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Ciao a tutti, Io sono un grandissimo estimatore di Tolkien, per tutta una serie di meriti che sono troppi per poter essere elencati, però mi capita molto spesso di incontrare persone che lo considerano uno autorucolo buono solo per scrivere romanzetti di serie Z adatti esclusivamente ai bambini. In questo Topic vorrei che mi deste la vostra idea di Tolkien, quanto è stato importante per la letteratura e ciò che pensate delle sue opere. Grazie in anticipo a tutti. P.S: di solito questa sezione del forum e più in generale i topic in cui si chiede un confronto vengono notati poco. Spero che in questo casa non sia così, visto che si tratta di un argomento che mi preme particolarmente.
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Richiesta feedback su incipit racconto Sword&Sorcery "Cercasi Ammazzamostri"
EmmaJTurner ha inviato una discussione in Libri, fumetti e animazione
CONTENUTO RIMOSSO PER RICHIESTA DELL'AUTORE -
"Lei che divenne il sole" di Shelley Parker Chan
MadLuke ha inviato una discussione in Libri, fumetti e animazione
E' una trasposizione della nascita della riconquista della Cina ai danni dei barbari mongoli e della nascita della dinastia Ming con un vago alone fantasy. L'attenzione maggiore dell'opera è sicuramente riservata con merito all'approfondimento psicologico di numerosi personaggi, anche dei comprimari. Ne vengono messe in evidenza sia le ambizioni e paure più intime, le ambiguità e le contraddizioni individuali che la chiave d'interpretazione delle relazioni tra ognuno di loro. Anche l'amore e il sesso sono sviluppati con grande spessore e cesellati di modo da completare in maniera integrale l'intreccio narrativo, in maniera estremamente credibile come forse un'autrice donna genericamente sa fare meglio di un uomo. L'unico neo secondo me è che a differenza del tono intrepido che promette la quarta di copertina, ci si trova invece davanti a un'opera che fondamentalmente è una ricostruzione storica (al netto di qualche trascurabilissima digressione sul mondo degli spiriti) e disanima dell'animo umano, nulla a che vedere con le avventure fantasy che vengono normalmente annoverate nello stesso genere. Voto: 4/5 -
...un consiglio spassionato: leggete "Io, Caterina" di Francesca Riario Sforza. Il romanzo si principia proprio nel periodo attorno alla congiura di Santo Stefano, cui si fa accenno nella intro del videogioco. Poi prosegue fino agli ultimi giorni della protagonista. Ed trovo sia anche scritto molto bene, inframezzando i grandi eventi politici e intrighi di palazzo, con pillole di vita quotidiana che rendono l'idea di cosa significasse vivere in quel Basso Medioevo tra Roma, Firenze, Milano e Romagna (aggiungo: chi segue il prof. Barbero può già avere un'idea dello stile cui alludo). Ciao, MadLuke.
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Ho recentemente iniziato a scrivere un libro fantasy, dopo aver fatto vari tentativi con storielle minori. L’incertezza e la paura sono forti in me, quindi pensavo di condividere in questa sezione (che mi pare di aver capito essere quella giusta) i primi estratti del racconto, per sapere un po’ di vostre opinioni e migliorie!
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Non c’è capitolo in cui l’autore non esprima pregevole conoscenza dei luoghi e trame della storia antica che rivive, ovviamente frammista alla sua fantasiosa narrazione, nella pagine del romanzo. Mi sembra tuttavia che i suoi meriti non vadano molto oltre: ho trovato i primi capitoli parecchio lenti e ripetitivi. Solo la seconda parte a mio parere mostra un crescendo di tensione narrativa, che lo trasforma un po’ in un bel libro d’avventura per ragazzi, però. La pecca maggiore è la mancata caratterizzazione dei personaggi, compreso il protagonista, tratteggiati sempre solo superficialmente se si eccettua una manciata scarsa di loro riflessioni o riminiscenze, che comunque non vanno mai a contribuire all’intreccio. In definitiva credo che nonostante sia innegabilmente un romanzo, l’opera sia più utile per conoscere un poco le vicende dell’Impero Romano D’Oriente, per noi occidentali focalizzati su Roma, pressoché sconosciute, che per lasciarsi trasportare dall’intreccio, parecchio appiattito sulla successione di combattimenti e battaglie. Voto: 3/5
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I bardi - Progetto di creazione background
il signore oscuro ha inviato una discussione in Libri, fumetti e animazione
dopo averci pensato un po' ho pensato di propormi per creare dei back ground a giocatori che me lo chiedono. ditemi che personaggio volete creare, il vostro indirizzo di posta elettronica e vi mando il testo che vi creo. -
HEXIS di Francesco Rizzo _ Questo romanzo non include elfi, nani, vampiri o altre creature di fantasia già viste. I personaggi sono quasi tutti umani. _ Notte. Lenzuola di seta nera. Lui aveva un piccolo libro tra le mani. Un libro di carta ingiallita e dai bordi sgualciti. Copertina in pelle scura ruvida al tatto. Ebbe la sensazione che non fosse suo, che fosse un regalo. Lui era steso sulla schiena su un basso letto di legno intarsiato, senza cuscino, il cui lato sinistro era addossato a una parete di pietra chiara, liscia, imperfetta. Si mise più comodo per leggere meglio, ma dopo un momento si sentì più scomodo di prima. Non riusciva a trovare la posizione giusta. “Forse coricandomi su un lato”. Vide un cuscino di seta nera arabescato con motivi grigi scuri su una sedia di paglia accanto al letto e se lo mise sotto la testa, a contatto con l’orecchio destro, dando le spalle alla parete. Le frasi scorrevano l’una dopo l’altra come pesci nel mare di Prastol, nella parte nord della città. L’antica città che occupava tutto il mondo. Il libro parlava di unguenti, pozioni e profumi magici. “Lettura intrigante, andrebbe meglio per un mago, forse non è adatta a me …”. “Me…”. Avvertì un vuoto. “Ma io … ? … Io? Sono un mago? Chi sono?”. Le sue pupille si dilatarono. “Come mi chiamo?”. Chiuse di scatto il libro, che sparse pulviscolo nell’aria, e lo lasciò sul lenzuolo di seta nera. Colto da quell’ultima domanda, si mise seduto sul letto e si sentì anchilosato. La stanza era ingiallita dal chiarore di una grossa candela color crema che emanava dal basso un odore pungente di rosmarino. Sentendo quell’odore egli pensò subito “Rosmarino, utile per la memoria”. La candela era su un comodino antico di quercia. Negli angoli delle pareti in pietra, il chiarore veniva inghiottito dall’oscurità. Lunghe ombre venivano lanciate a raggiera dai tanti oggetti disordinati nella stanza. Si alzò e si ritrovò in piedi su uno spesso tappeto di pelliccia scura. La sensazione di non sapere nulla gli fece tremare l’indice destro. “No, non può essere. Diciamo che mi chiamo … Noro. Ecco, la prima parola che mi viene in mente”. La sensazione datagli da quel nome usato come palliativo durò poco, ed egli per qualche motivo iniziò a muoversi lentamente, teso, sentendosi braccato. Ma poi ebbe una piccola intuizione: si fermò, prese in mano il libro, lo riaprì e controllò a che punto fosse il segnalibro. Era a pagina 30. Lui prese un piccolo respiro di sollievo, un po’ forzato. Per qualche motivo si ricordò che la respirazione poteva essere usata come un calmante temporaneo, e pensò: “Se sono rimasto qui a leggere trenta pagine, ci avrò messo un po’, di sicuro più di qualche memne. Facciamo … tre memne per pagina, per un totale di novanta memne. Quindi sono rimasto qui a leggere indisturbato per un centinaio di memne. Nessuno è venuto a uccidermi, ferirmi, torturarmi o intrappolarmi”. E poi pensò:“E perché qualcuno dovrebbe venire a uccidermi?”. La sensazione di essere braccato lo braccò. Iniziò a inseguirlo come una preda nel buio, mentre era lì fermo e avrebbe voluto iniziare a correre a perdifiato. Lasciò il libro sul letto. Strinse il pugno destro, se lo portò al mento e poi aprì le mani davanti al suo sguardo. Erano mani affusolate, giovani, leggermente abbronzate, senza segni di alcun tipo. Si guardò attorno nervoso, cercando nella stanza qualcosa di familiare. Qualcosa da ricordare. Quadri e libri impilati indistintamente l’uno sull’altro. Mucchi di vestiti e qualche pelliccia folta e scura buttata in un angolo. Un alto mobile in legno di ciliegio alla sua destra con tanti cassetti, il primo in alto dei quali aperto al massimo della sua estensione, un po’ inclinato verso il basso. “Ma che disordine, io non vivrei mai in una stanza così … eppure sono stato sul letto a leggere, come se fosse casa mia. Sono in casa mia, oppure in casa di qualcuno che conosco bene”. La notte dalle grandi ombre non aiutava. Noro guardò alla sua sinistra e vide una grande porta a vetri aperta, decorata con sottili forme in legno raffiguranti rampicanti. Dava su un balconcino in pietra scura. Lui si affacciò acquattandosi per non essere visto e con le scarpe nere che indossava calpestò dei pezzi di vetro. L’oscurità sembrò prendere consistenza, come una grossa nube di fumo nero che circondava l’edificio in cui lui brancolava. Là fuori non vide luci né persone. Solo il buio. I suoi occhi si abituarono alla mancanza di luce e lui vide la cima di qualche eucalipto poco lontano illuminato appena dalla candela. Si voltò e guardò in alto. La facciata della torre su cui lui era si perdeva nel buio dei piani superiori. E il cielo era tutto nero. Lui ebbe la sensazione di doversi trovare almeno al terzo piano. Iniziò a dire a bassa voce «Aiuto …», poi appena un po’ più deciso «C’è nessuno?», poi prese un grosso respiro per urlare aiuto, ma all’interno della stanza il cassetto aperto che sporgeva dall’alto mobile in legno di ciliegio cadde, sbatté per terra e fece un fragoroso rumore di ferraglia. Quel rumore lo fece paralizzare per un attimo, ma lui si sforzò di reagire e sgattaiolò silenzioso verso l’angolo della stanza al lato opposto al balcone, vicino al letto, dietro a un paravento di pergamena chiara, nell’ombra. Il rumore percorse la torre echeggiando. Primo rimbombo. Secondo rimbombo. Un ultimo, tenue rimbombo lontano. Nello spazio racchiuso dal paravento, egli intravide uno specchio tondo, grande due palmi, di fattura imperfetta, dalla cornice in avorio su cui si intravedevano dei rilievi raffiguranti piccole ballerine con lunghe gonne. Noro tenne lo specchio in una mano e, a passi leggeri e veloci, scavalcando gli oggetti accatastati nella stanza e il cassetto appena caduto, andò a chiudere la porta. Un cigolio grave. La porta era in legno spesso, e Noro non guardò al di fuori per la fretta, mentre la chiudeva. Una volta chiusa, essa fece un piccolo scatto rassicurante. Una piccola chiave, come una chiave che chiude un piccolo scrigno, era nella toppa. Lui fece scattare la serratura bloccandola. Si mise con la schiena contro la porta e rifiatò. La fiammella della candela iniziò a tremolare, descrivendo delle piccole e fugaci spirali che fecero vibrare le ombre nella stanza. In quella situazione di illuminazione incerta, lui guardò il suo volto nello specchio. Era bello? Era brutto? Non riuscì a capirlo. La sua pelle liscia non presentava imperfezioni né rughe né barba né baffi. Aveva capelli corti biondo cenere leggermente ricci e sopracciglia leggermente più scure di essi. Ebbe la sensazione di non avere alcun concetto di bellezza in mente. Si guardò nei suoi occhi verdi “Almeno i colori li ricordo” e iniziò a ricordare tutti i colori che poté, per aggrapparsi a qualcosa, per evocare altri ricordi, come quando in una musica si sentono poche note e si inizia a sentire il flusso della melodia. “Verde, nero, grigio, bianco, crema, beige, color legno … azzurro, blu, lilla, magenta, giallo, verde limone, arancione, rosso … e specchio”. Per qualche motivo pensò che “specchio” fosse uno dei tanti colori. Ricordò il rosso e sentì un sapore sulle labbra. E visse una sensazione di calore, di passione. Poi ci fu una leggera folata di vento che fece ondeggiare la porta a vetri. Un odore di carne arrosto e di peli bruciati fu portato nella stanza dal balcone. E polvere, polvere giallina dappertutto. La stanza ne fu invasa ed egli si portò una mano alla bocca e tossì. Strizzò gli occhi, andò a chiudere la porta a vetri e vide i granelli di polvere depositarsi a mucchietti sul lato esterno delle decorazioni in legno. Guardò il letto. “Sicuramente un letto di donna. Chi mai userebbe tali intarsi e lenzuola di seta nera? E poi i cuscini arabescati e la cornice dello specchio non lasciano dubbi”. Si lasciò cadere pesante col sedere sul letto e i suoi vestiti tintinnarono. Abbassò lo sguardo per vedere che cosa indossava. Una cotta di maglia. All’altezza del fegato c’era una striscia di anelli rotti. Ricordò all’istante una donna dall’aspetto indefinito. Ricordò che lei gli aveva tirato un fendente, per attacco o per difesa, con una spada dal manico rossastro. Nulla di più. “Un po’ rumorosa questa maglia. Ma forse, se mi hanno tirato un fendente farei meglio a tenerla”. Mosse lentamente le braccia e pensò “Ma prima non faceva rumore. Adesso sì. Va bene, basta”. E se la tolse gettandola dietro al paravento, rimanendo così vestito di una maglia nera a maniche corte, pantaloni neri lunghi e stivaletti neri. “Strano, qualcuno ha tolto i tacchi a questi stivaletti. Certo che sembrano proprio da donna”. La sensazione di essere totalmente solo lo attanagliò per un istante. Un rumore. Da oltre il soffitto. Un rumore stridente, come di una sedia fatta strisciare su un pavimento in modo maldestro. Il rumore si fermò, e Noro fissò il soffitto con orecchio