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Menel Hen aveva abbandonato la sua terra, suo figlio. Ma Yondo gli ricordava troppo la madre, e il dolore era ancora insopportabile. Così il suo carattere si incupì e nel suo cuore non ci fu più spazio per la gioia. Il ramingo dava sfogo alla sua rabbia contro gli occasionali mostri in cui si imbatteva, creature malvagie e stupide abbastanza da mettersi sulla sua strada. Trascorse tre anni in lunga solitudine, rifuggendo gli uomini e la civiltà. Durante l’arco di tempo che passò nel Nord, Menel Hen poté rafforzare il legame che lo univa alla natura. L’aspra e selvaggia madre lo aiutava a purificarsi. Ma poi giunse l’Inverno della Fame, come c’è tramandato dalle cronache dell’epoca. La selvaggina era quanto mai scarsa, ci fu una moria tremenda di animali. Neppure le magre provviste che Menel aveva premurosamente conservato bastarono a supportarlo. La fame costrinse il ramingo a fare ritorno nelle terre civilizzate. «Fu come svegliarsi da un lungo sogno», sembra che confidò un giorno a suo figlio, «un sogno in cui io ero un lupo della steppa.» Da questa rivelazione, probabilmente, nacque la leggenda del simbolo araldico degli Arlan: un lupo dal portamento fiero che contempla il cielo stellato. A questo punto il destino di Menel Hen si tesse ai destini di altri uomini, nel bene e nel male, nella luce e nell’oscurità. Oggi il nome di questo antico guerriero è iscritto sull’albo degli eroi della risorta Corte Elfica e noi lodiamo il suo nome. Così se in una notte di vento e di pioggia, mentre sorseggiate il vostro vino caldo in locanda e contemplate il fuoco scoppiettante che arde nel camino, udrete narrare dalla viva voce di un bardo le gesta di Menel Hen consideratevi fortunati, molto fortunati, perché è una di quelle rare storie in grado di portarvi in un tempo che è stato, ma che oggi non è più… ¹Beryn fin = ovvero “tempo della scoperta”; rappresenta l’inizio della pubertà per gli elfi. ²Thiramin = “legame dell’anima”; gli elfi credono che il progresso spirituale di una persona sia inconsapevolmente intrecciato con quello di un’altra.
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Il giorno stesso in cui Menel superò il beryn fin, domandò ad Elen di unirsi a lui in matrimonio. La donna accettò senza farselo chiedere due volte, poiché anche lei amava non troppo segretamente questo ragazzo forte abbastanza da superare la tragedia che aveva sconvolto la sua vita e, pur di aspettarlo, aveva rifiutato decine di corteggiatori. Nei due amanti il thiramin² non era stato improvviso, ma un seme vecchio di decadi finalmente sbocciato in un bellissimo fiore. La notizia del loro matrimonio fu accolta dall’intera comunità con grande gioia e festeggiata per giorni. Si sposarono secondo i dettami del rito antico, al sorgere di Anar il sole e ai piedi della quercia dove si erano sposati i genitori di lui e dove ora riposavano, uniti nell’eterno abbraccio della morte. Dalla loro unione, pochi anni dopo, nacque un bambino. Il suo viso ricordava i bei lineamenti della madre mentre gli occhi grigi vagavano per lo spazio come quelli dell’orgoglioso padre. I genitori lo chiamarono Yondo Alassë, “figlio di gioia”, perché c’era tanta felicità nella loro vita. Menel decise di mantenere viva la tradizione degli Arlan e fece tatuare la nuca del bambino con le rune del proprio nome. Ma in quegli anni il Cormanthor restava un luogo pericoloso. Fra le ombre degli alberi strisciavano nemici invisibili, sempre in agguato. Un giorno, un lugubre e infausto giorno i drow sferrarono un attacco improvviso. I Guardiani accorsero a difendere la terra con il coraggio che sempre li contraddistingueva in battaglia, ma le forze drow che si trovarono a fronteggiare contavano duecento fra guerrieri, maghi e sacerdotesse. Allora per gli elfi di Cormanthor fu chiaro che i crudeli cugini non erano giunti con la solita intenzione di uccidere, saccheggiare e fuggire con il bottino. Si trattava di una vera e propria invasione. La battaglia si trasformò presto in un massacro e tutti noi sappiamo che la Corte Elfica quel giorno sarebbe definitivamente caduta se non fosse stato per l’intervento provvidenziale di Odon il drago d’argento, che aveva previsto l’attacco da tempo ed era accorso dall’ovest per assistere i suoi alleati. Nell’infuriare della battaglia, Elen si trovò faccia a faccia con il famigerato Ykrash, un necromante di grande potere. Ad Ykrash bastò toccare la fanciulla elfica con un dito pervaso di gelida energia, perché la nobile guerriera cadesse a terra pallida e fredda in un istante, come se il sangue non fosse mai fluito nel suo corpo. Menel la vide cadere e per lui fu come rivivere quel giorno lontano, che ancora bruciava nella sua memoria come se fosse accaduto ieri; i ricordi riaffiorarono in un fiume in piena di rabbia devastante. Ancora quella sensazione d’abbandono e forza lo pervase e così Menel si fece largo fra i nemici in un turbinio terribile di lame finché raggiunse Ykrash. Il mago fu colto alla sprovvista dall’arrivo di Menel e tentò di comporre un incantesimo, ma nel farlo lasciò la difesa scoperta alle lame dell’elfo, che si incrociarono intorno al suo collo decapitandolo. Vendetta! Era fuori di sé! Il ranger continuò a dilaniare i corpi dei nemici anche quando questi non respiravano, né si muovevano più. I compagni tentarono di fermarlo, ma la sua ira era formidabile. Menel fuggì via da quel luogo di sofferenze, in preda ad una follia che lo condusse miglia e miglia lontano, al nord. Durante la sua fuga, Menel non si fermò mai nello stesso luogo per più di due giorni: avvertiva il bisogno di abbandonare una caverna, un asciutto rifugio e andare via, sempre più lontano, sempre più a nord. Menel Hen divenne un ramingo, un solitario viandante delle terre selvagge. Si nutriva di radici, di piccoli animali quando aveva la fortuna di incontrarne. Lentamente, Menel imparò… Imparò il significato della fame, della sete e del dolore, del freddo e del caldo. Era solo con sé stesso, solo lui e il cielo. Ed il suo sguardo tornò a vagare – di notte – fra le stelle, nella speranza di incontrare il sorriso della sua amata Elen in mezzo a quelle luci…
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Era ormai solo al mondo. I genitori furono sepolti il giorno seguente ai piedi di una vecchia e maestosa quercia, la stessa di fronte alla quale avevano celebrato il loro matrimonio. Nei giorni che seguirono, molti nobili elfi salparono da Evermeet per piangere sulla tomba degli ultimi regnanti del Cormanthor. Najestarr, il famoso arcimago elfo del sole di cui tutt’oggi lodiamo il nome, provò pietà per il piccolo principe e gli offrì di portarlo in una terra lontana da quel luogo di dolore, gli offrì la possibilità di una vita felice. Ma il fanciullo conosceva già la sua strada. Lo aveva giurato solennemente sulla tomba dei genitori, rinnegando Corellon Larethian e gli dei colpevoli, secondo lui, di averlo abbandonato: avrebbe dedicato tutto il suo spirito alla vendetta. L’arcimago, rattristato e sconvolto dalla scelta dell’ultimo degli Arlan, lo salutò promettendogli un rifugio sicuro. «Le sponde di Evermeet sono sempre pronte ad accogliere il figlio di Eladaran il Campione, Sire del Cormanthor.» Gli disse. Prima di fare ritorno ad Evermeet, Najestarr portò con sé il tesoro di famiglia degli Arlan. Lo avrebbe custodito in attesa del lontano e sperato giorno in cui Menel sarebbe stato legittimamente incoronato Sovrano del Cormanthor. Il Consiglio dei Guardiani assunse dunque l’autorità in vece della mancanza di un sovrano. Erano tempi bui, anni di lacrime e di sangue. Il Cormanthor era governato dalla spada. Quando Menel Hen si rifiutò di partire, il consiglio decise all’unanimità di affidare il fanciullo alle cure della famiglia della sua salvatrice. «… affinché tu non dimentichi cosa sono l’amore e la famiglia…» Dissero, e lui obbedì. La sua salvatrice, la ragazza dagli occhi di lince, si chiamava Elen e davvero, come suggeriva il nome, era bella e irraggiungibile come una stella. Elen aveva da poco superato il beryn fin¹ eppure dal suo modo di parlare, dalla profondità dello sguardo nessuno lo avrebbe sospettato. Il padre Aelos e la madre Shala furono fin da subito amorevoli nei confronti del piccolo principe, e non gli fecero mai pesare il fatto che egli era un figlio adottato; Neyla, la sorella maggiore di Elen fu per Menel Hen come una seconda sorella. Ma con Elen era tutto diverso. C’era qualcosa in lei di straordinario, e questo qualcosa rapì sin da subito il cuore acerbo di Menel. Nonostante la giovane età, Elen serviva già fra i ranghi dei guardiani. Arciera provetta, padroneggiava anche l’arte delle spade, che nelle sue mani si trasformavano in fruste pronte a piegarsi e a schioccare. La ragazza insegnò a Menel lo stile di combattimento con due armi. In questa danza di lame l’ultimo degli Arlan si dimostrò un ottimo allievo, dimostrando di possedere una dote innata che l’odio, altrimenti estraneo al suo animo buono, plasmava in uno stile ineguagliabile. Le stagioni trascorsero velocemente. Menel Hen cresceva di pari passo con la sua implacabile sete di vendetta. Fu soltanto grazie alle cure amorevoli di madre Shala che il ragazzo non votò il suo cuore al male e alla distruzione che ne deriva. Ma quando cadeva in trance, incubi spaventosi tornavano per tormentarlo e lui tremava, scosso da terribili visioni. Nel mondo dei sogni madre Shala non poteva consolarlo e la povera donna restava fuori l’uscio della camera con le mani sul cuore dolente per la sofferenza del figlio. Quando l’addestramento di Menel poté dirsi completato, il ragazzo saldò il debito con i Guardiani unendosi ai loro ranghi. La prova consisteva nel sopravvivere in solitudine in un ambiente ostile della foresta per una settimana e dare la caccia e stanare una creatura pericolosa. Fu dura, ma il ragazzo riuscì nell’impresa senza trovare grosse difficoltà. In molte battaglie il contributo di Menel si rivelò decisivo e l’ultimo degli Arlan presto si guadagnò il meritato rispetto dei compagni guardaboschi. Un giorno, si diceva, il Principe avrebbe reclamato il trono che gli spettava di diritto.
