell’unico rumore, quell’unica sensazione lo faceva stare in pace.
Lo teneva lontano da tutto.
E a lui andava bene così. Era il suo mondo, era quello che voleva.
Solo poter vivere quel momento all’infinito. Senza mai smettere.
Tirò e tirò.
Tanti tiri dentro, molti più tiri fuori. Movimenti improbabili copiati da chissà quale campione non riuscivano mai, anche se provati migliaia di volte.
Si bloccò.
Guardò intorno. I lampioni erano accesi, la luce del sole un ricordo
*l’ultimo *
I piedi staccarono da terra, le ginocchia si distesero trasmettendo lo slancio, le braccia sospinsero la palla verso l’alto, le dita la accarezzarono in un ultimo saluto.
Lei fece il suo dovere.
La raccolse e si incamminò di nuovo.
Davanti a lui i problemi, dietro di lui un campetto, dentro di lui la pace