teso. Di nuovo quel rumore. E poi un tonfo. Noro passò qualche istante a pensare o, meglio, a farsi sopraffare dall’istinto. Per un miscuglio di curiosità e di incoscienza si alzò dal letto e iniziò a camminare lento e tremante verso la porta. Fece girare la chiave con lentezza senza fare alcun rumore e aprì l’uscio di appena una spanna. Guardò fuori. Davanti a sé vide nella penombra una scala in roccia a sezione quadrata le cui rampe correvano lungo le pareti attorno a una tromba il cui raggio era di circa due metri. Corrimano in ferro battuto spartano. La luce di una lanterna proveniva da un qualche piano più in alto, riflettendosi sui larghi mattoni biancastri delle quattro pareti. Verso il basso tutto diventava buio. Scivolò oltre la porta. Si sforzò di calmarsi per essere il più silenzioso possibile. Per qualche motivo si immaginava nascosto in un armadio in attesa che un mostro nero al di fuori di esso se ne andasse. Si immaginava impegnato a calmare il proprio respiro, in modo che esso fosse via via meno rumoroso. Scacciò quei pensieri dalla testa e mise il piede destro sul primo gradino, poi il sinistro. Niente. Nessun rumore. Nessun mostro. “Bene”. Salì lentamente per la scalinata guardando verso l’alto, poi guardò alle sue spalle e poi verso il fondo della tromba delle scale. Le lontane mattonelle in madreperla del pavimento del pianterreno riflettevano debolmente la luce della lanterna e su di esse lui vide la grande ombra proiettata dalla sua testa. Lui si grattò lo stinco destro e sentì qualcosa di duro. Fece scivolare le dita in una tasca e con sua sorpresa toccò l’impugnatura di una lama. La estrasse. Era una bella lama incisa con motivi che ricordavano onde marine. Era lunga quanto il suo avambraccio ed era tutta di metallo nero. Noro giunse al pianerottolo superiore illuminato da quella lanterna appesa al soffitto. Lui aveva la lama nella mano destra e si ritrovò di fronte a tre porte di legno chiaro. Due di esse, alla sua sinistra, avevano la maniglia impolverata. Alla sua destra, invece, la terza aveva segni di ditate sulla maniglia. Noro diede un colpetto alla porta facendola aprire lentamente. Il cuore gli batteva rumorosamente, sempre più veloce. Aveva gli occhi spalancati e la lama gli tremava in mano. La stanza fu illuminata dalla lanterna appesa sul soffitto, sotto cui Noro stava in piedi in posizione d’attacco. __________ Altri 30 capitoli qui https://www.wattpad.com/story/119809758-hexis
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Le zecche avevano reso la vita impossibile a tutti nel sistema. Non era la considerazione di pochi soliti agitatori, bensì una consapevolezza che via via crescrendo, aveva raggiunto strati sempre più ampi tra gli abitanti, fino a diventare pressoché unanime. Si, qualche zecca c’era sempre stata, ma non aveva mai costituito un problema realmente degno di nota. Qualche comare se ne lamentava, ma a qualcun altro finivano per dare pure da mangiare, cosicché al netto di qualche borbottio, la questione tornava puntualmente sotto il tappeto. Da qualche tempo però la situazione si era fatta ben diversa: non c’era creatura che non se ne lamentasse; erano ovunque a dar tormento a ogni ora del giorno, qualunque cosa si facesse, che le s’ignorasse o si cercasse di scacciarle. E a dimostrazione del fatto che fosse stata inequivocabilmente passata la misura, una certa voce aveva preso a circolare tra tutti gli animali. Per la verità qualcuno l’auspicava da tempo, qualcun altro si limitava a sperarlo segretamente, altri avevano avuto l’audacia di reclamarlo a gran voce (ancorché a nessuno era mai parso che tali invettive sortissero alcuna conseguenza di sorta) e ovviamente altri paventavano che la toppa si sarebbe alla fine rivelata peggio del buco. In ogni caso non c’erano più dubbi ormai che l’uomo sarebbe intervenuto nella questione. L’uomo era una creatura estremamente particolare, perlopiù indecifrabile. Taluni lo ritenevano in qualche modo “uno di loro”, altri giuravano non avrebbero mai avuto nulla a che spartire con lui. Certo era che lo si vedeva molto raramente, ancorché quasi tutti erano pronti ad assicurare di averlo osservato dal vivo almeno una volta nella loro vita, o quanto meno di esserselo fatto raccontare da un vicino congiunto che aveva avuto più fortuna di lui. Ora l’uomo sarebbe intervenuto, e per le zecche non ci sarebbe stato scampo, finalmente sarebbero state fatte fuori, e la calma e l’ordine sarebbe tornata a regnare. Sul come ci sarebbe riuscito però, le voci erano ancora un poco confuse, talvolta in contraddizione tra loro, ma la tesi più accreditata era quella secondo cui egli aveva disposto un prodigioso dispositivo, in grado di attirare su di sé tutti quegli odiosi parassiti, quindi “farli morire”. Proprio su questo si spendevano le congetture più disparate, qualcuno sosteneva doveva trattarsi di un richiamo visivo, altri vagheggiavano si sarebbe udito un particolare verso, altri ovviamente pensavano le avrebbe attirate con un aroma specificatamente studiato allo scopo. E poi “come” sarebbero morte? Intrappolate fino alla morte per fame, per sete? Forse schiacciate o ingoiate? Travolte dall’acqua o bruciate? Non era dato sapere quando il fantomatico dispositivo sarebbe stato azionato, certo a breve, ma almeno un poco di tempo doveva esserci ancora. Per poter andarlo a vedere. Capire. Vedere un po’ come funzionava. Doveva trattarsi di qualcosa eccezionalmente complesso, incredibilmente potente, qualcosa cui non sarebbe più capitato di poter assistere poi per chissà quanti anni. Certo non avrebbero mai dovuto interferire, non potevano rischiare di far insospettire, spaventare, le zecche, altrimenti tutto sarebbe stato compromesso e nessuno desiderava una cosa del genere, ovviamente. Ben si guardava dal compromettere l’operazione il leone, il re, che per troppo tempo aveva dovuto sopportare l’insolenza delle zecche. Ma allo stesso modo non volevano rovinare tutto proprio ora i bufali, così docili e mansueti, non potevano non chiedersi che avessero mai fatto di male per meritarsi una simile seccatura. Al contrario erano invece convinte che le zecche meritassero la morte le formiche, loro così laboriose avevano dovuto fare buon viso a quei parassiti che impunemente avevano invaso il loro territorio, e preso ovunque capitasse senza alcun criterio. Ma a dire il vero per quelle “scroccone” ne a avevano anche le cicale. E i nobili cavalli allora? Un intera comunità oppressa da quelle inestetiche creature. Le volpi erano forse quelle che meno di tutti avevano speso parole sull’incresciosa situazione, ma se non ti fai un po’ furbo è inevitabile che prima o poi finirai per metterti di traverso a quelli sbagliati, pensavano. Gli elefanti non avevano mai smesso di dichiarare che erano troppo grossi perché quelle minuscole pulci potesseo dargli noia, eppure anche loro non potevano negare gli avrebbe procurato una sottile soddisfazione, vedere quei petulanti insetti schiacciati una volta per tutte. E si sarebbe potuto andare avanti a parlare anche degli ippopotami, delle iene e dei canguri. A voler ben vedere non c’era creatura del sistema che più o meno palesemente non desiderasse la fine delle zecche, che fossero sterminate. E non a caso ivi si trovavano infatti tutti, chi in fervida attesa, chi con aria di falsa indifferenza, ad aggirarsi nei paraggi nell’attesa che il dispositivo si azionasse. Non doveva mancare molto ormai, una volta acceso le zecche vi sarebbero piombate sopra da ogni dove, e sarebbero morte. Così almeno si supponeva dovesse andare, qualcosa del genere insomma. Doveva essere questione di poco ormai, da un momento all’altro sarebbe successo. Il tempo di dare solo un’occhiata, vedere l’inizio, e poi si sarebbero ritirati tutti, ognuno per le sue faccende. Solo un momento ancora, e poi sarebbero andati via, per tornare a dedicarsi a ben più importanti faccende. Stavano già avviandosi verso casa sebbene con la coda dell’occhio ancora indugiassero. E un momento dopo furono tutti morti. Tutte.
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Ispirato al Topic "Lezioni di disegno", ecco il posto dove scambiarsi consigli e pareri su come scrivere racconti, romanzi, sceneggiature e tutto ciò che ha a vedere con la narrativa. E' un Topic in cui gli (aspiranti) scrittori potranno insegnare ai novizi le tecniche che usano per produrre le prorpie storie e scambiarsi tra di loro "trucchi". Fatevi sotto!
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Fiaba breve e pubblicità spudorata per me XD
wyros ha inviato una discussione in Libri, fumetti e animazione
Salve a tutti, è da un bel po' che non vedevo questo sito, e devo dire che è migliorato tantissimo. Complimentoni! Volevo usare questo spazio per farmi un po' di volgare pubblicità XD Ho pubblicato una piccolissima, ma piccolissima, fiaba online, molto disimpegnata, fantastica e senza nemmeno una vera "conclusione". Il titolo è IL BOSCO INNEVATO. Mi farebbe piacere se le deste un'occhiata. C'è l'anteprima free ovviamente, e intera costa pochissimo: 1 o 1,5€, a seconda della piattaforma di distribuzione. La cosa più importante, per me, se a qualcuno è interessata e ne ha letto almeno un po', è di sentire le sue impressioni e opinioni a riguardo, sarebbe davvero interessante e costruttivo. Vi ringrazio tutti, ancora complimenti per il sito! Qui metto i link per i principali distributori, ma la trovate anche su tanti altri siti https://www.amazon.com/dp/B01BPTG9PE https://itunes.apple.com/it/book/il-bosco-innevato/id1083762121?mt=11&ign-mpt=uo%3D4 https://play.google.com/store/books/details?id=nQ-QCwAAQBAJ -
La nonna materna era una bizzoca! Frequentatrice di messe e funzioni a tutte l’ore; fedele assidua di sagrestia; presidentessa delle “Dame di S. Vincenzo” (nonostante i poveri la infastidissero); di religiosità non solo tutta esteriore ed esposta!, ma anche vissuta come spazio di potere nel segno di una indiscussa aderenza e conformità alla dottrina della Chiesa cattolica. Uniche leggi per lei, e della sua religiosità, e della sua stessa vita sociale, erano i precetti delle gerarchie ecclesiastiche: in casa sua circolava un solo giornale: “L’OSSERVATORE ROMANO”. Colpa solo sua?, o era stata così impostata, una volta per tutte, per ereditarietà genetica?, poi rafforzata da lunga tradizione familiare piccolo borghese? In queste condizioni avrebbe mai potuto essere di aiuto per una più aperta crescita culturale… e spirituale, delle sue figlie? E mia madre, aveva ereditato, a sua volta, parte del patrimonio genetico, ed era vissuta poi nel regime autoritario dello stretto ambiente sociale (suo padre era una nullità con tratti di amoralità), quindi stessa visione della realtà, e stesso stile di vita della madre (ne aveva ereditato anche la carica di presidentessa delle “Dame di san Vincenzo”). E quanto a cultura… solo, forse, la lettura di qualche romanzetto rosa non all’indice del vaticano. Essere semplice, però, mia madre!: carattere mite e riservato per natura, al contrario della madre arcigna e autoritaria E aveva assorbito, mia madre, gli insegnamenti alla lettera, soprattutto l’obbedienza cieca alle autorità… qualsiasi autorità (anche quella fascista). Comunque la sua religiosità fu sempre meno esposta di quella della madre, e ciò sia per carattere che per i tanti impegni di madre assurda di dieci figli (aveva ricevuto per questo anche il diploma fascista di madre prolifica!), e leggeva solo opuscoli di vite di santi che le forniva mia nonna, e recitava preghiere da qualche libro di orazioni. La BIBBIA!, era libro proibito ai cattolici… all’indice! I figli ormai cresciuti. Tutta la famiglia si è trasferita a Napoli per motivi di studio, in appartamento in affitto. Io avevo una stanza appartata e silenziosa, divisa dall’ingresso da due porte ben isolate dai rumori di casa. Sono lì che studio nel silenzio, quando percepisco, urlato e chiaro: “SIAMO CATTOLICI APOSTOLICI ROMANI!!!”. Segue lo sbattere violento della porta di ingresso, che fa vibrare l’aria dell’intero appartamento, e forse anche le pareti. Esco dalla stanza e nell’ingresso trovo mia madre ritta in piedi che brandisce una scopa… No, forse esagero… forse la scopa no, ma l’atteggiamento è chiaramente aggressivo: le braccia leggermente allargate, i pugni serrati. Mai vista in quello stato di irritazione, che se me lo avessero raccontato non ci avrei creduto. “Cosa succede?”, domando. “VOLEVA VENDERMI LA BIBBIA!!!”, risponde inusualmente decisa. Il tutto prese per me l’aspetto di una caricatura, e infatti risi, e ancora adesso mi diverte il ricordo della scena. Ma, ritornato ai miei libri, non riuscivo più a studiare. Pensavo a quel pover’uomo, il colportore, venditore ambulante di libri sacri porta a porta… a piedi e con un sacco o una cassetta piena di Bibbie, porzioni, commentari, romanzetti edificanti, “evangelini”, racconti di vita cristiana (venduti tre a un soldo), almanacchi… porta a porta… e le porte gli venivano regolarmente e violentemente sbattute in faccia. Ho lasciato tutto e, correndo, ho sceso le scale; ho ispezionato la strada, sempre in corsa nei due sensi; non l’ho incontrato, il colportore, ché gli avrei comprato la Bibbia, la più bella… la più costosa… la più pesante! E per quel giorno poi non ho più studiato. Però, questa dell’nseguimento, non è la verità!, fu solo un meditato proposito. Non l’ho inseguito, il colportore… e invece avrei dovuto… avrei dovuto inseguirlo, il colportore, e acquistarla, la Bibbia, da leggere poi ad alta voce a mia madre e soprattutto a mia nonna… ogni giorno ad alta voce!