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Dall’interno della carovana, intanto, il piccolo Menel aveva visto tutto. A nulla erano valse le preghiere di Lómë di non guardare, di restarle accanto. Qualcosa dentro di lui lo costringeva ad affacciarsi su quell’orribile spettacolo. Così quando le spade lacerarono il corpo del padre e i dardi trafissero il cuore della madre, una parte di lui morì per sempre. Vinta la battaglia, i drow esaminarono rapidamente i corpi straziati degli elfi. Tolsero la spada, ancora imbrattata di sangue drow, dalla mano dell’elfo e i gioielli, quei bellissimi orecchini d’argento che Eladaran aveva donato alla sua consorte per l’ultimo solstizio, li strapparono sadicamente via. L’infinito orrore di ciò che vide allora, Menel non poté paragonarlo a nessuna notte senza stelle. La furia in lui crebbe cieca e terribile, esplose come il fulgore di mille soli. In un attimo era fuori dalla carovana, spinto da un solo obiettivo: vendetta! Senza pensarci su due volte, Menel si scagliò addosso al bastardo che stava pulendo i gioielli del sangue della madre. Quel giorno l’elfo oscuro conobbe la paura. L’odio infinito di quel ragazzino era una potenza aliena e vasta, una forza pronta ad esplodere. Ma restava pur sempre un ragazzino. «Però! Potrebbe diventare un buon gladiatore nelle arene insanguinate di Menzoberranzan!» Disse, prima di colpirlo in pieno volto con il piatto della sua spada. Il fanciullo provò un dolore acuto e poi perse i sensi. Quando Menel riaprì gli occhi, scoprì che un drow lo portava a spalla come se fosse della selvaggina. Il fanciullo era troppo debole per opporre qualsiasi resistenza e comunque sarebbe stato inutile. Con la coda dell’occhio intravide Lómë, e nel vedere che la sorellina stava bene si tranquillizzò. Il fanciullo visse le ore che seguirono in uno stato di dormiveglia e tiepido sopore, con il sangue che ancora gli gocciolava dalle labbra spaccate e segnava una macabra scia sulla neve immacolata. I drow avanzavano lenti e rumorosi, ingombrati com’erano dai tesori della carovana. Il piccolo Menel si chiedeva quale sarebbe stato il suo futuro: costretto a combattere come una bestia per soddisfare la brama di sangue dei padroni drow, dimenticato in un’oscura città sotterranea? Non avrebbe dunque mai più rivisto il cielo che amava tanto? E allora Menel pianse, pianse lacrime ardenti e così diede sfogo alla disperazione e fugò lo spettro della pazzia. Il fanciullo si era ormai rassegnato alla crudeltà del destino quando, all’improvviso, una pioggia di foglie acuminate calò dalle cime degli alberi, abbattendosi sui drow. Erano frecce! Con la forza residua Menel sollevò lo sguardo e gli parve di vedere, confuse e sfocate nel bianco ovattato che lo circondava, agili figure saltare giù dai rami e verdi mantelli gonfiarsi. Quei mantelli, quelle frecce piumate… Non poteva sbagliarsi, quelli erano i “Guardiani”, i baluardi, i figli e fratelli del Popolo Fiero! Un turbinio di lame e di frecce micidiali si abbatté come tempesta sulle fila dei drow. Questi, come belve messe alle strette, si affidarono a tutti gli stratagemmi che conoscevano pur di salvarsi la vita. Pochi drow fortunati, aggirato il campo di battaglia, si diedero alla fuga. Fra questi pochi c’era anche lui, il drow che lo trascinava inesorabilmente verso un futuro di sofferenze. La speranza abbandonò nuovamente il piccolo sventurato. Per quanto si sforzasse di invocare aiuto, la flebile voce del fanciullo si perdeva nelle grida e nel clangore dell’acciaio. Fu allora che lei comparve: una ragazza dagli occhi di lince. «Fammi strada, sgualdrina!» Le urlò addosso il drow. Ma la ragazza sollevò l’arco e, incoccata una freccia, lasciò andare: la freccia gridò nel vento prima di piantarsi nel fianco destro del drow, che vacillò qualche passo quando ecco che un’altra freccia, velocissima, lo colpì alla gamba facendolo crollare a terra. Menel Hen si divincolò dalla presa del drow morente, scivolando sulla soffice neve. Tutt’intorno a lui, la battaglia volgeva al termine segnando la vittoria dei guardiani. Barcollante, Menel si alzò da terra per volgersi a colei cui doveva la vita. La guerriera lo fissò con i suoi occhi da lince. Il fanciullo non chinò il capo e guardò a lei nella stessa maniera con cui guardava il cielo. Alcuni drow erano riusciti a darsi alla fuga, rintanandosi in chissà quale oscuro meandro. I guardiani seguirono le tracce dei fuggiaschi ma ad un punto della pista queste scomparivano nel nulla. Menel Hen si aggirò come uno spettro fra i corpi degli elfi e dei drow caduti, seguito passo passo dalla ragazza dagli occhi di lince. Il fanciullo cercò la sorellina fra i corpi di quei guerrieri invocando il suo nome: «Lómë!», così tante volte che alla fine gli arse la gola. La verità che il piccolo principe rifiutava di credere emerse all’improvviso, trafiggendo il suo petto in un singulto di crudo dolore. Lómë era stata rapita dai drow! Menel gridò la sua rabbia e pianse la sua tristezza in ginocchio, un bambino rannicchiato su sé stesso che aveva appena conosciuto il terribile mondo dei grandi. I guerrieri elfici, scossi da una profonda commozione, si raccolsero attorno a Menel Hen. La ragazza dagli occhi di lince si chinò su di lui e stringendolo fra le braccia gli sussurrò parole di conforto che i secoli hanno obliato…
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Preludio (l’Occhio del Firmamento) di Jason R. Forbus «Vi racconterò parte di una saga più estesa, di un’antica ballata le cui origini si perdono nella nebbia dei tempi… Questa storia è triste, queste pagine ingiallite umide di un mare di lacrime. Ma come tutte le leggende dei nostri antenati, angoscia e ombra cedono il passo a gioia e luce.» – Weanor Hightrees, Cantore delle Foglie Sussurranti Tutto ebbe inizio un pallido mattino di mezz’inverno tanti, tanti anni fa… La neve fioccava abbondante quel giorno straordinariamente freddo, ricoprendo l’antica foresta di Cormanthor di un manto di nobiltà. I larghi e sgombri sentieri fra gli alberi erano deserti, fatta eccezione per una carovana, un esempio di maestria e ingegno, trainata da una coppia di cavalli bianchi come lo scenario magico che li circondava. La carovana procedeva spedita per l’Ovest, diretta al mare. L’ultima, antica famiglia elfica sopravvissuta sul continente di Faerûn, avrebbe presto raggiunto la favoleggiata isola di Evermeet e dunque la tanto agognata pace. La pace che i crudeli cugini del sottosuolo, gli efferati drow, avevano violato ormai da tempo. Separarsi dall’amata foresta dei loro avi era stata una scelta difficile ma oramai il Cormanthor, a causa delle frequenti incursioni drow, era diventata una terra di nessuno. Molti elfi erano emigrati all’Ovest; tanti altri, invece, avevano preferito la vita di forestieri e vagabondi nelle metropoli di Faerûn, Waterdeep innanzi a tutte. Così anche gli Arlan scelsero la Via dell’Esilio, preferendo il ricordo di un passato glorioso all’oscurità di un incerto presente. La lunga marcia attraverso l’immensa foresta di Cormanthor sarebbe servita agli Arlan per congedarsi da quegli alberi secolari che, colorando le foglie di rosso, giallo e verde, avevano segnato le meravigliose stagioni delle loro lunghe esistenze. A bordo della carovana viaggiava la famiglia al completo: il padre Eladaran, un campione che aveva sempre difeso la terra e i suoi cari con coraggio; la madre Aënadth, una maga trasmutatrice che aveva stretto un forte legame con il bosco e riscoperto conoscenze perdute, e infine i due figlioli, appena fanciulli. Il maggiore era un maschio: i genitori lo avevano chiamato Menel Hen, “occhio del firmamento”, a causa della peculiare abitudine del ragazzino di scrutare l’immenso cielo. Gli erano dunque state tatuate le rune del suo nome dietro la nuca, per rispetto di un’antichissima tradizione di famiglia. La secondogenita, invece, era una bellissima bambina: Lómë Hrívë, “notte d’inverno”, poiché la sua nascita era stata predetta molto tempo prima dai divinatori al servizio degli Arlan e accolta con profonda gioia in una gelida notte di gennaio. Anche Lómë, come il fratello, portava tatuate dietro la nuca le rune del suo nome. La carovana aveva quasi raggiunto i confini del verde regno; il cocchiere, un fedele servo e amico, guidava i cavalli con sicurezza. All’interno, fratello e sorella giocavano felici, mentre i genitori si scambiavano in teneri sussurri le preoccupazioni, le speranze per i lunghi giorni venturi… La quiete fu bruscamente interrotta quando un colpo poderoso e improvviso si abbatté con violenza contro la carovana. L’urto fu tremendo: il cocchiere venne catapultato a qualche metro di distanza e cadendo batté la testa. Il poveretto non ebbe neppure il tempo di realizzare cosa fosse accaduto che era già morto. La carovana si era frattanto piegata su di un lato. I bambini spaventati si strinsero l’uno alle braccia tremanti dell’altra mentre i cavalli frinivano terrorizzati. Le povere bestie non riuscivano a rialzarsi e continuavano a scivolare sulla neve. Ma Eladaran, ripresosi dallo stupore iniziale, brandì Daraliss, un’arma magnifica con la quale aveva combattuto e sconfitto centinaia di nemici, e balzò fuori; Aënadth lo seguì un attimo dopo essersi protetta con alcuni incantesimi. Fuori li attendeva un’amara sorpresa: un drappello di maghi e guerrieri drow che contava su due dozzine di uomini, armati di tutto punto e in assetto da combattimento. Le spie drow dovevano aver saputo della loro partenza, e gli avevano teso un agguato. Ridevano gli elfi oscuri, pregustando il momento in cui le loro lame affilate avrebbero trafitto le carni dei nemici di sempre. Subito i due amanti capirono che le possibilità di vittoria erano pressappoco inesistenti. Si fissarono negli occhi: uno sguardo intenso e carico del fuoco del loro amore, un amore vecchio di due vite umane. Un attimo dopo si scagliavano addosso agli assalitori, intenzionati a tutto pur di salvare i loro due tesori. Eladaran e Aënadth si batterono come mai avevano fatto prima di allora, si batterono come tigri che difendono i propri cuccioli dal pericolo. Molti drow incontrarono il proprio destino contro la spada e la magia degli impavidi elfi. Ma l’esito della battaglia non poteva che arridere ai figli di Lolth. Dalla loro, i drow potevano contare sul vantaggio numerico e sulla crudeltà. Eladaran il campione cadde sotto i colpi di molte spade spietate. Aënadth lanciava un incantesimo quando fu sorpresa da alcuni dardi avvelenati, che tagliarono l’aria come lingue di serpente e si conficcarono nel suo bel petto. L’ultimo pensiero della donna fu un pensiero di madre, la speranza che ai figli adorati fosse concessa una morte veloce e indolore.
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Aran sapeva dove si trovava l’antro del drago. Lo aveva veduto più di una volta sulla parete di ghiaccio ai tempi in cui viveva con Yugi on-na. Fu un gioco da ragazzi per lui intrufolarsi e aspettare che Anarishin tornasse dalla sua battuta di caccia. E quando il drago entrò nella caverna, Aran uscì allo scoperto. «Anarishin! Uccisore di uomini! Oggi morirai!» «Chi sei tu?» «Io sono Colui che Porta la Primavera, e sono qui per vendicare la morte di Ubotai Khan, l’uomo che uccidesti su questa montagna dieci anni or sono durante una bufera di neve!» «Aaahhh… ricordo. Non era saporito come speravo… ma tu mi sembri un boccone più succulento di lui. Sarai tu a morire oggi, sciocco akrazad¹.» Anarishin non perse tempo a sputare il suo micidiale soffio gelido. Credeva di aver steso l’umano per bene, ma quando la folata di ghiaccio si dissolse, Aran era ancora là: era riuscito ad evitarla! Il ragazzo si lanciò sul drago e con una raffica di colpi ben assestati gli inflisse gravi ferite. Il drago sembrava confuso dalla velocità del monaco. Il ragazzo era sufficientemente agile da schivare i suoi colpi. Ma in un impeto di rabbia, Anarishin riuscì a colpire il ragazzo con abbastanza forza da scaraventarlo a terra. Il drago si preparò ad azzannarlo con il suo morso quando Aran, con una mossa inattesa, lo colpì al collo spezzandoglielo. Il crudele e possente Anarishin si abbatté su sé stesso con un tonfo così forte che generò un’enorme valanga di neve. Quando il frastuono della valanga cessò, rimase solo il silenzio. Aran si alzò da terra e con un rispettoso inchino salutò il suo avversario. La vendetta era compiuta. La notizia della morte di Anarishin presto riecheggiò per tutta la valle. La gente si chiedeva chi fosse il grande eroe che era riuscito ad abbattere il famigerato drago. I connestabili dei villaggi si riunirono fra loro e formarono un gruppo di ricerca per scoprire il nome del misterioso beniamino. Tempo dopo, il gruppo di ricerca fece ritorno annunciando di averlo trovato. «È un tipo strano, che tempo addietro ci aiutò a catturare i banditi di Tsukama. Vive nel Bosco di Eto in compagnia di un orso molto vecchio. La Sacerdotessa dice che è uno spettro, ma nessuno conosce il suo nome.» Così, i connestabili si recarono in pellegrinaggio nel bosco per porre i propri umili ringraziamenti all’eroe. «Cosa volete in dono? Domandate, onorevole eroe, e noi faremo tutto il possibile per accontentare la vostra richiesta.» «Davvero? Uh, io chiedo… chiedo… tantissimo latte e tantissima marmellata. Potete darmela?» I connestabili, che si aspettavano una richiesta in oro sonante, rimasero stupefatti. Ma acconsentirono lo stesso alla strana domanda dell’eroe e, insieme a centinaia di litri di latte e di conserve di marmellata, gli donarono un sacchetto pieno di gemme. Quando si sparse la notizia che l’eroe era stato scoperto, sempre più persone si recarono nel bosco per conoscere il leggendario combattente. Fu così che, con enorme gioia, un padre e una madre ritrovarono il proprio figlio disperso da dieci anni. «Abbiamo fatto di tutto per trovarti. Pensavamo che la Montagna ti avesse inghiottito, e invece… È ora che tu torni a casa, figlio mio.» Aran non poteva rifiutare e, salutato il Maestro – che fra l’altro era felicissimo del latte e della marmellata – tornò a vivere con i suoi genitori. Il ragazzo aveva lasciato il suo paese come un buono a nulla e uno sconsiderato, e vi faceva ritorno come un eroe. Non male. I ragazzi lo rispettavano e cercavano la sua amicizia mentre le ragazze lo seguivano con gli occhi e cercavano le sue attenzioni. In effetti, Aran era sempre stato un bel ragazzo. Fu così che, osannato dalla sua gente, Aran si dimenticò della promessa fatta a Yugi on-na. Un anno felice trascorse… Dopo un anno passato tra divertimenti e baldoria, Aran sentì il bisogno di ritornare al Santuario nel bosco per meditare. Ma una volta arrivato, il ragazzo realizzò una tremenda scoperta: il suo Maestro era scivolato in un coma profondo. Aran provò a scuoterlo, a far rumore, ma non ci fu nulla da fare: l’orso dormiva profondamente. Fu così che Aran ricordò la profezia di Yugi on-na: “Se non manterrai la promessa, il fato stesso si accanirà su di te e sulle persone che ami.” Aveva detto la donna. Senza perdere altro tempo, il ragazzo scalò la Montagna e raggiunse la caverna ghiacciata per mantenere la sua promessa. Trovò la donna inginocchiata e piangente con il bel viso fra le mani delicate. «Sob! Ti avevo avvertito che un giuramento fatto su questa Montagna non può essere tradito. Sigh! La forza del fato qui sopra è grande…» «Perdonami, Yugi on-na! Ma ora sono qui, e sono pronto a mantenere il mio giuramento!» «Ma non capisci, amore mio? È il fato stesso che devi pregare, non me.» «E come posso fare? Parla, ti scongiuro.» «Devi recarti alla Vera Sorgente, dove i destini degli uomini e dei draghi scorrono senza sosta… Ma è così lontana… Non voglio che tu te ne vada un’altra volta.» «Adorabile Yugi, io non avrò pace finché il mio Maestro non si sveglierà da quel sonno maledetto. Perché solo adesso capisco la profonda affezione che mi lega a lui. Io gli devo ciò che sono, nel corpo e nello spirito. Non posso dimenticarlo.» «Ti aiuterò, Aran. Percepisco la sincerità nel tuo cuore e sento che farai tutto in tuo potere per tornare da me. «La strada per la Vera Sorgente non è segnata sulle mappe dei mortali, né dei draghi. Per raggiungerla, dovrai seguire la stella di Hanado. Continuerai senza indugio nella direzione che la stella ti indica per miglia e miglia finché, stanco e invecchiato di qualche anno, troverai ciò che cerchi. Non ti potrai sbagliare, perché sarà il fato stesso a parlarti. «Una volta lì, usa questa ampolla magica dotata di tocco fantasma per raccogliere l’acqua eterea della Sorgente. Non c’è altro modo. «Ma dovessi tradire di nuovo il tuo giuramento una volta compiuta la missione, allora gli spiriti dei morti usciranno dalle tombe della Necropoli di Kuor e verranno a prenderti. La loro furia sarà terribile!» «Tornerò da te, adorabile Yugi on-na, e porterò con me la primavera nella caverna di ghiaccio.» «Ed io ti porterò la forza della Montagna, insegnandoti la tecnica del Pugno Celeste. Ci ameremo per l’eternità!» Così Aran salutò la sua promessa sposa per intraprendere il periglioso viaggio verso la Vera Sorgente. Il grande eroe attraversò oceani, deserti, montagne, giungle e pianure; combatté nemici dalla potenza terrificante. Ovunque trionfando, portando la primavera del bene e della giustizia… Questa è la storia del più forte dei mortali di tutte le Ere, che sposò la figlia della Deaº e apprese la tecnica sacra del Pugno Celeste. ¹Umano in draconico. ºSelune.