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Croniche pentadiendiare: la nostra campagna con la 5^ edizione di D&D
FeAnPi ha inviato una discussione in Libri, fumetti e animazione
Già da due settimane con un gruppo di amici stiamo portando avanti una campagna con la 5^ edizione. E, inutile dirlo, ci stiamo trovando abbastanza bene (io master in particolare, che avevo mollato tutti gli altri D&D per manifesta rottura di bolle). E, siccome sono blogger scassacavolo e narcisista con velleità di scrittura, ho deciso di tenere un simpatico diario delle avventure, le nostre... Cronache pentadiendiare. - Atto I, dove gli avventurieri si conoscono e si mettono in cammino; - Atto II, dove molto si combatte, parecchio si esplora, e si giunge al livello secondo. Il resto a seguire mano a mano che giocheremo. PS: en passant, la sezione di D&D 5^ è veramente imbarazzantemente spoglia anche a livello di organizzazione. -
Un foglio bianco ondeggia nell’aria Lento scivola su scale aeree… oscilla sui gradini, uno di qua uno di là, e va a riposare su un costato martoriato. Si macchia… di rosso sangue. L’autobus è fermo, vuoto di passeggeri. Proveniva dal deposito diretto al capolinea. Il conducente è sceso e se ne sta ritto immobile nell’incerta luce dell’alba resa più livida dalla poca neve sporca caduta nella notte. Ha gli occhi sbarrati, fissi al portone dell’elegante condominio dal cui balcone centrale pende un nastro bianco di lenzuola annodate oscillante pigro sull’uscio chiuso mosso dalla lieve fredda brezza: pendolo di un tempo sospeso. Un ladro?… in fuga?… Impossibile!… Una improvvisa minaccia? Più in là una donna stretta in un lungo logoro pastrano della Caritas che le copre in parte anche le scarpe logore Lineamenti inespressivi, fermi… occhi che un giorno, si intuisce, furono splendenti di bellezza Il volto pallido e magro come succhiato dall’amarezza… sempre presenti queste vecchie bellezze, disunite e logore, sui luoghi del dolore. A qualsiasi ora, come cose abbandonate. Anche un uomo laggiù. Presenza insignificante. E ancora un figurante che cerca il pulsante della portineria: lo preme, infine, mentre scosta con l’altra mano il cordone di lenzuola bianche svolazzanti sul suo viso. Nessun altro sul palcoscenico, se si escludono il conducente dell’autobus e il morto foglio insanguinato. La portinaia affaccia al portone. Lo conosceva appena l’inquilino fuggiasco del primo piano che ha interrotto laggiù la sua pazza corsa, in ciabatte nella neve. Era ingegnere! “Assurdo… e poi a quest’ora!… un signore normale… serio tranquillo educato… Salutava sempre!”. È rientrata in portineria, la portinaia grassa, per telefonare alla polizia. Si fanno avanti sulla scena tre uomini infreddoliti. Uno con una borsa logora in similpelle da impiegato del catasto, apatico come fosse al suo sportello: mostra spudoratamente la sua deformazione professionale di impiegato modello allo sportello che non deve mai lasciare spazio a emozioni, turbamenti, incazzature. Solo l’impassibile professionalità di una macchina! Gli altri due hanno borse da supermercato: bianche di plastica… borsine gonfie per la pausa pranzo. Sono molto concentrati i tre ed hanno fretta d’andare a timbrare. Della breve sosta non vogliono lasciarsi sfuggire nessun particolare. Vogliono guardare da vicino l’insolito cadavere sui quaranta quarantacinque, che giace di traverso sulla strada, il volto pallidissimo e intatto, il costato schiacciato. Indossa un accappatoio di buona qualità; una ciabatta di pelle è lontana come un’orma scura nella neve; l’altra ciabatta gli è accanto; i piedi lividi. Pur in queste condizioni si intuisce che appartiene ad una razza sconosciuta ai tre passanti, e avrà certamente avuto un buon motivo per morire. Questo pensano. Un motivo che quelli della propria razza nemmeno si sognano quando cadono da un’impalcatura, senza lenzuola e senza il tempo di un pensiero. La borsina di plastica della pausa pranzo abbandonata nella polvere contiene pane, frittata di maccheroni avanzati dal giorno prima… vino, per il rito celebrato in solitudine nell’ora della pausa: un pezzo di pane a me e uno a te; una fetta di frittata di maccheroni avanzati a te… uno a me: “Mangiate, questo è il mio corpo!”. Un sorso di vino a te… e uno a me: “Bevete, questo è il mio sangue!”. E Amen! “Ite Pausa Est!”. Si affrettano all’impalcatura. E questo qui? Non ha da donare né corpo né sangue Non a chi donarli. Morte immotivata! Una morte tutta sua, senza un colpevole! Avrà avuto tempo per pensare… a lungo e profondo, e nessuno la raccoglierà questa morte. Solo, col petto schiacciato. Solo e privo di vita. Se ne impossesseranno del suo corpo, ma non lo mangeranno Lo squarteranno per scoprire la causa della morte Bisogna sempre scoprirla, anche quando c’è evidenza. Interessante! Rottura dell’arteria aorta… Stop! Uno degli operai si è fermato ancora un attimo ad accendersi una sigaretta. Ha ripreso la borsina col suo pranzo che aveva momentaneamente posata in terra, e si è avviato frettoloso verso le ciminiere della fabbrica laggiù. È in arrivo l’auto della polizia lampeggiante con sirena dal viale deserto. Stridono i freni. Sono in quattro. tre in divisa; uno in abito borghese, il commissario. “Spenga quel maledetto motore… Non sente che puzzo?”, ha gridato, il commissario E tossisce con violenza e sputa in un fazzoletto. Raccoglie dal costato il foglio di carta senza alcun segno di scrittura Lo esamina, è solo scritto di rosso sangue. “Coprite questo disgraziato!”. Agita con gesto eloquente il foglio, poi, spazientito, fa il gesto come a pulirsene il ****. “È senza importanza!… lo metta comunque agli atti! E chiami l’autorità giudiziaria.” Poi, rivolto al conducente dell’autobus che è… come dire?… sotto shock! “Lei si fermi qui… non si allontani!” “Io sono innocente!” “Aspetti a dirlo! Un uomo è morto!… e non si muore mai senza colpe!”. “Ma…” “Taccia… le conviene! In fragranza di reato potrei arrestarla… quantomeno per omicidio colposo!… Per ora sarà trattenuto!… Sotto inchiesta!… Cominci comunque a pensare ad un avvocato…”. L’autorità giudiziaria tarda ad arrivare. Il traffico di auto mortifere piene di fumo si infittisce Rallenta per dar tempo ai trasportati di vedere la sagoma del morto sotto il lenzuolo. Chiusi negli abitacoli si affannano a pulire con le mani i vetri appannati Occhi assonnati lacrimosi nel fumo… sfatti. E finalmente arriva, l’autorità giudiziaria E c’è già un traffico intenso, e l’aria è densa oleosa e fa tossire il commissario… un tossire che si accentua alla vista del giudice, un omino piccolo, occhialini rotondi con montatura in oro, borioso e di malumore per l’ora inopportuna. “Scelgono sempre le ore meno comode!… ‘sti disgraziati!”. Ha guardato il morto Poi lo sguardo è andato al portone. Le lenzuola! Ha considerato i disegni in gesso sull’asfalto. L’autobus! Ha capito tutto in un attimo ed ha concluso: “Certo che se questo stronzo… se quest’autobus fosse arrivato con un minuto di anticipo o meglio di ritardo…”. Ha firmato alcune carte… fumando lì in piedi. Il commissario tossisce ché il fumo della sigaretta dell’autorità lo insegue… come sempre. A supporto della penna d’oro dell’autorità viene utilizzata la borsa del cancelliere: un ometto modesto sempre un passo indietro. “Mi permetto di farle osservare…rispettosamente s’intende…che l’incidentato fuggiva… Era forse minacciato… ”, gli viene impedito con un gesto brusco di continuare. “È solo uno squilibrato uno che fugge così!… Beh, cosa aspettate a sgomberare?” E se ne va! Il commissario è colto da un accesso di tosse violento dal timbro quasi asmatico. Sussurra: “Coglione!”. Il carro dell’obitorio è già arrivato. Messo in un sacco nero della spazzatura… lenzuolo e tutto… e via! Via anche l’autista dell’autobus con l’auto della polizia. Via l’autobus con conducente di ricambio. Lo spettacolo è finito! Resta solo il festone delle lenzuola annodate come una decorazione. E traffico bestiale. Il commissario e due agenti si avviano verso il condominio La portinaia chiede rude che venga eliminato quello sconcio in fretta… le lenzuola penzolanti annodate al balcone: “È un condominio rispettabile questo Tutte persone a modo Rispettate e con un lavoro onesto… di prestigio… medici… ingegneri… Famiglie serene… Nessun drogato!” Il festone della fuga naturalmente è un marchio ingiusto! Intollerabile Il commissario ne conviene. “Protrarremo al minimo il disagio… Certamente!… Colpevole… Indegno!… Ma io voglio scoprirlo l’altarino… Ah! Se lo scoprirò… Succedono di quelle cose nei quartieri alti!… Ci indichi l’appartamento di ‘sto disgraziato!”. La porta dell’appartamento è chiusa Una porta di ottima fattura Lucida, e senza un graffio Uno dei poliziotti propone di forzarla. Il commissario. “Coglione!… una bella porta così!... Il balcone è aperto, entreremo per di là!”. Tenta di arrampicarsi alle lenzuola, il commissario… Non ce la fa!… Tossisce furiosamente. “Se non fosse per questa dannata asma…” L’insuccesso lo ha molto contrariato E tossisce ancora… Il timbro è asmatico. Fallisce miseramente anche il tentativo, a turno, degli agli altri due, per quanto più giovani del commissario… e senza asma. Si rincuora il commissario e comanda. Il tono è rude, come di chi ha riacquistato l’autorità messa inopinatamente a rischio da un’impresa impossibile alla sua età… in sovrappeso e con asma. Ce le ha tutte le scuse buone! “Telefoni ai pompieri!… Presto!” L’appartamento è un monolocale, ed è in ordine. Solo il letto è disfatto; la porta di ingresso è chiusa a chiave ed ha inserito il dispositivo di sicurezza, ma all’occhio esperto del commissario non sfugge una porticina camuffata, nascosta dietro un cassettone. “Spostate quel cassettone!”. Oltre la porticina una scaletta ripida e buia. Una ventata di aria umida e ammuffita fa tossire violentemente il commissario. “Con prudenza… CRAaK! CRAaK!, ‘sta tosse accidenti!… scendiamo con prudenza a controllare… CRAaK! CRAaK!, ‘sta tosse, accidenti!... ché qui potrebbe esserci la chiave di tutto”. È la cantina! Che puzza laggiù: carta igienica, spesso anche imbrattata… una bambola mostra la paglia dalla pancia sventrata ed è guercia da un occhio. L’orbita vuota è un buco nero con un fondo di nulla… anche qualche topo in fuga… dei topi sono entrati nell’orbita e rodono… rodono… compiono un lavoro profondo… anelli di una catena sul pavimento, inerti. Uno specchio! Spolverato e splendente e lucidato con cura di recente. È infranto a stella al centro come da una martellata e manda lampi della follia. “Che schifo!”, e tossisce in modo preoccupante, il commissario. Poi pensieroso, con un filo di voce: “… che schifo!... ho le spalle piene di brividi… presto, risaliamo… qui non c’è che merda… Ma questo specchio?...”. Si riprende lentamente il commissario: “Ecco!… L’avevo sospettato!... E’ evidente!… qualcuno lo minacciava… si è barricato, si è specchiato ed è fuggito… Si complica la faccenda… Altro che rispettabili!… Questi sporcaccioni!… Dal pianerottolo le minacce?... dalla cantina?... i topi… lo specchio! Ah, se non ci fosse stato quel maledetto autobus… proprio in quel momento… a complicare l’indagine!… Ma scoprirò lo stesso lo sporco intrigo… a costo di installarmi qui… notte e giorno… non può aver ragione quel giudice coglione”. A questo pensiero riprende a tossire. Rimettono il cassettone contro la porticina, chiudono il balcone e pongono i sigilli. Aprono la porta con la chiave che era nella toppa. Escono sul pianerottolo… chiudono a chiave e pongono i sigilli. Il processo al conducente dell’autobus viene celebrato con rito abbreviato. Ha riconosciuto la colpa e si affida alla clemenza della corte. L’accusa ha brevemente esposto i fatti. “È appurato da scrupolosi calcoli che l’autobus è transitato sulla scena del delitto con ben un minuto di anticipo rispetto all’orario previsto… chiaro quindi che se fosse transitato in orario giusto non ci sarebbe stato l’omicidio… Chiaro anche che per arrivare in anticipo sono stati superati i limiti di velocità, ma forse non c’è stata volontarietà… forse… ma colpa sì!... Omicidio colposo: Imprudenza Imperizia Negligenza”. Scroscia un applauso dal pubblico. Prima che la difesa prenda la parola, il Presidente invita l’avvocato ad essere conciso: “… Guardi il mucchio di pratiche… etcetera!”. “Signor Presidente, mi rendo conto di approfittare del suo tempo prezioso, ma nell’interesse del mio assistito dovrò essere preciso… fino allo scrupolo. Mi perdoni e non si spazientisca! Mi occorre un minimo di tempo… Parto direttamente dal nocciolo!… Se il mio cliente fosse giunto sul posto con qualche attimo di ritardo, le conseguenze sarebbero state ben più gravi, e, invece che il costato, sarebbero stati ridotto in poltiglia gli arti inferiori con esito probabilmente ugualmente letale, ma tra grandi sofferenze… o peggio avremmo avuto un invalido in carrozzella da mantenere per una vita… e non consideriamo le spese ospedaliere!… Che se poi il ritardo fosse stato appena più lungo, ci avrebbero pensato le ruote posteriori dell’autobus piuttosto che quelle anteriori!… Tutto evidenzia una fatalità… una necessità!”. Il Presidente mena colpi terrificanti sulla cattedra col suo martello, ché dal pubblico si è levato un mormorio di disapprovazione… il pubblico esige un colpevole e una pena esemplare! Il giudice presidente non si lascia comunque influenzare ed emette il suo verdetto. Rivolgendosi all’avvocato della difesa “Apprezzo le sue considerazioni, ma ritengo ad ogni modo il suo cliente colpevole di omicidio colposo, per quanto con attenuanti generiche… In nome, etcetera etcetera… si condanna l’imputato all’ammenda massima per l’eccesso di velocità ed alla sospensione della patente per mesi due. La condanna tiene conto delle agevolazioni derivanti dal rito abbreviato… Il caso è concluso!”. Il pubblico rumoreggia… il Presidente mena colpi col martello. Crucifige! Crucifige! “Chi è senza peccato scagli la prima pietra!… Il caso è concluso!…Faccia sgomberare l’aula!”.