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Il momento divenne un giorno. Poi due, tre, una settimana, un mese, un anno. Aran restò in compagnia dello spettro per cinque, lunghi anni. Tempo in cui il fanciullo divenne un uomo e in cui riuscì a comunicare con lo spettro imparando il linguaggio celeste. Come gli disse lo spettro, infatti, lei era in grado di capire qualsiasi lingua ma le era permesso parlarne una sola. «Il mio nome è Yugi on-na. Io sono lo spirito della Montagna. Io sono la Montagna. È dal giorno della creazione che vivo qui, sola. Ma la dea mi aveva avvertito che un giorno sarebbe arrivato…» «Chi? Chi sarebbe arrivato?» «Sapevo che un giorno sarebbe arrivato “Colui che Porta la Primavera”. Sapevo che un giorno sarebbe arrivato colui che avrei amato sopra ogni altra cosa… Sapevo che un giorno saresti arrivato. E così ho atteso per migliaia e migliaia di anni il tuo arrivo.» «Ma Yugi, prima che tu mi salvasti io avevo prestato un giuramento.» Lo spettro tremolò, come se avesse intuito a cosa si riferisse il ragazzo. «Intendi uccidere Anarishin.» «Anarishin ha ucciso Ubotai Khan, un brav’uomo. Io giurai di vendicarlo.» «Un giuramento fatto sul Monte Otai deve essere mantenuto. Ma potrei aiutarti ad ucciderlo, se vuoi.» Aran la guardò incredulo per un istante. Possibile che quella donna delicata fosse davvero così potente? Ma notando la fermezza della donna, il ragazzo capì che Yugi on-na non mentiva. Lo avrebbe ucciso, se soltanto lo avesse voluto. «No. Il giuramento è mio e tocca a me solo uccidere Anarishin, o morire nel tentativo.» «Ma Anarishin ti ucciderà! Ti avrei insegnato la tecnica del Pugno Celeste, ma ci vogliono cento vite mortali per apprenderla.» «Potrei raggiungere il Monastero, e apprendere le arti marziali.» «Il Vecchio Ordine è potente, ma… io conosco una soluzione migliore. Ti affiderò a Müün, il Saggio del Bosco. Lui ti insegnerà lo stile dell’orso.» «Hai detto un orso? È possibile che? …» «Sì, è proprio l’animale che ti salvò dal gelo della notte quando eri un bambino. Noi spettri sappiamo riconoscere un animo buono quando ne vediamo uno. «Digli pure che ti manda Yugi on-na. Sì, farà questo favore a una vecchia amica. Ma prima che tu vada, giurami di tornare.» «Tornerò appena avrò ucciso Anarishin, lo giuro.» «Va’ con la mia benedizione, amore mio. Ma ricorda: un giuramento sul Monte Otai è indissolubile. Se non manterrai la promessa, il fato stesso si accanirà su di te e sulle persone che ami.» Ma Aran O-denshi non prestò fede alle parole dello spettro. Dopo cinque anni dal giorno della sua partenza, Aran partì per fare ritorno alla valle. Era così concentrato dalla missione, che non si fermò neppure al villaggio per salutare i suoi genitori. E poi, cosa gli avrebbe detto? Che lo spirito della Montagna lo aveva salvato? Il ragazzo puntò dritto per il Bosco, e qui rincontrò l’orso. Non era affatto invecchiato dall’ultima volta che l’aveva visto. «Saluti, onorevole orso. Sono Colui che Porta la Primavera e…» «E così sei tornato. Hai portato con te il dono che mi avevi promesso?» «Uh?» «La marmellata e il latte, li hai portati?» «Ma… ma io mi sono dimenticato. È passato così tanto tempo…» «Tanto tempo? Non è mai “tanto tempo” quando bisogna rispettare una promessa. Yugi on-na non ti ha insegnato proprio niente, ragazzo?» «Ma come fai a sapere…» «Sono veramente poche le cose che accadono senza che io ne venga a conoscenza. Tienilo bene a mente, ragazzo.» «Sì, signore.» «Allora, vuoi diventare un combattente, no?» Aran annuì. «Ti aiuterò, ma a costo che tu aiuti me.» «In che senso?» «Oh, niente di complicato. Vorrei dare una ripulita alla mia caverna, raccogliere un po’ di miele… Accetti?» Di nuovo Aran annuì. Da come ne parlava l’orso, sembrava si trattasse del lavoro più facile del mondo. Il ragazzo non poteva neanche immaginare quanto si sbagliasse. Il lavoro cominciò immediatamente. La caverna era sporchissima. Terra, foglie, briciole di cibo: lo sporco si annidava ovunque. E appena il ragazzo finiva di pulire, una folata di vento trascinava nella caverna altra terra e altre foglie. In più, l’orso faceva di tutto per sporcare la caverna. Mangiava i frutti nella caverna gettando le bucce ovunque – e lasciatevi dire che Müün era un grande mangiatore. Sembrava, insomma, un’impresa impossibile. Ma con il tempo, Aran elaborò una tecnica infallibile e dopo un anno di meticoloso, pazientissimo lavoro, la caverna poteva dirsi finalmente pulita. Il secondo lavoro riguardava la raccolta di miele. C’erano degli enormi alveari nel cuore del bosco, abitati da api giganti. Una puntura di ape gigante era in grado di stordire un uomo. Due punture potevano risultare fatali. Aran si avvicinò con cautela, cercando di non farsi scoprire dalle api guardiane. Mentre raccoglieva il succulento nettare nel barattolo, però, l’alveare si svegliò improvvisamente. Aran fu attaccato da una dozzina di api e dopo averne abbattute un paio, fu costretto a fuggire per salvarsi la pelle. Ma anche questa era fatta. Così cominciò l’addestramento di Aran, che durò più di quattro anni. L’orso si rivelò un ottimo Maestro, sempre pronto a correggere i suoi sbagli e a fornirgli utili consigli. Spesso passeggiavano per il bosco alla ricerca di creature e spettri malvagi da punire. E presto, il bosco fu liberato di oscure presenze. «È solo con la pratica che si raggiunge il vero potere.» Gli ripete il Maestro ad ogni occasione. La particolarità della tecnica adoperata da Aran consisteva in mosse potenti ma allo stesso tempo molto veloci che ricordavano gli attacchi di un orso inferocito. Ma il ragazzo comprese la forza del suo stile di combattimento solo quando si scontrò con un gruppo di pericolosi banditi. I banditi, in fuga dalla giustizia dei samurai, si erano rifugiati nel Bosco di Eto. Il caso volle che quei banditi si stabilirono precisamente nella tana dell’orso e quando Aran li invitò gentilmente ad andarsene, quelli gli risero in faccia e lo colpirono con un dardo. Un errore imperdonabile. Il giorno dopo, fuori la caserma del villaggio, i samurai trovarono i banditi storditi e legati con una fune. Erano pieni di lividi, e con una storia incredibile da raccontare: erano stati sconfitti da un uomo-orso! Vennero creduti ubriachi. «Adesso sei pronto. Possa il tuo pugno non fallire.» «Non fallirò, Maestro Müün.» «Ah, e la prossima volta portami del latte e marmellata. D’accordo?» «Lo prometto!»
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Il sesto giorno sembrava identico a tutti gli altri. Il paesaggio montano era così monotono, che ad Aran capitava di cadere in trance e di lasciarsi trasportare meccanicamente dai propri passi. Quel mattino, però, nessun sole era apparso. Il tempo era molto nuvoloso. Una lieve brezza soffiava dall’alto: era il gelido alito della Montagna. «Sta’ per scoppiare una bufera, ragazzo. Presto, dobbiamo trovare un rifugio!» Ubotai cercò di guidare il ragazzo verso un rifugio che ricordava dalle sue precedenti escursioni. Ma il posto era lontano almeno due ore e nonostante il ranger e Aran accelerarono di molto l’andatura, non riuscirono a raggiungerlo in tempo. Le condizioni atmosferiche, infatti, andarono rapidamente peggiorando finché la neve cominciò a fioccare abbondante. Cadeva di sbieco e con violenza, accecando i due sventurati. La brezza si trasformò in un turbine impazzito, trasformando il paesaggio in un bianco inferno. Improvvisamente, il fanciullo perse di vista la guida. Aran provò a urlare il nome del ranger, ma la voce del vento selvaggio coprì le sue grida. Così il fanciullo si rannicchiò su sé stesso e attese che la bufera si placasse. La fine giunse inaspettatamente presto. Una calma enorme si sostituì alla furia della tempesta e il sole spuntò pallido fra le nuvole. Il fanciullo setacciò la zona alla ricerca di Ubotai, ma la sola traccia del ranger era il suo zaino, che Aran trovò semi-coperto dalla neve. Sullo schienale dello zaino c’erano i segni evidenti di artigli e una larga chiazza di sangue. «Dannato Anarishin! Io mi vendicherò, lo giuro sul mio onore!!» Solo il drago, infatti, poteva colpire durante una bufera di neve. Quel giorno Aran si impegnò nel terzo giuramento della sua vita, e anche quella volta il fanciullo mantenne la parola data. Aran era senza una guida, ormai. Non sarebbe mai riuscito a scampare ai pericoli della Montagna. Il solo pensare di continuare era una follia. Ma il ragazzo non avrebbe rinunciato a raggiungere il monastero e, raccolto il proprio giaciglio, le razioni e il boccione di sakè dallo zaino lacero di Ubotai continuò la scalata da solo. Ma l’impresa si rivelò troppo ardua per un ragazzino di dodici anni. Quando calarono le tenebre sul mondo, Aran non riuscì a scovare un rifugio sicuro dove trascorrere la notte e così, per non fermarsi e morire congelato, proseguì la sua marcia forzata. Il mattino dopo il fanciullo era esausto. Aveva dato fondo alle sue ultime energie, il suo corpo era stanco e svuotato. Il fanciullo bevve un abbondante sorso di sakè prima di scivolare addormentato sulla soffice neve. Quando riaprì gli occhi, Aran scoprì di trovarsi in una enorme grotta ghiacciata. Era uno spettacolo bellissimo. Stalattiti di ghiaccio pendevano dal soffitto come spade di cristallo. Ovunque guardava, il fanciullo vedeva riflessa la propria immagine. Ma all’improvviso notò un’altra immagine riflessa sulla parete ghiacciata: l’immagine di una donna bellissima. L’immagine lo guardava attentamente, come se fosse la prima volta che i suoi occhi si posassero su un essere umano. «Chi… chi sei? Dove mi trovo?» L’immagine della donna gli rispose, ma Aran non riuscì a capire una sola parola di quello che disse. Quelle parole erano così dolci, però, che Aran si sentì tranquillizzato. «Fatti vedere, bella signora.» E ciò che il fanciullo vide allora gli fece gelare il sangue nelle vene. La donna emerse dalla parete ghiacciata fluttuando. Era come sbiadita, trasparente come il ghiaccio. «Ma tu… tu sei uno spettro!» Gli occhi della donna si rattristarono. «Cosa vuoi da me? Mi ucciderai??» Lo spettro scosse il capo. Poi si avvicinò alla parete di ghiaccio, e passandoci la mano sopra creò un’immagine: Aran vide sé stesso privo di conoscenza e disteso sulla neve. Poi vide la donna avvicinarsi a lui con passo lento, raccoglierlo e portarlo via, nella caverna di ghiaccio. «Tu… mi hai salvato? Ma perché?» Di nuovo la donna passò la mano sulla parete. Questa volta Aran vide la caverna dove si trovava ma invece di essere spoglia, era piena di fiori colorati. Il fanciullo riusciva a sentirne il profumo. Era una primavera soprannaturale. Vedendo quell’immagine calda, Aran sorrise. Anche lo spettro sorrise. «Ti ringrazio di cuore, onorevole spettro. Ma io devo andare. Ero diretto al Monastero.» La donna si intristì di nuovo. Poi, passando un’ultima volta la mano sulla parete miracolosa, apparvero delle immagini terribili: Aran vide i feroci uomini delle nevi; vide dei grandi lupi bianchi e infine, vide Anarishin accovacciato su una rupe, imponente. «Stai cercando di dirmi che sarebbe meglio se io restassi qui con te?» La donna annuì e sorrise. «Ma qui non c’è niente. Morirò senz’altro di fame!» Lo spettro raccolse della neve e gliela porse. «Dovrei mangiare la neve?» Aran si sentiva la gola arsa e così inghiottì volentieri il boccone di neve. Ma sciogliendosi in bocca, la neve non aveva il sapore neutro dell’acqua, né era gelida. Il fanciullo sentì del caldo miele scivolargli giù per la gola, dolcissimo. Così raccolse altra neve, immaginando di mangiare del ramen preparato dalla madre. E quando si infilò in bocca il secondo boccone, la neve scottava ed aveva tutto il sapore della zuppa. Il fanciullo rievocò le figure minacciose dei lupi, degli uomini delle nevi e del terribile Anarishin. Poi guardò la graziosa signora. Era meglio restare, almeno per il momento.
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Per giungere al monastero bisognava prima affrontare una difficile scalata. La neve imbiancava perennemente i fianchi del Monte Otai. Di notte le grida degli uomini delle nevi calavano a valle trasportate dal vento. Valanghe e frane minacciavano ogni sentiero. E infine, c’era anche il pericolo di incontrare il famigerato Anarishin, il giovane drago bianco che infestava la Montagna. Spesso Anarishin, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, attaccava i greggi portando grande devastazione. I pericoli per giungere al monastero, dunque, erano numerosi. Soltanto un uomo in tutta la vallata era in grado di affrontare simili prove. Quell’uomo era Ubotai Khan. Ubotai era un esperto ranger della zona che all’occorrenza si offriva anche come guida. Per un adeguato compenso, ovviamente. Il padre di Aran comprò i costosi servigi di Ubotai, certo che sotto la guida del ranger la vita di suo figlio non avrebbe corso pericoli. «Mi raccomando, non allontanarti per nessun motivo dalla guida. Mi hai capito?» «Sì, padre.» «Non preoccupatevi, onorevole Yonshi. Conosco i sentieri della Montagna come i viottoli del mio selciato. In effetti, la Montagna è la mia casa.» «Non ne dubito, onorevole Ubotai. Ecco a voi il pagamento pattuito…» Il pagamento consisteva in un boccione di ottimo sakè e 5 monete d’argento. Yonshi aveva affidato al figlio una lettera di presentazione scritta dalla Sacerdotessa del villaggio, che il fanciullo avrebbe consegnato al Gran Maestro una volta giunto al monastero, più un dono costituito da due metri di soffice lana. Il padre di Aran non era un uomo ricco, ma un uomo che lavorava sodo. Per mandare il figlio al monastero Yonshi aveva dato fondo a tutto il denaro che possedeva. «Ti saluto come ragazzo e ti rivedrò come uomo. Addio, figlio mio!» E così Aran lasciò il villaggio che lo aveva visto nascere e crescere, per avventurarsi in cima alla Montagna più alta del mondo. Chissà se avrebbe rivisto sua madre e suo padre… chissà se avrebbe rivisto l’orso del bosco. Il fanciullo sapeva cosa lasciava ma non sapeva cosa lo aspettava una volta lì. L’immediato futuro era pieno di interrogativi. I primi cinque giorni di scalata trascorsero tranquilli. Se camminare su una superficie ripida e ghiacciata che rischia di crollarti sotto i piedi da un momento all’altro può definirsi “tranquillo”. Ubotai era un uomo silenzioso, e quelle poche volte che Aran provò a parlargli il ranger lo zittì consigliandogli di mantenere il fiato per la scalata. Di notte si accampavano sfruttando la sicurezza degli anfratti nella roccia, per viaggiare di giorno. Ubotai mangiava per due uomini e beveva sakè per cinque. Era un grande bevitore e una sera che finì la sua abituale razione di liquore, disse: «Il sakè mi ricorda che esiste una valle dove ritornare. Che ovunque ci troviamo non siamo mai del tutto soli. Il sakè mi aiuta a condurre la dura vita che faccio.» Finalmente il fanciullo capì perché Ubotai era sempre così taciturno. «Se resti in silenzio» disse Aran «e non fai alcun rumore… sembra quasi di sentire le voci e i rumori del villaggio…» Quella sera non dissero una sola parola, né fecero rumori. Entrambi ascoltarono la musica del proprio animo.