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Racconto breve: Un artista multilevel
L'Antico dei Giorni ha inviato una discussione in Libri, fumetti e animazione
Jinny La Fontaine, figlia ventenne di un importante personaggio cittadino noto come Giò La fontaine, è al suo primo concerto. Personaggio costruito a tavolino per salvare la reputazione e la carriera del padre ma soprattutto per investire in modo intelligente le di lui folli conoscenze, la giovane cantante è pronta a fare il suo primo grande concerto davanti a circa un migliaio di persone. Nessuno si aspetta ciò che effettivamente è stato preparato per l'occasione , tranne una persona, che sarà presente ma con ben altre intenzioni rispetto a quelle del normale pubblico. Circa 15 anni prima, Giò La Fontaine, tecnico del suono di grandi doti intuitive e tecnologiche impiegato presso il Gruppo di Musica Intuitiva guidato da Karlainz Stockhausen, visse un'esperienza che gli cambiò la vita per sempre. Durante la prima di un concerto del Maestro, dovremmo dire IL Concerto, mai più ripetuto e passato nelle cronache musicali come una leggenda, Giò peccò decisamente di presunzione o di follia. Il concerto, che tradotto dal tedesco potrebbe malamente risultare come "8 modi di silenziare e trascendere la materia sonora", venne tenuto in una bolla subacquea nell'Oceano Pacifico, a circa 500 metri di profondità e distante dalla costa di Bali una decina di Km, edificio ipertecnologico affittato per due giorni all'Istituto Internazionale di Ricerca Subacquea. All'evento parteciparono circa 2000 persone, tutte arrivate nella bolla il giorno prima dopo aver acquistato un biglietto di 850 dollari. L'attesa per la performance e le aspettative che si erano create tra il pubblico di artisti, scienziati, giornalisti, ma anche politici e uomini di potere, era ad un punto di tensione tale che ormai l'evento era vissuto come uno di quei momenti storici che avrebbe segnato un confine nuovo nella storia del progresso umano. E questo esclusivamente grazie alla genialità di un uomo che poco aveva a che fare con la musica, ma molto con la scienza e forse, come leggenda vuole, con la magia. Giò, con la supervisione artistica del Maestro, era riuscito a creare e sviluppare un sistema di gestione di echi, riverberi e feedback dei suoni che se ben regolato, sarebbe entrato in sintonia con le frequenze cerebrali del pubblico, generando una serie di esperienze mai fatte. Nell'ordine sarebbe stato possibile ottenere: 1) aumento del range armonico di ogni singolo suono, ciò creando la vivida e coerente percezione di un intreccio armonico mai sperimentato ed assolutamente incomprensibile ed irriproducibile nelle normali condizioni di performance ed ascolto. 2) percezione della materia sonora: questo aumento del range armonico avrebbe liberato i suoni dalla gabbia cognitiva in cui erano percepiti e li avrebbe animati di una vera e propria sostanza sonora tangibile, con il conseguente aumento della capacità percettiva del pubblico dovuta ad uno stimolo sonoro così profondo, ampio e vivo. 3) proiezione della coscienza nella "casa dei suoni": l'unione tra l'ascoltatore e i suoni, avrebbe dato la sensazione che la propria coscienza fosse fusa in un'unità sintetica e trasportata nella vera dimora dei suoni, il Piano Astrale, come accompagnata indietro in un viaggio di ritorno. Là, in quel piano di fluidi e colori inimmaginabili, era finalmente possibile conoscere la forma reale della Musica. 4) questo effetto, l'ultimo gradino di follia che era stato supposto da Giò e collaboratori, avrebbe permesso il momentaneo distacco di tutta la coscienza dal corpo, non solo di quella percettiva e la conseguente proiezione fisica, reale e concreta dell'ascoltatore sul piano Astrale. La musica era per la prima volta nella storia dell'uomo concepita come veicolo interplanare. A questo punto, se il sistema avrebbe tenuto e il monitoraggio degli echi sarebbe stato controllato a dovere, non sarebbe stato difficile riportare indietro le coscienze e concludere la performance in maniera innocua. Ma questa era solo l'ultima avanguardia di un'ipotesi apparentemente irreale. Tutto questo non era stato volutamente pubblicizzato dal Maestro. Egli aveva solamente dato un assaggio delle sue scoperte musicali ad un primo laboratorio tenuto a Vienna, ormai un anno prima. In quella occasione, Giò si era superato, facendo si che, in seguito alla semplice stimolazione sonora di un congegno creato ad hoc in un contesto artistico ovviamente diretto dall'onnipresente Maestro, alcune cavie che assistevano, dopo circa due ore di ascolto, scomparvero dalla vista degli astanti, pur rimanendo presenti nel monitor di controllo della massa fisica. Le cavie riuscirono ad attraversare tutti gli stadi dell'ascolto multilevel e tornare indietro, senza danni. Questo esperimento fu di tale portata che i governi dei più importanti paesi del mondo si diedero da fare per acquistarne i brevetti e creare una sorta di carta dei diritti e dei doveri che regolasse le applicazioni di tale scoperta. Dopo un anno, Il Maestro ebbe i permessi e riuscì ad organizzare un concerto in cui avrebbe dimostrato alcuni degli effetti pratici del SAM, Sistema di Ascolto Multilevel. A tale concerto avrebbero ovviamente partecipato rappresentati militari e di governo, per i quali la scoperta aveva risvolti ben più concreti. Giò, tra le fila dei topi studiosi di fantascienza e psiconauti della realtà, era ormai passato alla storia come il braccio dietro alla mente, come colui che aveva varcato i confini del reale, che aveva permesso all'umanità di conoscere la vera Forma della Musica e promosso il viaggio interplanare su nuovi livelli. Grande era la sua responsabilità, anche se il Maestro, pur riconoscendone il valore, ne negava l'importanza per il futuro artistico del pianeta e con sufficienza si vantava, soprattutto in pubblico e nelle grandi occasioni, della sua superiorità rispetto a Giò. "Senza la mia arte, diceva nei suoi famosi abiti di lino bianco e seta dorata, non può esserci viaggio astrale. Sarebbero solo tecnicismi che chiunque dotato di genialità potrebbe riprodurre. Ma l'arte è l'unica vera capacità di astrarsi e quindi di cogliere l'essenza dell'Astrale". Giò, concentrato com'era nelle sue scoperte, non dava tanta importanza a questo atteggiamento, benchè anche lui, in fondo avesse un cuore. Alla prima del Concerto Subacqueo tutto era organizzato con la massima precisione e sicurezza. La tensione era tale ormai che da sola sarebbe bastata per far suonare gli strumenti. Il maestro tardava a presentarsi sul rialzo a forma di Delfino da cui avrebbe diretto i suoni, e Giò era ormai perso in una delirante procedura di monitoraggio dei riverberi che a volte gli sembrava di controllare e altre invece gli pareva di smarrire. Forse stava smarrendo la ragione. Ma ciò che più gli impediva di mantenere la calma, erano le parole che il Maestro gli aveva detto in un orecchio, prima di lasciarlo solo coi collaboratori nella camera di controllo. "Nulla di più di quanto è stato deciso, nulla di più della banale regolazione di alcune manopole, ciò che conta non è la tecnica, ricordalo. Il pubblico è qui per assistere ad una storia, alla Storia della Storia e celebrare il suo narratore" Giò, sudando e annuendo meccanicamente, si era poi ritirato alla sua postazione. E poi il concerto cominciò. I suoni invasero il luogo, volutamente collocato in profondità per ragioni di sicurezza, e piano piano il pubblico iniziò ad apprezzare il Sistema di Ascolto Multilevel. Dopo circa un'ora dall'inizio, iniziarono a sentirsi i commenti a voce alta per l'ascolto di qualcosa di completamente nuovo. Passarono altre due ore e il pubblico manifestò i primi segni di discontrollo motorio: chi si alzava improvvisamente, chi ruotava la testa in ampi cerchi, chi boccheggiava come se stesse masticando qualcosa, chi cercava di afferrare nell'aria cose inesistenti. Inesistenti per lo meno sul piano fisico. Il Maestro, dotato di un apparecchio acustico ad hoc, era concentrato e teneva i musicisti in pugno. Ogni tanto gettava un'occhiata fugace al pubblico, ma tutto ciò pareva rientrare negli effetti previsti. Giò invece era sempre più su di giri e le gocce di sudore che andavano a cadere sulle istruzioni di monitoraggio, macchiando le parole e spalmando l'inchiostro, erano per lui motivo di scatti d'ira incontrollata e ansia crescente. Magari avrebbe potuto assistere al concerto...ma così l'avrebbe data vinta a quel montato vestito come un guru del *****... Dopo altre tre ore di marea abissale di suoni incomprensibili, il pubblico piano piano si calmò e si sedette. C'è chi teneva la testa chinata in avanti, chi indietro, ma tutti da quella posizione incominciarono ad ondeggiare come pesci che stessero cercando di risalire la corrente. Tutto ciò calmò anche il Maestro, che non sentendo più un pubblico irrequieto, vide avvicinarsi il successo e la gloria promessi. Quando Giò finalmente perse il senno e, contravvenendo agli accordi, non decise ma vide davanti a sè l'unica chance di essere ciò che era, fece ciò che in cuor suo desiderava da sempre. Essere colui che non si era tirato indietro davanti alle possibilità del Genio e che sarebbe passato alla storia, forse quella di un altro piano di realtà, come un eroe coraggioso, un saggio e un pazzo che aveva traghettato dei semplici ascoltatori verso un mondo di verità, un nuovo Redentore. Poi il pubblico inizio a scomparire, come vaporizzato, ma allo stesso tempo come se delle onde d'acqua lavassero via delle macchie di colori. I suoni erano ormai spariti del tutto, ingoiati dai riverberi. La cosa ebbe termine quando anche i corpi del Maestro e dei Musicisti svanirono abbandonando il palco e lasciando cadere i loro strumenti in una massa sgraziata di rumori. Il processo di fusione delle coscienze durò circa 10 minuti, lasciando nella sala solo i vestiti, le scarpe e tutti i gioielli e portafogli e tutte le cose che il pubblico aveva portato con sè. All'esterno del globo che conteneva la sala da concerto, protetti in alcune celle di cemento armato, i militari e qualche politico diedero l'allarme ai tecnici della Stazione Sottomarina. Dopo poco si sentirono rumori di macchinari in azione e l'intera area che aveva ospitato l'evento venne violentemente invasa dalle acque. La mirabile costruzione che fino a quel giorno era stata un acquario, ritornò in circa 4 ore a riempirsi di acqua marina gettata dentro da enormi boccaporti sistemati tutt' attorno alle pareti ovoidali. L'evento diede il via ad una serie infinita di cause legali, dichiarazioni scioccanti, conferenze che per alcuni furono una rovina, per altri una benedizione. In tutto questo delirio, di Giò si persero le tracce, in un periodo in cui alla fine si accettò la tesi che l'esito di quella inondazione voluta era seguito ad un dramma mai visto a cui tutta l'umanità aveva partecipato, dramma che dopotutto aveva anche avuto il suo martire ed il suo eroe. Le conoscenze di Giò gli erano valse tuttavia ben più riconoscimenti e successi in campo tecnologico di quanto in campo artistico. Infatti se la Magia non gli fosse venuta in aiuto, quell'uomo non si sarebbe mai salvato da quel concerto. Magia che Giò aveva iniziato a praticare mentre costruiva il SAM e che gli permise di stringere amicizie particolari e molto utili. Una di queste fu con un soggetto piuttosto instabile dedito alla sperimentazione sonora nel campo visivo, che per sua fortuna o sfortuna iniziò a collaborare con uno stregone di razza Gythyanki. Il musicista in questione, Cosme Durant, incontrò Giò nella pausa pranzo di un seminario sulla "Tecnologia Cognitiva delle Code di Riverbero Rosa", una materia un pò ostica che era essenziale padroneggiare per il successo del sistema SAM. I due si trovarono su molti aspetti e strinsero col tempo una amicizia impegnata e collaborativa. Poi venne il giorno che Durant mostrò all'uomo un oggetto che disse gli aveva rovinato la vita ma che poteva salvare le sue creazioni. Un amuleto dei piani Giò non lo aveva mai visto, un oggetto nero circolare con vortici multicolori al sue interno. Oltre a questo Durant fece vedere a Giò una mappa in cui era presente un luogo evidenziato. "E' qui che devo andare tutte le volte, se mi dimentico c'è il rischio che l'amuleto mi porti chissà dove, anche in un altro piano...L'astrale invece è abbastanza sicuro, sempre che lui voglia continuare ad aiutarmi..." Fu così che Durant, resosi conto del logorio mentale che tali spostamenti gli avevano procurato, consegnò l'amuleto senza troppo pensarci su, a un Giò incredulo e spaventato. Giò non usò mai l'amuleto per spostarsi sul piano astrale, ma ricevette la visita di quell'essere bizzarro varie volte e sempre questi incontri erano estremamente illuminanti per gli studi di Giò. Ma quel giorno, a quel concerto Giò, poco prima di sparire inghiottito dalle acque, estrasse l'amuleto, pensò a quell'esatta locazione e si teletrasportò immediatamente. Da quel giorno Giò dovette rimanere per alcuni mesi in stato di latitanza e, benchè gli sembrasse che l'opinione pubblica avesse dimenticato velocemente il suo ruolo ed il suo nome, si divertì molto ad osservare, da quella posizione, tutto il casino che Il Concerto aveva suscitato. Va aggiunto che la sua invenzione è tuttora rimasta solo ed esclusivamente nelle sue mani e nonostante i tentativi di copiatura, nessuno è mai riuscito a riprodurla. A questa magra soddisfazione però si aggiunge il fatto che sua figlia Jeanny crescendo, era diventata per lui motivo di vanto e fedele sperimentatrice dei concerti che, da casalinghi, erano diventati sempre più pubblici e famosi. Oggi è giunto il momento che Jeanny faccia il suo debutto come star della musica pop e che Giò finalmente possa prendersi la sua completa, definitiva e creativa rivincita. -