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Il mattino dopo l’orso offrì ad Aran un po’ di miele e insieme fecero colazione. Era più buono di quanto Aran avesse immaginato. «Se gli dei venissero a conoscenza del tuo miele, te lo porterebbero subito via.» «Secondo te perché vivo in questa caverna sperduta nel bosco?» «Davvero??» «Certo. Adoro vivere in pace.» «Come ti chiami, orso?» «Non è saggio rivelare il proprio nome a uno sconosciuto, anche se piccolo e all’apparenza indifeso. Il nome è molto importante. Ti dice chi sei e il ruolo che hai nel mondo.» «Beh, io sono “Colui Che Porta La Primavera”. E ti ringrazio umilmente per avermi ospitato in un momento di difficoltà.» Disse il piccolo con un inchino. Dopo che ebbero finito di mangiare, l’orso si offrì di accompagnare Aran fino ai margini del bosco. «Con il tuo senso dell’orientamento ti perderesti di sicuro!» Durante il tragitto, l’orso parlò ad Aran di molte cose. Sembrava conoscere ogni creature del bosco, ogni pianta e ogni sasso. Il fiume straripante di parole sommerse il fanciullo finché giunsero a destinazione. «*Sniff!* *Sniff!* Sento odore di uomo. Siamo arrivati.» «Posso venire a trovarti?» «Certo che puoi! Ma la prossima volta non venire con le mani vuote. Porta un po’ di marmellata e del latte.» «Te lo prometto! A presto!» L’orso alzò il capo in segno di saluto e poi si allontanò con passo lento e sicuro finché la sua massiccia figura svanì inghiottita dalle profondità del bosco. Aran corse a casa, dove lo attendeva un duro rimprovero. Il padre era fuori di sé dalla rabbia. «Hai fatto scappare un’altra pecora! Vergognati! Sono stanco del tuo carattere ribelle. Ti stai dimostrando indegno del nome che porti! Non so neanche dove hai trascorso la notte…» «Ho dormito nel bosco. Un orso gentile mi ha ospitato e…» «Quali sciocchezze vai dicendo?» «Ma è la verità!» «Marito, non ricordate le parole della Sacerdotessa? Ci aveva assicurato che nostro figlio è speciale. Lui è Colui che Porta la Primavera…» Uno strano silenzio calò sulla famiglia. La madre, di solito così rispettosa, si era intromessa nella conversazione senza essere interpellata. «Non osare interrompermi, Ukio!» La donna impallidì e prostrandosi in un inchino così rimase, silente. «So io cosa gli serve. E come un giovane albero ha bisogno di un sostegno, così lui ha bisogno di disciplina. Ragazzo, domani all’alba partirai per il monastero.» «Perdono, perdono! Non mandatemi al monastero!» «Così ho deciso.» Il padre di Aran era un uomo buono, ma severo e legato alle tradizioni. Ogni protesta fu inutile e il fanciullo, preso congedo dall’amata madre, il mattino seguente partì alla volta del monastero. Si diceva che il monastero in cima al Monte Otai fosse il più antico del mondo di Toril. Isolati dalla civiltà, i monaci vi praticavano una vita claustrale e piena di difficoltà. I monaci del Monte Otai erano dediti al culto di una divinità morta il cui nome era stato obliato da centinaia di generazioni. Il monastero, infatti, apparteneva al primo ordine monacale, il Vecchio Ordine. Per Aran si preparava un futuro difficile.
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Aran vagò per il bosco alla disperata ricerca di un rifugio dove trascorrere la notte. E proprio quando aveva perso le speranze, i suoi passi lo condussero all’entrata di una caverna. La madre lo aveva spesso avvertito di non entrare mai in quegli antri bui dove, secondo il folklore della sua gente, dimoravano i demoni e gli spiriti. Ma fuori faceva un freddo che si moriva e poi disobbedire era così eccitante… Aran si fece coraggio ed entrò. All’interno della caverna c’era un piacevole tepore e, a giudicare dalla pulizia con cui era mantenuta, doveva essere abitata. In fondo alla caverna Aran vide risplendere una luce. Era senza dubbio un fuoco. Per un momento Aran valutò la possibilità della fuga: con tutta probabilità gli spiriti non si erano ancora accorti di lui. Poteva andarsene e tornare al villaggio con una storia paurosa da raccontare agli amici! Ma la curiosità la vinse sulla paura, e da quel fanciullo sconsiderato che era Aran si affacciò, piano piano, per guardare. Dentro, disteso pigramente su un soffice giaciglio di foglie secche, vide un orso davvero grosso. Quando l’orso russava la pancia gli si gonfiava fin quasi a toccare il soffitto. Ma gli occhi del fanciullo notarono anche qualcos’altro: accanto all’orso c’erano dei barattoli traboccanti di miele. Una vera leccornia. Aran non mangiava da quella mattina e il suo stomaco era in preda ai lancinanti morsi della fame. Sarebbe scappato, d’accordo, ma non prima di aver preso uno di quei barattoli. Così si avvicinò il più silenziosamente possibile, attento a non fare il minimo rumore, ma proprio quando aveva abbracciato un barattolo, l’orso spalancò improvvisamente gli occhi. Aran non ebbe nemmeno il tempo di urlare che l’animale lo atterrò con una poderosa zampata. «Non mangiarmi! Non mangiarmi!» Implorò il fanciullo, nell’infantile speranza che l’orso riuscisse a capirlo. «Mangiare un ladruncolo come te mi causerebbe solo una tremenda indigestione!» Rispose l’orso arrabbiato. «Cosa?! Ma tu parli!» Aran non poteva credere alle sue orecchie. Quel grosso orso gli aveva parlato! «Sicuro che parlo. E adesso vattene dalla mia caverna prima che mi arrabbi sul serio. Disturbare il sonno di un orso in questo modo. Bah!» «Ma fuori fa’ freddo, ed io mi sono perduto… lasciami trascorrere qui la notte.» L’orso sbuffò. Era evidentemente seccato dalla presenza del ragazzino, che considerava un imprevisto. «E sia. Ma solo se prometti di non toccare il miele.» «Prometto!» Questa fu la prima promessa che Aran rispettò nella sua vita. Il fanciullo scoprì che mantenere una promessa lasciava una sensazione piacevole, migliore anche del miele. Aran si distese vicinissimo al fuoco, nella speranza che il calore della fiamma lo riscaldasse, ma presto il falò si spense e il fanciullo rimase inerme al gelo notturno. Stava per morire congelato quando sentì una calda pelliccia avvilupparlo: era l’orso. Il bestione lo strinse a sé e in questo modo gli salvò la vita.
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La leggenda dell’orso dormiente ~ Yugi on-na ~ di Jason R. Forbus Esiste un piccolo villaggio di pastori ai piedi del Monte Otai, la vetta più alta di Kara-Tur. Le stagioni sono inclementi in quella terra. Di inverno il vento è così freddo che nessun fuoco può riscaldarti, mentre l’estate il sole è così rovente che la pietra si spacca. Aran nacque in questo villaggio. Esiste una leggenda sulla sua nascita: sembra, infatti, che quel giorno non fosse né freddo né caldo. Per la prima volta da quando gli uomini si erano insediati in quella regione inospitale, giunse la primavera. Un’effimera primavera. Fu così che il padre del fanciullo decise di chiamarlo Aran O-denshi, “colui che porta la primavera”, e questa è la sua grande storia. Sin da piccolo Aran era diverso dagli altri bambini. Odiava condurre al pascolo il gregge. Quei sentieri ripidi e brulli erano il suo incubo e così osservare quelle sciocche, belanti pecore brucare l’erba lo annoiava terribilmente. Appena poteva, il fanciullo abbandonava il suo dovere per correre a giocare nei boschi. Più di una pecora si smarrì per colpa sua, finendo in pasto ai lupi crudeli del Monte Otai. Aran era il disonore della famiglia e il disonore di suo padre, ma non gli importava. Il bosco era un posto troppo divertente per resistere alla tentazione. Volta per volta si inoltrava sempre più oltre, sempre più lontano dai soliti sentieri dei taglialegna. Finché un giorno, seguendo il corso del torrente, Aran perse la cognizione del tempo e non si rese conto del sole che tramontava oltre la vetta innevata della Montagna. E quando Aran scoprì di essersi perduto, era ormai buio per tornare indietro. Aveva dodici anni allora, il giorno in cui conobbe il Saggio.
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Figlio del lupo grigio di Jason R. Forbus Quella notte il vento sembrava ululare. Le capanne erano sul punto di cedere all’impeto delle raffiche da un momento all’altro. Violenti scrosci di pioggia si abbattevano sulla terra trasformandola in fango. Ilkreg pugno di roccia, lo sciamano della tribù, si prostrò al cospetto del Totem. La robusta colonna di legno raffigurava, a grosse linee, un lupo feroce e possente, uno dei molteplici aspetti del dio Uthgar. L’anziano sollevò le callose mani al cielo stellato e, gridando più forte che poteva: «Uthgar! Il cielo piange! Il vento si lamenta! I tuoi figli hanno fame!» Il venerabile sciamano si accasciò a terra, stremato. Ma i suoi sforzi erano stati vani, poiché il vento e la pioggia continuarono a spazzare la terra impietosi. «Uthgar non ci sente, il vento è troppo forte!» Costui era Torkenheim, figlio di Trulkaard e fiero capo della tribù del lupo grigio. L’uomo dagli occhi di ghiaccio, fra lo stupore degli altri guerrieri, si arrampicò sul totem e una volta in cima sollevò il pugno serrato e gridò: «Uthgar! Cento madri e cento figli sono morti quest’inverno! La selvaggina scarseggia e gli uomini di città ci combattono con il fuoco e la magia! Uthgar! Io non ti ho mai pregato e tu lo sai! Ma anche un uomo forte prega quando i suoi fratelli e le sue sorelle muoiono!» Un fulmine saettò dal cuore delle nubi, colpendo in pieno il totem. La forza dell’impatto scaraventò Torkenheim a qualche metro di distanza ma, inspiegabilmente, non lo ferì. Anche il totem era completamente intatto e, agli occhi spalancati degli uomini, parve che il lupo di legno ringhiasse nel vento. Una voce tonante allora si udì, una voce che umiliò la tempesta. «HO UDITO LE VOSTRE PREGHIERE, TORKENHEIM FIGLIO DI TRULKAARD. TEMPI DURI STANNO PER ARRIVARE E TUTTO IL NORD SOFFRIRÀ. MA IO VI DICO: SIATE DEI VERI LUPI GRIGI E CACCIATE QUANDO LA LUNA È PIENA. «QUESTA NOTTE HO BENEDETTO UNA DONNA CON UN FIGLIO. EGLI SARÀ GRANDE.» Detto questo la voce scomparve ma anche la tormenta, goccia dopo goccia, soffio dopo soffio, diminuì di intensità. Lentamente, le nuvole si diradarono, rivelando un’enorme luna piena. Gli uomini sollevarono gli sguardi incantati verso il meraviglioso astro. Era un dono, od una maledizione? La pelle si coprì di folto pelame grigio; i volti si allungarono nei musi di lupi feroci; le membra si irrobustirono e dalle mani guizzarono degli affilati artigli. Un odore, fino ad allora impercettibile, giunse alle narici dei licantropi che proprio allora salutavano la luna: odore di carne. Il branco affamato corse a perdifiato nella notte, seguendo la scia invisibile che si faceva sempre più pungente. Dopo mezz’ora di marcia forzata, il branco si imbatté in una dozzina di renne: le creature erano stanche e ferite, una facile preda per i licantropi che non persero tempo a farle a pezzi. Tornati al villaggio, i lupi affidarono la selvaggina alle loro compagne. Bisognava vederle le lupe, mentre difendevano ad artigli tratti il cibo dall’ingordigia dei lupacchiotti. Quando la luna sprofondò al di là dell’orizzonte, la maledizione si spezzò cosicché uomini e donne tornarono alle loro sembianze originali. Un guaito di cucciolo salutò il giorno nascente. Proveniva dalla tenda di Egrid la guaritrice. Allora Torkenheim e Ilkreg, memori delle parole di Uthgar, accorsero a vedere. Entrando nella tenda i due uomini trovarono la giovane donna intenta ad allattare un neonato avvolto in un pellicciotto di lupo bianco e, ben sapendo che Egrid non aveva alcun uomo, Torkenheim il capo e Ilkreg lo sciamano si inchinarono al cospetto di colui che riconobbero come il figlio di Uthgar. Il fanciullo, forse, era la risposta del dio ai tempi duri predetti dalla profezia. Lo chiamarono Nokinair, che nella variante dell’illuskan parlata dai barbari uthgard vuole dire “figlio del lupo grigio”. Un giorno Nokinair avrebbe sconfitto i malvagi signori del nord e liberato la terra dalla tirannia. Un giorno il potente guerriero avrebbe condotto il suo popolo a sud, verso grandi conquiste, e fondato l’immenso Impero di Gundfang. A lungo i bardi narrarono l’epopea del Fiero Signore. Ma con lo scorrere inesorabile delle ere, anche le sue gesta sono state dimenticate e tutto ciò che è rimasto è la storia di un uomo che sfidò il mondo intero… e vinse.
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Quando ripresi conoscenza mi trovavo nello stesso, lurido angolino dove dormivo prima di imbattermi in Dunk. Per un brevissimo istante pensai che si fosse trattato di un incubo, ma guardando il pugnale e le mie mani imbrattate di sangue capii che no, non l’avevo sognato. Strano, ma la mia coscienza era sgombra da qualsiasi rimorso. Pensai a Dunk, a com’era morto per proteggermi. Vacillai: il dolore era ancora troppo vicino. Quella notte conobbi me stessa. Perché un’altra ragazza al mio posto si sarebbe costituita alle guardie o avrebbe atteso immobile lo scorrere degli eventi. Io scelsi un’altra via. Al momento decisivo, il mio istinto di conservazione ebbe la meglio su tutto. Sciacquai le mani e il pugnale in una pozzanghera e mi allontanai scomparendo nelle tenebre. Sin da allora conoscevo abbastanza bene questo sporco mondo da sapere che le guardie corrotte si sarebbero intascate il borsello del marinaio e mi avrebbero accusata di furto e omicidio. Per un pugno di soldi e minacce, il vecchio oste avrebbe testimoniato a loro favore. Per me non restava altro da fare che lasciare Baldur’s Gate, dove avevo vissuto per un anno. Un lungo anno in cui da ingenua fanciulla ero diventata una donna. Avevo sedici anni allora, quando cominciai a peregrinare in giro per il Faerûn. La paura della legge mi indusse a viaggiare di città in città, anonima e silenziosa come un’ombra. Fui obbligata a compiere altri crimini per sopravvivere. All’inizio piccoli furti, quel tanto che bastava per tirare avanti. Ma poi mi spinsi sempre più oltre, finché uccisi di nuovo. E poi ancora, e ancora… Con il tempo ci presi gusto. Per la prima volta nella mia vita ero io a scegliere, io a comandare, io e soltanto io. Nel corso dei miei viaggi ho appreso i segreti della Via e raffinato le tecniche; ho conosciuto altri come me: nobili o corrotti, innocenti o colpevoli, vivi o morti. Ma per tutti vale la stessa regola, la stessa religione: la lama silenziosa taglia meglio. Due anni or sono conobbi Ezkar, un mago dalle vesti rosse. Fu lui a convincermi a seguirlo fino a Thay, dove diventammo soci in affari e non impiegammo molto a farci una discreta reputazione. Io mi servivo delle sue conoscenze per procurarmi i “lavori”: affari complicati, politica e quant’altro. Ma una pugnalata dietro la schiena risolveva ogni problema, garantito. Ad essere sincera i maghi non mi sono mai piaciuti. Troppo astuti e pericolosi per potersi fidare di loro… Immaginate, dunque, la mia sorpresa quando Ezkar confessò di amarmi. “Lasciamo stare questa vita. Abbiamo abbastanza soldi da vivere bene per il resto dei nostri giorni. Andiamo via, io e te, e ricominciamo tutto daccapo.” Povero, stolto Ezky. Gli tagliai la gola nel sonno e fuggii con i soldi. La nostra unione era conclusa, eh eh. Forse quei bifolchi dei miei compaesani avevano ragione su di me, forse sono davvero una “strega”. Fatto sta che adesso ho una taglia sulla testa. Ammonta a 3,500 pezzi d’oro, se non sbaglio. Senza la protezione di Ezkar, la nazione di Thay mi considera una pericolosa fuorilegge. Devo trovare un altro mago rosso e guadagnarmi la sua fiducia, se non voglio che la morte venga a bussare alla mia porta anzitempo. Solo allora potrò dormire sonni tranquilli. Credo. La gente mi conosce come Ombra Rossa, ma in qualunque modo vogliano chiamarmi io non devo rispondere ad altri che a me stessa. Dopo tutto chi ha mai detto che sarebbe stato facile? Vivere, intendo.