Rimettendo a posto un HD esterno che non toccavo da anni, ho ritrovato un background di un personaggio. A rileggerlo non mi è sembrato così disastroso, quindi ve lo metto qui che magari a qualcuno da un'idea per un personaggio... ammetto di non averlo riletto tutto, quindi ci sta che ci siano orrori di ortografia, per non parlare di tempi verbali errati e simili (se ne trovate e vi va di segnalarmelo, non mi offendo, anzi..) Daniel Erano anni ormai, che gli abitanti di Kazid, la città dalle coste vermiglie, veniva assalita da bande di Sahaugin, esseri malvagi, mezzi uomini e mezzi pesce, che scivolavano fuori dalle fredde e buie acque notturne per trucidare gli sfortunati elfi che vivevano vicino al porto. Gli assalti erano sempre più frequenti, ed ormai le poche guardie disposte di pattuglia al porto e sulle navi non bastavano più. Sempre più relitti in fiamme venivano trovati al mattino, sempre più ronde notturne trovate impalate da lance o tridenti, sempre meno mercanti decidevano di fare tappa in quel porto un tempo così florido e vivace. La situazione stava diventando insostenibile, ed anche l'alleanza con gli elfi delle acque, che risiedevano in alcune grotte sottomarine poco distanti da li, non riusciva a fornire alcuno aiuto. Le creature uscivano silenziose dalle acque, di notte, nessuno era riuscito a capire da dove provenissero, ed una volta compiute le razzie scomparivano nel nulla. Alcuni di loro ovviamente perivano in queste ondate, ed infatti dopo i primi misteriosi delitti e furti gli abitanti scoprirono che il colpevole non era un elfo della città, bensì quelle orride creature, con squame al posto della pelle, e lunghe file di denti di squalo. Anche le guardie degli elfi marini, per quanto vigilassero a tempo pieno sott'acqua e nonostante la loro perfetta visione sottomarina, non riuscirono mai a trovare il nido di quelle bestie, ne a fermarne le razzie. Sembravano come spettri, trapassavano le difese della città come fantasmi attraversano muri, invisibili, silenziosi e letali. Ma nonostante la città fosse nel panico, qualcuno ancora arrivava, per stabilirsi in quei luoghi, in cerca di fortuna. Una giovane umana, razza alquanto rara da quelle parti, arrivò un mattino d'inverno, con gli scarponi ormai quasi distrutti dalla lunga camminata che pareva pareva aver preceduto il suo ingresso nella città, mentre la neve vorticava attorno alla sua esile figura trasportata dal vento. Dal portamento, tuttavia, si capiva che nella sua vita si era trovata in situazioni ben peggiori di quella, e non sembrava affatto debole, nonostante la sua corporatura magra. Gli stracci che indossava la riparavano ben poco dalle basse temperature, e sembrava tuttavia non risentire troppo del vento gelido che si insinuava sotto il suo mantello. Questa ragazza, Irina, dopo qualche giorno passato in taverna, a cercare riparo dalle giornate invernali, conobbe Jade, un mercante elfo che stava anche lui alloggiando in quella taverna. Tra i due nacque un amore molto profondo e durato per moltissimi anni. Lei non rivelava molto del suo passato, e lui rispettava il suo silenzio. Tutto ciò che era riuscito a capire era che faceva parte di un gruppo di cavalieri erranti, ormai sciolto, e che ora cercava solo un po' di pace. Con i risparmi di entrambi decisero di prendere una casa in quella città, ove il loro amore era scoppiato in maniera così improvvisa e passionale. Vicino alle mura, gli attacchi degli sahaugin non si erano mai spinti, e da quello che Irina aveva lasciato intendere al marito, era più che capace di respingere qualche predone mezzo pesce. Così poco meno di nove mesi dopo il loro primo incontro, dall'unione di Jade e Irina nacque Daniel, un giovanotto mezzosangue molto tenero e vivace, nonostante la sua nascita prematura. Intanto, le incursioni di sahaugin continuavano a perseguitare la città, tanto che il padre di Daniel era quasi l'ultimo mercante a fare tappa nella città di Kazid, tutti gli altri avevano troppa paura, e la città non era certo sulle principali vie di commercio terrestri, di conseguenza, lentamente stava morendo. Sempre meno persone vivevano da quelle parti, mentre molte se ne andavano senza farne più ritorno, i malviventi aumentavano ad un ritmo simile a quello con cui diminuivano le guardie. Mercenari venivano assoldati per prendere il posto di queste ultime, gruppi di avventurieri senza dio, molto spesso dai passati loschi, ma anche gruppi di un certo livello di importanza, come quello di Khaled l'orbo, il famoso combattente elfico che mise su un gruppo di valorosi guerrieri, risolvendo più volte gravi problemi dello stato. Fu proprio questo valoroso guerriero, abile tanto nella spada quanto nella magia, a raccattare dalle braccia del cadavere di Irina il piccolo Daniel. Un assalto improvviso di sahaugin era sgorgato proprio dove sembrava più sicuro, ovvero vicino alle mura nell'entroterra. Nessuno sapeva come avessero fatto ad arrivare sino li, sembravano essere letteralmente spuntati dal nulla, fatto sta che avevano colto di sorpresa la giovane donna, ed erano riusciti a vincerla. Il gruppo di avventurieri non aveva fatto in tempo ad arrivare nella zona, sfortunatamente, così quando giunsero a sopprimere il gruppo di uomini pesce era già troppo tardi. Khaled non aveva la minima idea di chi fosse quel neonato, ma conosceva molto bene Irina, avevano affrontato molte battaglie insieme, sino a quando essa non si era ritirata circa un anno prima, senza alcun motivo. Il neonato non aveva più di quattro mesi, e nonostante il freddo non emetteva alcun suono se non un dolce respiro. Khaled lo prese con se, sapeva che doveva molto ad Irina, erano stati compagni di viaggio e di avventure per molti anni, tanto da diventare davvero vicini. La sua partenza, un anno prima, l'aveva fatto soffrire moltissimo, ed una parte di se era come morta dentro di lui. Khaled non aveva idea che il padre del bambino fosse ancora vivo, che viaggiava per mare in quel periodo, come spesso succedeva, per portare mercanzia, e quindi, considerando il piccolo un orfano, lo prese nel gruppo, nonostante il peso considerevole che sarebbe stato, ed informo gli altri membri di questo nuovo ingresso nella loro famiglia. Soltanto una ragazza del gruppo, Meriem la novellina, era davvero contenta di quel nuovo ingresso: forse adesso avrebbero smesso di usare quell'odioso soprannome, che lei odiava tanto. Gli altri membri pensarono che Khaled fosse diventato pazzo, ma quando disse loro di averlo raccolto dalle braccia di Irina tutti tacquero in un silenzio di lutto. I viaggi della congrega del Falco D'Oro, come si faceva chiamare il gruppo di Khaled, proseguirono in lungo ed in largo, ovunque ci fosse da risolvere problemi, e Daniel lo portavano con se, ovunque andassero, sino a quando non cominciò a camminare con le sue gambe. Dopo diversi anni, tuttavia, ancora non spiccicava parola. Piangeva, come tutti i bambini, non era muto, semplicemente non parlava, ed aveva dei comportamenti strani. Tutto il gruppo era ormai rassegnato all'idea che fosse un bambino ritardato sino a quando, all'età di cinque anni, cominciò finalmente a parlare. E da quel momento in poi, tutti ricordarono con nostalgia gli anni silenziosi del piccolo, poiché non la finiva davvero più di chiacchierare. Per l'esattezza, il piccolo Daniel, il quale aveva mantenuto il suo nome donatogli dalla madre grazie ad un ricamo sul suo vestito da neonato, era rimasto molto colpito dalle storie che la sera, prima di andare a letto, il gruppo si raccontava, ed aveva imparato una miriade di racconti, veritieri o leggendari, che modificava con la sua mente di bambino e rendeva, effettivamente, migliori, più dettagliati e più epici. Le favole che Khaled gli raccontava prima di andare a dormire, come i racconti dei bardi nelle locande, erano solo il materiale con cui costruire fantastiche storie su pirati, draghi, spiriti ed altri elementi incredibili del mondo in cui viveva. Gli altri membri del gruppo, ovviamente, erano estasiati dai suoi racconti, nonostante fossero costantemente ricoperti di domande durante le giornate di viaggio, o di riposo. Continuavano così i mesi e gli anni, Daniel si rendeva utile principalmente come cuoco del gruppo, o simili mansioni di poca pericolosità, considerava Khaled come suo padre, ed aveva smesso di chiedere informazioni sulla madre, ormai. Ogni tanto, si faceva dare qualche consiglio dagli altri quattro membri di quella che fin dall'inizio aveva considerato famiglia: il grosso Tanoth, un enorme mezzorco con cui condivideva la discendenza meticcia, gli insegnava come maneggiare le asce ed i martelli, tentando di fargli comprendere come colpire i punti più dolorosi per mettere KO un nemico, anche se si perdeva un po' nei discorsi riguardanti il lasciarsi cadere in uno stato di furia incontrollata; Felsiser, il minotauro sciamano, con il suo spirito compagno a forma di falco, da cui poi è stato tratto il nome della compagnia, tentava di spiegargli come risolvere le situazioni in pace, senza essere avventati o troppo frettolosi nel prendere le decisioni, cosa che tuttavia non riuscì particolarmente, vista la sua curiosità e sfrontatezza di fronte al pericolo; Meriem, dalle sembianze sempre cangianti, gli insegnò come è possibile invece cavarsela semplicemente parlando, parlando e ancora parlando. Gli insegnò come camuffarsi, anche se a lei veniva naturale, quando è il momento di dire menzogne e quando invece è meglio una via diplomatica, sincera ed a cuore aperto; ed infine Kim, il grande mago, come gli piaceva sentirsi chiamare, tentò di insegnarli i rudimenti della magia, del flusso e di tutto il resto, ma il ragazzo non sembrava proprio portato per questa via. Fu in una afosa serata di piena estate che, tutti radunati vicino ai cavalli, distesi su delle grosse rocce lisce, Daniel raccontò la sua prima vera storia. Erano giorni che ci lavorava, voleva creare qualcosa di speciale per la sua famiglia, qualcosa di diverso, che non avessero mai sentito. Sin ora si era limitato a modificare le storie che sentiva, ma questa volta voleva crearne una sua, e quella sera l'avrebbe raccontata a tutti. Faceva un caldo infernale, nonostante fosse già calata la notte da qualche ora. Non avevano ingaggi di alcun genere, e trascorrevano gran parte del tempo a viaggiare tra vari villaggi, tentando di trovare un possibile lavoro. Così Daniel cominciò a raccontare dei ghiacciai di Dhalner, una regione da lui inventata di sana pianta, ove il ghiaccio non si scioglie mai, ove la pioggia è neve e la nebbia è grandine, ove i giganti gelati costruiscono le loro dimore, ove gli elementi prendono forma e si combattono per mettersi alla prova, ove i cavalieri del vento cavalcano grosse aquile per le sterminate valli ghiacciate. E ancora raccontava di draghi che invece di sputare fuoco sputavano schegge di ghiaccio, di fiumi ormai congelati, di castelli di neve, abitati da creature composte solamente di cristallo, di caverne profonde e mostri terribili. Tutto il racconto, ovviamente, era preso da vari spunti, e la trama era abbastanza avvincente, per quanto comunque ancora lontana dall'essere una opera d'arte. Quello che più stupì il gruppo, tuttavia, era che nonostante ci fosse una temperatura tropicale, per tutto il tempo del racconto essi avevano sofferto davvero il freddo, e si ritrovarono coperti dai loro abiti pesanti e vicino al fuoco che avevano usato per cucinare, poco distante da loro. Diverse parole del racconto si insinuavano in loro come delle suggestioni, facendo loro provare davvero certi sentimenti e certe sensazioni, come se fossero loro stessi i protagonisti. Questo potere inaspettato cambiò tutto il modo di vivere del giovane Daniel, che ormai si era rassegnato a diventare un semplice aiutante. Ogni singolo membro del gruppo capì che di fronte a loro avevano un ragazzo dal potenziale incredibile, e che andava solo coltivato. Tentarono di addestrarlo, consultarono anche diversi stregoni e maghi di alto rango, alla fin fine era uno dei gruppi di avventurieri più famoso del regno e si potevano permettere di incontrare persone decisamente potenti. Ma fu tutto vano. I suoi poteri aumentavano, sicuramente, ad una velocità impressionante, ma non per via dell'addestramento. Al contrario, erano molto più fruttuose le serate attorno al fuoco che le lunghe giornate di addestramenti precisi e formali. Alla fine, capirono che la sua dote non era derivata da qualcosa di “addestrabile”, bensì dal naturale scorrere delle cose, dai racconti, dalle chiacchierate e soprattutto dall'osservazione di eventi apparentemente insignificanti. Era tutto decisamente naturale per Daniel, ed i suoi poteri diventavano sempre più forti e incredibili. Certe volte riusciva a materializzare nella mente dei suoi compagni i suoi stati d'animo, se era triste, lo sapevano tutti, se invece era allegro, tutto l'accampamento sprizzava di gioia e di felicità. Talvolta, soprattutto nelle città, anche passanti o mercanti venivano colti dagli stati d'animo del ragazzo, tanto che spesso riuscivano a risparmiare un bel po' di denari d'oro sui loro acquisti. Dopo qualche anno, quando Daniel raggiunse un'età giusta per cominciare a rendersi utile non più soltanto come cuoco del gruppo, decise di trovarsi un lavoretto. I continui movimenti del gruppo non permettevano di stabilirsi in un singolo luogo ove lavorare in maniera sedentaria, così decise di sfruttare la sua incredibile fantasia per divenire un cantastorie. Il materiale su cui lavorare era parecchio, le avventure che i suoi compagni vivevano ogni giorno fornivano immani quantità di storie da narrare, ed in più faceva anche conoscere ancora meglio il gruppo in giro per tutto il continente. Così, quando la compagnia si fermava per una notte in qualche villaggio, nelle taverne rieccheggiavano i racconti del giovane mezz'elfo, e riusciva a guadagnare quel minimo per mangiare e metter via qualche monetina da parte. Era stufo di pesare sulle spalle dei suoi amici, per quanto fosse quasi la sua famiglia, così piano piano riuscì a rendersi autosufficiente. Ed i suoi compagni erano felici di questo, si rendevano conto di quanto fosse importante per lui farsi strada nel mondo non solo come il figlio di Khaled, ma anche come Daniel il cantastorie. E così il gruppo più compiva gesti eroici più era popolare nel continente, che portava a richieste di lavori sempre più importanti e delicati, ma anche meglio pagati, cosa che rendeva particolarmente felice Meriem, con sempre più gioielli e pietre preziose cosparse su tutto il corpo. In una serata d'inverno, il mezz'elfo fu svegliato da un suono stridulo proveniente dall'esterno della tenda. Qualche animale probabilmente aveva lanciato un richiamo, ma non aveva mai sentito nulla di simile. Uscito fuori incuriosito, trovò Felsiser inginocchiato su una gamba a guardare un punto nell'oscurità. Era il suo turno di fare la guardia, e quando si accorse di Daniel si portò un enorme dito alla bocca in cenno di silenzio, mentre con l'altra mano gli fece cenno di avvicinarsi a lui. Mentre piano piano si avvicinava a lui, di nuovo quel fischio stridulo rieccheggiò nella notte, più o meno da dove guardava il grosso minotauro. Arrivato al suo fianco, Felsiser gli indicò un punto preciso nel buio, e Daniel finalmente intravide ciò che emetteva di tanto in tanto quel fischio: era un piccolo draghetto, delle dimensioni di un gatto, magro e molto lungo, di colore bianco candido. Proprio per il suo colore il ragazzo riuscì a percepirlo, e mentre lo osservava non si accorse che lo sciamano, sedutosi li accanto, stava rovistando nella borsa da tracolla che portava con se. Daniel non aveva mai visto prima un drago, ovviamente, i racconti che spesso narrava su di essi erano solo frutto della sua fantasia, e doveva ammettere che nella sua fantasia erano ben più grossi. Ma nonostante questo, era davvero affascinato dalla creatura, slanciata, appollaiata su un ramo di un acero le cui foglie ormai erano quasi del tutto cadute, fischiando chissà per quale motivo. Felsiser si allungò verso di lui, e gli sussurrò nell'orecchio “stasera ti farò un regalo che ti ricorderai per tutta la vita, figlio mio”. Usava sempre l'appellativo figlio mio quando la situazione si faceva vagamente solenne, e probabilmente in questo momento non c'era nulla di più solenne per lui. Gli mise in mano un pezzetto di carne salata, proveniente dai resti della cena, e gli spinse la mano aperta verso il drago. Dopo qualche secondo di incertezza, il piccolo rettile scivolò giù dall'albero, e si avvicinò al giovane che gli offriva un pezzo di carne. Circospetto, si guardò intorno più volte prima di raggiungerlo, e si mise a guardarlo negli occhi poco distante dalla sua mano. Aveva fame, su questo non c'era dubbio, ma era anche abbastanza dubbioso sulla persona che impugnava il cibo. Alla fine, dopo un buon minuto di silenzio, con i bagliori delle ceneri riflesse nei suoi occhi, il piccolo drago allungò il collo verso la sua mano, raccolse il pezzo di carne e si mise a mangiarselo senza allontanarsi. Daniel si voltò verso il minotauro, con aria interrogativa, ed esso piegò leggermente la testa verso la lucertola volante, come per spronarlo a toccarlo. E così il mezzelfo si sporse con la mano, e, dopo un primo scatto impaurito, il piccolo drago si fece accarezzare sulla testa scagliosa. Una volta finito di mangiare, si avvicinò a lui, e come un gatto cominciò a strofinarsi al corpo del giovane stupito ed affascinato allo stesso tempo. Stava per aprire bocca quando il minotauro lo fermò con le seguenti parole “aspetta, non aprire bocca. La prossima parola che dirai, lui la prenderò come il suo nome, e da allora in poi risponderà solo a quel nome, e solo se pronunciato da te. Lascia che ti spieghi..” si alzò in piedi, e così fece anche daniel. Sobbalzò leggermente quando il draghetto si arrampicò sulle sue spalle, aiutandosi con le ali, e si appollaiò sulle sue spalle. Felsifer si avvicinò al fuoco, lo ravvivò un minimo e si sedette accanto ad esso, accendendosi la grossa pipa che fumava durante i turni di guardia e nei tempi liberi. “vedi, quello che hai sulle spalle è un draghetto del vento. Si tratta di un animale molto raro, da queste parti, ed anche molto curioso. Appartiene alla stessa famiglia dei draghi, come si può facilmente intuire, ma come vedi è molto più piccolo.” tra una frase e l'altra aspirava boccate di fumo, facendolo poi uscire dalle grosse narici. “si tratta di animali molto leali, normalmente si legano ad un solo padrone, ovvero qualcuno che sia gentile con loro, come sei stato tu poco fa. Basta qualcosa da mangiare e qualche carezza per renderlo a te fedele. Ed ora è il tuo draghetto. Sta aspettando che tu pronunci il suo nome, ovvero la prima parola che uscirà dalle tue labbra, per restarti sempre accanto. Non mangia molto, il più delle volte si accontenta degli avanzi della cena, ed è abbastanza sveglio per potergli insegnare qualche trucchetto. Ah, prima che tu dica qualsiasi cosa, sappi che è una femmina.” sorrise come solo i minotauri riescono a sorridere, e con una pacca salutò il giovane per andare a svegliare Khaled, visto che il suo turno di guardia ormai era finito. “domani ti racconterò qualche altra curiosità sulla sua specie”. Khaled era proprio la persona che in quel momento Daniel voleva vedere. Appena gli fu seduto a fianco, notò il piccolo draghetto sulle sue spalle, vigile e curioso di quello che capitava attorno al suo padrone. “ecco perchè non sentivo la tua voce, venendo quà” sorrise Khaled “a quanto pare ora dovrai trovare un bel nome per il tuo piccolo.” di rimando, Daniel sorrise, ma aveva gli occhi tristi, e, con un bastoncino, scrisse per terra “è una femmina. Raccontami di mia madre” mentre il draghetto seguiva con la testa i movimenti del legnetto. Khaled raccolse la pipa che il minotauro aveva lasciato li accanto a Daniel, e così si mise a raccontargli la sua storia, di come l'aveva incontrata, sulle loro avventure e sui loro viaggi. Sulla loro amicizia molto stretta, sulla passione che li aveva presi e su come poi, dopo qualche anno insieme, ella avesse deciso di lasciarli, per cercare una vita più tranquilla. Lui aveva pianto molto e per molte notti la sua morte, era per lui molto più importante di quanto lui stesso riuscisse ad ammettere, e mentre raccontava i suoi ricordi diverse lacrime sgorgarono dai suoi occhi. Alla fine del racconto, Daniel pronunciò infine il nome della sua nuova amica: “Irina”. E da quel giorno, ovunque andasse il giovane era sempre presente anche un draghetto del vento, poiché non lo lasciava un attimo, ed esso si prendeva cura di lui come di un fratello. Forse fu per noncuranza, o forse un'informazione sbagliata, che portò questa vita felice alla fine. Uno dei grandi maghi che avevano contattato per aiutare Daniel, un certo Ronide della torre di smeraldo, era stato particolarmente interessato al giovane. Mentre Khaled era convinto che questo interesse fosse stato generato dalla voglia di aiutarli, al contrario era stato svegliato per puro interesse personale: aveva visto in lui la chiave per portare a termine un piano che tramava da secoli, ormai. Così, quando si ripresentò al gruppo, nelle campagne vicino alla vecchia città natale di Daniel, tutti furono molto felici di incontrarlo, e si unì così al gruppo di avventurieri, diretti entrambi alla città, per protezione reciproca. Non immaginavano che quella marcia li stava portando ad un massacro. Una volta arrivati nella città, sempre più disastrata e ormai quasi in rovina, il mago raccontò loro per quale motivo si era recato li: voleva per sempre terminare la minaccia degli sahaugin. Da alcune fonti, e tramite mezzi di scrutamento magici, era finalmente riuscito a capire da dove arrivassero quegli uomini pesce che terrorizzavano e razziavano la città: era ovvio che nessun elfo marino riuscisse ad individuarli, poiché essi non provenivano dall'esterno, ma dalla città stessa: avevano scavato la loro tana nelle fogne della città, ed utilizzavano proprio le cloache per colpire di sorpresa nei posti più impensabili. Si era procurato una mappa delle fogne, ed era sicuro che, mettendo al centro di esse un grosso cristallo da lui incantato, sarebbero riusciti a rinchiudere per sempre quelle bestiacce nel sottosuolo. “tuttavia” disse lo stregone “io non sono in grado di far confluire il flusso necessario dentro al cristallo. Ma Daniel potrà.” guardò Daniel con occhi carichi di follia, ma nessuno parve accorgersene, presi com'erano dalla possibilità di vendicare Irina. Così, decisero di entrare nelle fogne. “non posso venire con voi, mi spiace” spiegò il mago “la mia presenza turberebbe troppo il flusso, il mio potere è così grande che rischierei di mettervi tutti in pericolo, se il cristallo venisse destabilizzato potrebbe conflagrare e lasciare di questa città solo un fumante cratere.” con questo si congedò, dicendo che avrebbe lasciato la città per rendere il lavoro meno pericoloso. Il gruppo di eroi quindi si diresse verso quella che sembrava l'entrata più vicina al centro delle fogne. Seguendo la mappa raggiunsero il posto prefissato, affrontando un paio di pattuglie di uomini pesce, ed arrivati li, diedero il fagotto di velluto a Daniel, che lentamente aprì per rilevare il cristallo rosso sangue. Appena il ragazzo lo prese con le mani, ancora sporche di icore di Sahaugin questo cominciò a brillare, e il ragazzo apprese immediatamente che quello che stava per succedere non sarebbe stato ciò di cui il mago aveva parlato. Cominciò a pulsare, ad emettere luce sempre più intensa, e tutti gli sforzi che il ragazzo tentava per mettere fine a tutto questo furono vani. Un'onda di energia impercettibile si scatenò dal cristallo, ed investì tutto il villaggio. Una sfera di incredibile potere necrotico, rosso sangue e con facce di demoni torturati e sofferenti raggiunse ogni angolo del paese, per poi collassare su se stessa ed implodere dentro il cristallo stesso. Tutto questo in un istante, ed i compagni di Daniel caddero a terra perdendo conoscenza. Anche il ragazzo si afflosciò a terra completamente esausto, e dalle ombre vide comparire il mago, con un ghigno sulle labbra che lasciava intendere molto bene il suo ruolo in tutta questa faccenda. “oh, povero ragazzo..” cominciò Ronide “povero, povero ragazzo.. tutti i tuoi compagni sono morti.. ma che dico.. tutto il villaggio è morto.. certo, anche gli sahaugin sono morti, TUTTI SONO MORTI!” scoppiando in una sonora risata, lo stregone dalla tunica cremisi si inginocchiò accanto al ragazzo “hai fatto proprio un ottimo lavoro. Per fortuna che è durato così poco, perché anche la mia protezione stava vacillando dalla potenza che ne è scaturita” guardava il cristallo, ancora impugnato dal ragazzo. “ed ora, dammi la lacrima di Kreja che tieni in mano, piccolo bastardo..” pronunciava le parole alternando la propria voce, con scatti di acuti troppo acuti e bassi troppo tristi perché potesse sembrare una persona sana di mente. Dentro la testa di Daniel, tuttavia, qualcosa stava succedendo. La lacrima di Kreja che teneva in mano bruciava tra le sue dita, e sentiva da essa provenire un brusio angosciato e terrificante. “no..” tentò di dire il giovane. “non è.. possibile..” guardava i suoi compagni, stesi per terra, e si accorse che, nonostante le parole del mago, essi respiravano ancora “ti sbagli, Ronide..” durava fatica a parlare, e dai suoi occhi colavano lacrime di sangue “ti sei sbagliato, te lo assicuro.” si alzò in piedi, e lo stregone mostrò molto bene il suo stupore in questo. Era convinto che fosse stato prosciugato di tutte le sue forze. “tu non hai IDEA di cosa hai fatto.” la follia eccheggiava nei suoi occhi, così potente, così letale che anche il mago indietreggiò di fronte a lui. “loro.. loro sono dentro di me..” pronunciava parole, ma non sembrava parlare direttamente con lui “noi.. noi siamo tutti qui. Dentro di noi.” e pronunciando quelle parole, Daniel schiantò il cristallo con una sola mano, lasciando per terra solo frammenti grigi e senza potere. “NOOOOOOOOOO!” urlò lo stregone con la faccia contorta. “COME HAI FATTO!” in lacrime si lanciò per terra, sul luogo ove i frammenti erano caduti. Cominciò a farfugliare frasi senza senso, parole a caso disconnesse l'una dall'altra. Lentamente, Daniel si avvicinò ai suoi compagni. Respiravano, erano tutti vivi, e non erano dentro di lui. Una miriade di voci voticavano nella sua mente, voci disperate, voci sperdute, voci senza ormai più speranza. Sentiva tutto, comprese voci in lingue che non conosceva. Il tutto lo stava facendo impazzire. Il mago era ancora li, disteso in terra, nel tentativo di raccattare tutti i frammenti e di rimetterli insieme. Tentava di incastrarne uno con l'altro, senza speranza, ormai travolto dalla follia. Daniel fece ripredere i suoi compagni, e disse loro “vi abbiamo protetto, ora però dobbiamo andare via da qua. Sono tutti morti. Noi li abbiamo uccisi, ma avremo tempo per dispiacercene fuori di qui.”