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La lama silenziosa taglia meglio! di Jason R. Forbus “Muovi il culo, sorellina!” “Un’altra pinta di birra a questo tavolo, occhi belli!” Chi ha mai detto che sarebbe stato facile? Vivere, intendo. Quando sei la sguattera di una bettola puzzolente, la vita non è tutta rosa e fiori. Perché scrivere delle mie memorie? Per rammentare a me stessa che ho il cuore dannato? Forse per ritrovarmi in queste pagine, fra qualche anno, e scoprire che i petali della mia vita sono appassiti come la rosa che stringo in pugno. Non fa differenza. Il babbo era morto l’anno prima. Ricordo che una sera tornò dai campi con un febbrone da cavallo e il dottore ci disse che non sarebbe sopravvissuto alla notte. Aveva ragione. La gente se ne infischiò. La vita era già abbastanza dura a causa della carestia e delle tasse del connestabile, perché preoccuparsi della vedova O’Leary e figlia? Gli usurai si portarono via tutto. Anche quei quattro stracci che avevamo addosso. Mi piace pensare che mamma morì di dolore per la scomparsa del babbo, ma la realtà è che quell’inverno fu particolarmente rigido e le pietre del vecchio mulino erano fredde e piene di spifferi come una tomba. Al villaggio i superstiziosi e i maligni cominciarono a mormorare: “È la figlia” dicevano “la giovane O’Leary è una strega. È stata lei a far ammalare i genitori! Avete visto i capelli? Sono rossi come le fiamme dell’inferno. Presto quella strega verrà a prendersi i nostri bambini!” Altre porte si chiusero. Altre teste si voltarono al mio passaggio. Sola e miserabile, lasciai il villaggio a bordo di una carovana diretta a Baldur’s Gate. Lì restai nascosta per due giorni, succhiando il sangue appiccicoso dai ventri squartati dei maiali. Il pasto migliore che avevo da mesi. Non ero mai stata in una città prima di allora. All’età di quindici anni il mondo è un luogo pieno di meraviglie e, malgrado tutti i miei guai, mi sentivo piena di vita. Mi sarei trovata un lavoro, avrei messo su un sacco di soldi e sarei diventata ricchissima… Quando sei una ragazzina di campagna ci credi a certe cose. È sempre la solita storia: in città le strade sono lastricate d’oro e tutto il resto. Ben presto capii che mi sbagliavo. La gente di città era peggio di quella del mio villaggio. Nessuno si curava di una ragazzina sporca e cenciosa, nessuno. Provai dunque ad elemosinare e all’inizio le cose andarono benino. Ma una sera un mendicante, un uomo che reputavo mio amico, mi pestò di botte e si portò via quella moneta d’argento che avevo faticosamente risparmiato… Lo guardai con gli occhi lividi di pugni e di lacrime mentre, in locanda, banchettava con il mio denaro. È così che conobbi l’odio. Stanca, infreddolita e affamata scivolai nella stalla, dove mi adagiai sul fieno. Non riuscii neppure a chiudere gli occhi, però, che sentii afferrarmi da due forti braccia. “E tu chi sei?” Era un ragazzo, poteva avere al massimo un paio di anni in più a me. “E cosa ci fai qui?” “Cerco solo un posto dove passare la notte… ti prego, non picchiarmi!” Solo allora il ragazzo parve accorgersi dei miei lividi. “Chi ti ha fatto questi segni?” Ma io non risposi e scoppiai a piangere. “Non piangere…” e porgendomi uno straccio “… tieni, asciugati quegli occhioni tristi. Io sono Duncan, ma tutti qui mi chiamano Dunk. E tu?” “S-Sarah, Sarah O’Leary.” “Ti andrebbe del latte caldo, Sarah O’Leary?” Annuii entusiasta e Dunk, senza aggiungere una parola, sgusciò via dalla stalla. Pochi minuti dopo era di ritorno con una tazza di latte fumante fra le mani. La tazza di latte mi ricordò giorni più felici, quando il babbo e la mamma erano ancora vivi e allora piansi, piansi moltissimo… Dunk lavorava come garzone alla locanda e confessò che, nella penombra, mi aveva scambiata per un ladro di cavalli. Ricordo che lo trovai molto coraggioso. Fu grazie a lui, comunque, che l’oste accettò di assumermi come sguattera. Il lavoro era terribile. Dovevo sopportare in silenzio le continue allusioni sessuali che gli avventori mi sputavano addosso con quelle loro linguacce da ubriachi… Ma la compagnia di Dunk e la sicurezza di un pasto caldo e di un tetto sopra la testa mi sostenevano anche nei momenti più duri. Con il passare dei mesi, mi affezionai a quel ragazzo forte e di buon cuore che mi aveva tolta dalla strada. Ci eravamo promessi che un giorno avremmo aperto una locanda tutta nostra. Sembra ridicolo, ma era il nostro grande sogno. Già mi vedevo indaffarata ai fornelli, aiutata dai miei ragazzi. Sì, perché in quel sogno c’erano anche i figli, i nostri figli. Ma il destino, si sa, lavora per conto suo e nel mio caso aveva in serbo tutt’altri progetti… Accadde una notte sul tardi: Dunk era uscito a controllare la stalla, mentre il vecchio oste russava già da un pezzo. Era rimasto un solo cliente, quello che doveva essere un marinaio a giudicare dalla pittoresca parlantina con cui aveva fatto le sue ordinazioni. Il marinaio si era scolato molte, troppe pinte di birra e dormiva con la testa appoggiata sul tavolo… la prassi, insomma. Mi avvicinai per svegliarlo ed invitarlo cortesemente alla porta quando l’uomo si destò all’improvviso e, con una rapidità sorprendente, mi stritolò il polso. “Sei davvero un bel pezzo di figliola… ti va di spassartela?” “Mi… mi lasci stare! Devo chiederle di uscire, la locanda sta per chiu…” Non ebbi il tempo di finire che l’uomo estrasse un pugnale e me lo puntò dritto alla gola. “Io non vado da nessuna parte e tu, se ci tieni a quei begli occhioni verdi che hai, farai esattamente come ti dico…” Mi fissava con uno sguardo rosso e umido, uno sguardo da ubriaco. Capii subito che faceva sul serio e preferii obbedire. Il marinaio mi condusse alla porta. La paura mi aveva bloccato… non riuscivo a pensare ad altro che al pugnale, che adesso l’uomo mi teneva puntato dietro la schiena. Ci allontanammo di qualche passo ed io mi davo già per spacciata quando Dunk, sbucato dall’ombra, diede un poderoso strattone al mio assalitore. L’uomo cadde a terra ma, prima che Dunk potesse gettarcisi addosso, si era già rialzato e con una prontezza letale lo feriva al cuore. Forse il marinaio aveva sbagliato mira, forse non voleva colpire per uccidere… Fatto sta che Dunk indietreggiò di qualche passo e, guardandomi con gli occhi sbarrati dallo stupore, balbettò: “M-mi dispiace…” Un attimo prima di accasciarsi al suolo, morto. Quel che accadde dopo lo sa soltanto il diavolo. Ricordo un impeto di rabbia, ricordo di aver raccolto il pugnale che l’assassino aveva lasciato cadere a terra… poi un velo rosso sangue copre ogni cosa… Mi vedo in fuga, con il pugnale stretto saldamente nel pugno e il cuore che mi martellava in petto… quell’ardente sensazione di libertà e l’appagamento di una vendetta compiuta… In quel bagno di sangue mi sentii rinata.
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Dopo un lavoro titanico durato un paio di mesi, ecco finalmente l'ambientazione "La Notte Eterna" completata, o quasi... mancano giusto due-tre supplementi, ma l'ambientazione è di per sé giocabilissima anche così. Per quanto riguarda le mappe necessarie inviatemi pure una mail su: travelerinthedark@yahoo.it Provvederò a farvele avere al più presto. Grandi gesta a tutti voi, Renis
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il libro dellen fosche tenebre è davvero ingiocabile per i pg.. d'altronde lo dice l'introduzione stessa del manuale, utilizzando parole diverse. d'altro canto imprese eroiche è un supporto straordinario per creare pg eroici e, allo stesso tempo, fortissimi. grandi gesta a tutti voi, renis arlan della città degli splendori
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talenti Nuovo talento x elfi o mezz'elfi
Renis ha risposto alla discussione di Renis in D&D 3e regole
*sigh* ma infatti bisogna fare almeno un passo di 1,5 m per utilizzare il talento, credevo si fosse capito. comunque sia, è vero che elfi e mezz'elfi, se cresciuti in comunità elfiche, possiedono l'abilità dal primo livello, ma ciò non significa che soddisfano i requisiti (ovvero i gradi necessari). ebbene sì, un guerriero elfico nato e cresciuto fra la sua gente non avrà imparato a ballare la polka nanica ma tantomeno destreggerà la danza elfica. ciò significa che è giustifica a mettere gradi nell'abilità, se lo desidera, ma per lui rimarrà comunque un'abilità di classen incrociata. detto questo chiudo, almeno da parte mia, la discussione. le vostre argomentazioni non possono che migliorare questo talento che, spero, troverà spazio in qualche campagna lontana. ode allo straniero - egli ha veduto il sole un'ultima volta. grandi gesta a tutti voi, renis -
talenti Nuovo talento x elfi o mezz'elfi
Renis ha risposto alla discussione di Renis in D&D 3e regole
un +3 a CA è piuttosto superfluo rispetto alla possibilità di disintegrare un nemico con 7 spadate - vedi ranger 3.5. inoltre, per come la vedo io, i movimenti della danza elfica non impegnano il pg a tal punto da permettergli di sferrare un solo attacco. il talento è, poi, di per sé equilibrato dato che i requisiti non sono decisamente alla portata di tutti (tanto per cominciare, intrattenere è un'abilità tipica di bardi e ladri e un ranger od un guerriero dovrebbero metterci gradi come abilità di classe incrociata e, quindi, impiegherebbero un bel pò di livelli prima di soddisfare i requisiti per ottenere il talento). detto ciò, rinnovo il mio invito ai DM a gestire il talento con tutta libertà e a propria descrizione. grandi gesta a tutti voi, Renis Arlan -
talenti Nuovo talento x elfi o mezz'elfi
Renis ha risposto alla discussione di Renis in D&D 3e regole
danza elfica è, innanzitutto, un'abilità (che solo gli elfi e i mezz'elfi, grazie all'addestramento marziale ricevuto sin da fanciulli, possono avere dal 1 livello, o almeno io la vedo così). obiettivamente avete ragione a considerare il "movimento equivalente a un passo di 1,5 m" un'incongruenza, ma il talento sarebbe davvero superfluo se, un ranger di 15 livello che possedesse il talento danza elfica e vorrebbe utilizzarlo, dovesse rinunciare al suo straripante attacco completo soltanto per aumentare la propria CA di qualche misero punticino. ndr per quanto riguarda le opzioni "fallimento critico" e altre, quelle sono a discrezione di qualsiasi DM. io ho scritto il talento con l'intenzione di rinfrescare e particolareggiare ancora di più il gioco di D&D e sarei estremamente soddisfatto se voi colleghi DM là fuori utilizzereste danza elfica nelle vostre campagne.. con questo vi auguro di compiere grandi gesta, il vostro umile Renis Arlan, guardia di Waterdeep -
danza elfica è un talento che, oltre a distinguervi dai bardi umani, vi permetterà di sfruttare l'agilità del vostro pg per aumentare ulteriormente la CA. grandi gesta a tutti voi, Renis Arlan di Waterdeep
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grazie mille! un'interpretazione magistrale de l'ultima nota! ma se nn mi sbaglio la propagazione è ad area.. sarò impazzito? grandi gesta a tutti voi!
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cosa essere progetti, ja?
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eccovi alcuni incantesimi divertenti (e allo stesso tempo forti) per rinfrescare il repertorio magico delle vostre campagne. anzi invito chiunque abbia inventato nuovi incantesimi ad inserirli in questo topic. grandi gesta a tutti voi, renis