. Una volta usciti dalle fogne, scoprirono di essere giunti in una città morta. Non c'era vita, non c'era nessuno. Erano tutti morti. Il silenzio riecheggiava talmente forte che nessuno di loro parlava. Una volta usciti dalla città, le voci nella testa di Daniel si affievolirono, e spiegò loro come erano andate le cose, da quello che aveva capito lui, e da come si sentisse in colpa per tutto questo. “scusa se ti interrompo, Daniel” disse Kim “ma hai detto che CI avete salvato. Tu e chi?”. Daniel si sorprese un po da questa domanda “no, abbiamo detto che vi abbiamo salvato. Solo noi.” e così si accorse che delle voci erano ricomparse dentro la sua mente, e che stavano cambiando il suo modo di parlare, al plurale. “credo che stiano tornando da noi... le sentiamo.. dobbiamo spostarci ancora, le voci ci hanno raggiunto di nuovo..” e così dicendo, il gruppo si mise di nuovo in marcia. Quando si spostava, le voci sparivano, per poi tornare dopo qualche tempo, come una lenta marea di melassa che si trascina verso il ragazzo. Dopo qualche anno, quando la compagnia si sparse per andare a godersi i frutti dei loro lavori, Daniel prese la sua strada, tormentato dalle voci nella sua anima, viaggiando sempre, per tenersi lontano da esse. Era ormai pronto per trovare un gruppo tutto per se, e mantenne i contatti con tutti i membri. Irina è tuttora al suo fianco, a fargli compagnia, e ovunque vada Daniel tenta di redimere la sua anima, portando le sue storie ed i suoi servigi a chiunque ne abbia davvero bisogno. Come cognome prese il nome di colui che gli aveva fatto da padre, Khaled, e mai dimenticherà la sua famiglia.
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Ciao a tutti. Ho iniziato a scrivere una Blog-story. Caricherò un capitolo a settimana. Ho già uppato il primo. La storia parla di Rishidd, giovane esponente della famiglia Scio che passerà dalla dolce vita agiata della cupola di New Utopia alla grezza e sporca vita dei sobborghi di città e si vedrà protagonista di duri viaggi che lo renderanno uno degli uomini più potenti del mondo. Come sfondo mi sono ispirato al normale fantsy e a quello di China Mieville di perdido street station . Spero vi piaccia. A voi il link! http://rishidd.blogfree.net/ Accetto critiche costruttive e consigli
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Ho portato questa idea in molti altri forum e ora è giunto il momento che approdi anche qua. Questa sorta di gioco consiste nello scrivere un racconto con l'apporto di chiunque ne abbia voglia. Coloro che vogliono partecipare non devono fare altro che scrivere cinque parole che si riallaccino alle cinque parole del messaggio precedente (se queste non terminano con un segno di punteggiatura, chi scrive dopo è libero di inserirne uno all'inizio delle sue parole, purché sia grammaticalmente accettabile). Ogni volta che si raggiunge un certo numero di messaggi mi prenderò la briga di accorpare il loro contenuto. Iniziamo: Tutto ebbe inizio sul pianeta
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Erano più o meno le due di notte, siccome mi rigiravo nel letto e non riuscivo a dormire ho avuto un flash e ho scritto questo..... ---- Lei faceva parte della generazione del 2000, quel 2000 che i suoi genitori avevano vissuto con tanta attesa, che sembrava un pò il nuovo anno mille, o l'anno zero, a seconda dei punti di vista. La domanda che tutti di facevano era: La tecnologia avrebbe cessato di esistere con la mezzanotte del 31 dicembre 1999? ci sarebbe stato il famoso Millennium Bug? O semplicemente i dispaly dei cellulari, che a quell'epoca telefonavano e mandavano messaggi e basta non facevano altro, con tariffe costosissime, look antiestetici ma assolutamente resistenti tanto che li potevi tirare di sotto dal terzo piano senza che si rompessero, avrebbero solo segnato 1 Gennaio 2000 ore 0:00. Adesso era una donna, anziana, un pò curva, che si aiutava con il bastone, e percorreva ormai il viale del tramonto. Era autunno, una sera tiepida, con un leggero vento che alzava un pò di polvere e staccava via da rami le ultime foglie, insieme spazzavano il marciapiede, rincorrendosi in una danza frusciante, con quel tipico rumore che fanno le foglie secche sull'asfalto. Il cielo era di un bel rosso. Si fermò un attimo nel suo intercedere lento, le foglie che si rincorrevano le fecero ricordare di quando era bambina, di quando i bambini correvano liberi nei prati, si giocava a rimpiattino, e d'estate ci si metteva le calze corte e gli scarpini aperti. Si giocava rotolandosi nella terra, e chi era fortunato d'estate andava al mare epoteva farci anche il bagno! In inverno invece c'era la neve bianca soffice e...freddissima. Ricordava di quando il grande fiume ghiacciava in inverno e le persone ci pattinavano sopra, quando la gelata passava poi si poteva andarci anche a pescare. Lo direste voi? Sissignore si poteva andare a pescare al fiume! Nei ricordi la luce, gli odori, i sapori tornano a riproporsi insistenti e probabilmente sono tutti piu belli e piu buoni di quanto non lo fossero in realtà. Era così diverso il mondo all'inizio del 2000. Quante aspettative che ave allora il genere umano, tutta quella nascente tecnologia che avrebbe portato il progresso l'evoluzione, azzerato le distanze, reso nulli i concetti di spazio e tempo. Quanta libertà c'era in quegli anni del nuovo millennio. Oggi il mondo sta morendo, avvelenato dall'uomo che ha sacrificato l'unica cosa che possedeva la Terra, sull'altare di dei fasulli e meschini, Potere, Progresso, Denaro. E' stanca Alice, stanca di questa vita che non è piu vita. Non si può uscire dalle città, fuori dalle città non c'è niente, come dopo un disastro atomico, solo morte e distruzione. Nelle città la tecnologia fa si che si sia protetti sotto una cupola, le macchine programmano il tempo, le stagioni e filtrano aria pulita. Ogni sera Alice arriva fino al limitare della cupola, ha trovato un errore nella matrice c'è un punto da dove puoi vedere quello che c'è fuori davvero e non quello che il programma vuole farti vedere. Un bug. Un buco nel sistema. La tana del bianconiglio! Solo che di là non c'è il paese delle meraviglie ma solo le macerie di quel che ne resta. Alice sa che quello non è un bug, è una serratura. Come lo sa? perchè ce l'ha messa lei. Era una mente brillante Alice, cresciuta a pizza e tecnologia. Quando il disastro del mondo si preannunciò fu una dei sistemisti che progettarono la cupola. Non ci sarebbe mai stato modo di uscire,mai più. Ma chiudersi tutto alle spalle, non lasciare uno spiraglio alla speranza anche per una mente tecnologica come la sua era troppo, ecco perchè Alice lasciò un piccolo buco nel sistema che nessuno avrebbe visto. Da li Alice poteva vedere le macerie di quello che un tempo era il quartiere dove era nata, da li la stanca e vecchia Alice poteva vedere attraverso gli occhi del ricordo la se stessa delle grandi speranze. Era da tanto che ci pensava. Pensava che avrebbe voluto che tutto finisse li dove era cominciato. Sfiorò con mano tramante un punto nel niente e apparve una console olografica, Alice digitò un pò di codice, qualche riga di comando, si prese qualche minuto per pensare poi chiuse gli occhi e premette INVIO. Si trovò così dall'altra parte, per la prima volta vedeva la cupola dall'altra parte, una bolla metallica che si estendeva a perdita d'occhio. Tutto intorno le macerie di un mondo ormai morto. Si aggirava come un fantasma in quella che un tempo era la sua città, faticava a riconoscere strade e luoghi, il tempo passava e così anche la vita di Alice se ne andava via sempre di più ad ogni respiro. La vista si faceva piano piano sfuocata, il respiro affannato, e il passo sempre più incerto, fino a che giunse in un luogo familiare, una strada conosciuta, si fermò davanti a un edificio diroccato e mezzo crollato, il portone arrugginito emise un suono sinistro quando lei lo sospinse piano. Era buio dentro, e pieno di macerie lasciate dal tempo e dal disastro. Riconobbe la sua casa, la cucina, con i vetri ormai rotti e gli infissi caduti, dove la mamma cucinava cibi veri, ricordava il pollo arrosto della domenica, la sala da pranzo, si faceva sempre il Natale attorno al grande tavolo ovale e l'albero nell'angolo accanto alla finestra che dava sul giardino. Poi riconobbe la sua camera, o quel che ne restava, con la finestra piccola piccola da cui guardava il cielo prima di addormentarsi sognando un giorno di poter andare via, lontano. E ci era andata lontano Alice, ma ora era il momento di chiudere il cerchio. Era stanca Alice, si sedette in mezzo alle macerie appoggiata al muro, guardando da quella finestra un cielo scuro, senza stelle. La notte con il suo mantello pesante e scuro si allungava verso di lei stringendo in mano una sottilissima e argentea falce di luna. Chiuse gli occhi, adesso era davvero troppo stanca Alice.
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Che cosa, in questi due anni? Polvere, nient'altro che polvere, quel modo un po' ambiguo in cui preserviamo le cose importanti condannandole a una lenta morte-in-vita, giudicandole troppo preziose per ricevere il modesto onore del loro uso destinato. L'uso, appunto: ha scopo ciò che non viene usato, se tutto in esso è finalizzato all'uso? Non è forse questo male inteso onore il modo più alto per privare di importanza un oggetto? Interrogativi, e menzogne a me stesso. Perché non un mal riposto senso di rispetto, non una sconfinata ammirazione mi hanno spinto – ti hanno spinto, quaderno – verso questo baratro di risibile soprammobileria – è una parola? Ora lo è. È stato il ricordo di cui è portatore, la persona a cui è associato, a destinare l'oggetto alla solitudine di una mensola. Keepsake, una parola molto più adeguata del suo corrispettivo nostrano. Keep sake, for sake's sake – e non sono del tutto persuaso che sia un caso se ciò suona come un'ode a un alcolico. Può un dono divenire autonomo rispetto al donatore? Può un quaderno non nuovo ma come nuovo tenuto, intonso ancora – o quasi, c'è la tua firma dopotutto –, può una penna nuova che fino ad oggi si incupiva nel cassetto in preda all'inutilizzo, possono essi segnare un punto di svolta in una china fatta di parole scritte e cancellate subito dopo, vergognandosi talvolta di averle anche solo concepite? Se fossi una persona differente, se non avessi reti sinaptiche di ricordi concatenati che mi inchiodano come un tonno da mattanza, questo sarebbe solo un quaderno. Un quaderno con una carta molto buona, un quaderno dalla copertina rigida forse appena un po' pacchiana, ma di quel pacchiano tutto sommato piacevole a vedersi. E invece, invece no. Perché sono quel che sono, perché sento ora il verso di una cornacchia e di colpo è tutti i versi di tutte le cornacchie che ho ascoltato e visto da che ho memoria, è tutte le sensazioni che ho provato in tutti quei momenti, è tutti i ricordi di tutte quelle esperienze legate all'idea di “cornacchia”. Perciò no, questo quaderno non è solo – né, forse, potrà mai essere – un quaderno. È una chiave che spalanca porte di ricordi, è un cancello che si sgretola liberando ciò che celava, è un golfo di memorie amare. Qualche parola in più (e qualche foto della "stesura originale"), se vi va di darvi un'occhiata, è sempre sul blog.
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Si tratta di un "qualcosa" in prosa che ho scritto alcune notti fa, mentre già ero a letto e quando stavo ormai per addormentarmi. La malinconia è sempre la stessa, poiché sempre gli stessi sono i venti che soffiano e sbraitano dando vita alla tempesta in balia della quale mi contorco. Ho perduto le vele, il sartiame mi si avvolge come le spire del flagello divino attorno a un novello Laocoonte, i remi sono stati spezzati da onde troppo impetuose perché la mia esile barchetta potesse non ribaltarsi. Ed eccomi qui, aggrappato coi polmoni all'ultima bolla d'aria sempre più asfissiante che si consuma sotto lo scafo del cielo capovolto, lottando con tutto me stesso per non cedere e non lasciarmi andare all'obliato abbraccio delle profondità abissali spalancate sotto di me. La salsedine brucia le ferite, e le cicatrici dell'animo mi sfigurano fin dentro ai ricordi. Che cosa vedo nello specchio d'acqua infida, cosa che valga la pena salvare? Mi trascinano al fondo le pietre tombali al collo dei miei sogni. Sull'articolo del blog dove l'ho pubblicato cerco anche di fare una parziale analisi (e discolpa) del suo stile molto alquanto particolare, per non dire "da addormentato".
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Spendere se stessi nella trappola dei costi irrecuperabili
FeAnPi ha inviato una discussione in Libri, fumetti e animazione
Una piccola riflessione, che ho sentito meritevole di un post sul blog, sulla sottile linea che corre fra illusione e tenacia. Conosco questo effetto, conosco questa situazione – ci sono passato tante volte, in effetti. Come tutti. La sapiente scienza economica, l'arte del consumare capitali per non bruciare il profitto, ha trovato un nome per la situazione che vivo e che noi tutti viviamo o abbiamo vissuto, più o meno inconsapevoli, tante volte. È la trappola dei costi irrecuperabili, il baratro in cui precipiti quando pur avendo puntato su un investimento fallimentare continui a buttarvi denaro non potendo accettare di aver sperperato il capitale iniziale. Trappola dei costi irrecuperabili appunto, ché per quanto tu ci investa mai ti sarà possibile trasformare in business remunerativo un tale fallimento; continuerai anzi a dissipare le tue risorse, sprecandole per trasformare un buco nero nel tuo personale e irrealizzabile Eldorado. Più tardi accetterai la situazione in cui ti trovi, maggiori saranno le perdite sofferte prima di uscire dalla trappola dove troppo a lungo hai indugiato credendola un fertile bacio d'amante. Un fertile bacio d'amante, già. Ovviamente, l'essere consapevoli di questo rischio non deve essere, né di certo è per gli economisti, un verghiano invito a non tentare l'intentato crogiolandosi nell'ineluttabilità dell'immobilismo; è semmai un monito a saper distinguere l'investimento su cui bisogna insistere da quello che allo stato attuale delle cose è un puro e semplice spreco. E qui si nasconde l'illusione, la trappola dentro la trappola: perché è facile, dannatamente facile convincersi che i tempi stiano maturando, che le cose stiano cambiando e che presto la tendenza si invertirà, che basterà tener duro per ancora qualche tempo in modo da poter finalmente arrivare a cogliere quei frutti dolci e succosi che a lungo sono stati sognati, quei frutti sodi ora acerbi che secondo disfattisti e malelingue non matureranno mai. Ma quanto, quanto a lungo l'illusione può confondere e ingannare la logica? Verrà prima o poi il momento in cui anche il più inarrendevole dei sognatori dovrà accettare l'irrealtà della propria chimera – o no? O non la finirà piuttosto come la più comica delle macchiette, quel vecchio tutto pelle e ossa con la barba incolta e il cappello a tese decisamente troppo larghe, quel vecchio minatore che in ogni western si ostina ancora a scavare nella propria concessione certo di avvicinarsi ogni giorno di più alla proverbiale vena d'oro? C'è qualcosa che affascina nella figura del vecchio scavaterra: la sua tenacia, la sua fiducia nei frutti salvifici della fatica ostinata sono indubbiamente esempi da seguire, nessuno vorrebbe gettare la spugna e la piccozza a trenta centimetri dalla vena d'oro. Ma se non vi fosse invece alcun tesoro da portare alla luce? L'ostinazione del minatore diventerebbe allora risibile, ogni virtù positiva trasfigurata nel suo essere latrice di fatica inutile e speranze mal riposte. Il vero dramma del nostro vecchio è che lui non può mai sapere come andrà a finire, se vi sia davvero dell'oro nel suo terreno o se egli stia invece dando la caccia ai luccicanti riflessi di un sogno irrealizzabile. Lui, come tutte le macchiette stereotipate, non cambierà mai: continuerà a cavar roccia dalla terra, poiché quello è il suo unico ruolo nell'economia del racconto. Ma noi? Quanto ci mettiamo noi ad accorgerci che l'oro non si trova lì, che mai quei frutti matureranno e mai potremo coglierli per suggerne il dolce nettare, quanto ci metterò io ad accorgermene? A livello razionale, in realtà, lo so già da tempo; da tempo avrei dovuto cogliere una pietra tombale dalla mia cava delle disillusioni per mettervela sopra. E l'ho fatto in effetti, l'ho fatto diverse volte. Ma non è mai morto ciò che soggiace in eterno nei nostri sogni, e in particolari momenti si può scordare anche ciò che diamo per assordato. Perché la speranza, in profondità, cova sempre; perché dopotutto quello a cui aspiravamo ieri continua a essere una delle nostre aspirazioni dell'oggi. Perché ci diciamo che magari la nostra vena d'oro è proprio lì, stavolta le piogge e il tempo hanno eroso il terreno e magari basterà una picconata, massimo due, per farla venire alla luce; e anche se oggi non trovassimo niente, ogni colpo in più sarà pur sempre un colpo in meno da dare per raggiungere finalmente quel tesoro tanto agognato dal nostro cuore. Abbiamo faticato così tanto, certo il da fare è ormai poca cosa rispetto a quanto l'ha preceduto; abbiamo investito così tanto, certo i costi che dobbiamo affrontare ora sono nulla rispetto al già speso, quei costi irrecuperabili che verrebbero irrimediabilmente persi se ci arrendessimo proprio ora. E ci sforziamo di ignorare quel tarlo che rode il sogno, quel pensiero disilluso che ci spinge brutalmente ad accettare una realtà sgradevole: se tanto abbiamo già fatto, se tanto abbiamo già faticato senza ottenere nulla è probabile che non ci sia proprio niente da ottenere. I nostri sforzi fino ad ora sono stati vani, poiché cercavamo l'oro dove non c'è che fango, perché aspettavamo che maturassero i frutti d'una pianta sterile e rinsecchita. Non troveremo nulla, non ci sarà nessun coronamento dei nostri sforzi: il tempo e le energie impiegati sono stati sprecati, la nostra tenacia risibile ostinazione d'un pazzo visionario. È stato tutto inutile, non potrò mai rivivere gli attimi dei giorni che ho trascorso a cercare il nulla, non potrò mai decidere di annullare quel che ho compiuto. Ma possiamo decidere di uscire dalla trappola, possiamo decidere di accettare d'aver perso quel che è andato sprecato, possiamo decidere di porre un sigillo definitivo a quel capitolo della nostra esistenza – e andare oltre. Non è una resa, non si tratta di gettare la spugna: si tratta di comprendere con umiltà che non sarà la nostra ostinatezza da sola a rendere possibile l'impossibile, si tratta di rinunciare alle illusioni per abbracciare nuovi sogni. -
Un foglio bianco ondeggia nell’aria Lento scivola su una scala aerea… oscilla come su gradini Uno di qua uno di là, e va a posarsi su un costato martoriato. Si macchia… di rosso sangue. L’autobus è fermo, vuoto di passeggeri: proveniva dal deposito diretto al capolinea. Il conducente è sceso e se ne sta ritto immobile nell’incerta luce dell’alba resa più livida dalla poca neve sporca caduta nella notte Gli occhi sbarrati fissi al portone dell’elegante condominio dal cui balcone centrale pende un nastro bianco di lenzuola annodate che oscilla pigro sull’uscio chiuso appena mosso dalla lieve fredda brezza Pendolo di un tempo sospeso. Un ladro?… in fuga?… Impossibile!… Una improvvisa minaccia? Più in là una donna stretta in un lungo logoro pastrano della Caritas Lineamenti inespressivi, fermi, che un giorno furono splendenti di bellezza Il volto pallido e magro come succhiato dall’amarezza. Le trovi sempre presenti queste vecchie bellezze, disunite e logore, sui luoghi del dolore. A qualsiasi ora Cose abbandonate. E anche, tra le presenze insignificanti, un uomo laggiù! Il figurante che cerca il pulsante della portineria. Lo preme, infine, mentre scosta con l’altra mano il cordone di lenzuola bianche svolazzanti sul suo viso. Nessun altro sul palcoscenico, oltre il morto foglio svolazzante e il conducente dell’autobus. La portinaia si è affacciata al portone. Lo conosceva appena, l’inquilino fuggiasco del primo piano che ha interrotto laggiù la sua pazza corsa in ciabatte nella neve. Era ingegnere! “Assurdo… e poi a quest’ora!… Un signore normale… Serio tranquillo educato… Salutava sempre!”. È rientrata in portineria, la portinaia grassa, per telefonare alla polizia. Si fanno avanti sulla scena tre uomini infreddoliti. Uno con una borsa logora in similpelle da impiegato del catasto, apatico come fosse al suo sportello: deformazione professionale, ché un impiegato modello di uno sportello che si rispetti non deve lasciare spazio a emozioni, turbamenti, incazzature. Solo l’impassibile professionalità di una macchina impiegatizia! Gli altri due hanno borse da supermercato, bianche di plastica. Borsine! Gonfie della pausa pranzo. Sono molto concentrati i tre. Hanno fretta d’andare a timbrare, ma della breve sosta non vogliono lasciarsi sfuggire nessun particolare. Vogliono guardare da vicino l’insolito cadavere, sui quaranta quarantacinque, che giace di traverso sulla strada Il volto pallidissimo e intatto Il costato schiacciato. Indossa un accappatoio di buona qualità; una ciabatta di pelle è lontana come un’orma nella neve; l’altra ciabatta gli è accanto; i piedi lividi. Pur in queste condizioni si intuisce che appartiene ad una razza sconosciuta a quei tre, e avrà certamente avuto un buon motivo per morire. Questo pensano. Un motivo che quelli della propria razza nemmeno si sognano quando cadono da un’impalcatura, senza lenzuola e senza il tempo di un pensiero Abbandonata nella polvere la borsina di plastica della pausa pranzo che contiene pane, frittata di maccheroni avanzati dal giorno prima… vino, per il rito celebrato in solitudine nell’ora della pausa: un pezzo di pane a me e uno a te; una fetta di frittata di maccheroni avanzati a te… uno a me… “Mangiate, questo è il mio corpo!”. Un sorso di vino a te… e uno a me. “Bevete, questo è il mio sangue!”. E Amen! “Ite Pausa Est!”… e si affrettano all’impalcatura. E questo qui? Non ha da donare né corpo né sangue Non a chi donarli. La sua morte è immotivata! Avrà avuto tempo per pensare… a lungo e profondo… una morte tutta sua, senza un colpevole! Nessuno la raccoglierà questa morte. Solo, col petto schiacciato. Solo e privo di vita. Se ne impossesseranno del suo corpo, ma non lo mangeranno Lo squarteranno per scoprire la causa della morte… bisogna sempre scoprirla, anche quando c’è evidenza. Interessante! Rottura dell’arteria aorta… Stop! È in arrivo l’auto della polizia lampeggiante con sirena dal viale deserto. Stridono i freni. Sono in quattro; tre in divisa; uno in abito borghese, il commissario. “Spenga quel maledetto motore… Non sente che puzzo?”, ha gridato, il commissario E tossisce con violenza e sputa in un fazzoletto. Raccoglie dal costato ed esamina il foglio di carta senza alcun segno di scrittura Scritto di rosso sangue. “Coprite questo disgraziato!”. Lo agita eloquente, il foglio… spazientito fa il gesto come a pulirsene il ****. “È senza importanza!… lo metta comunque agli atti! E chiami l’autorità giudiziaria.” Poi, rivolto al conducente dell’autobus che è… come dire?… sotto shock! “Lei si fermi qui… non si allontani!” “Io sono innocente!” “Aspetti a dirlo! Un uomo è morto!… e non si muore mai senza colpe!”. “Ma…” “Taccia… le conviene! In fragranza di reato potrei arrestarla… quantomeno per omicidio colposo!… Per ora sarà trattenuto!… Sotto inchiesta!… Cominci comunque a pensare ad un avvocato…”. L’autorità giudiziaria tarda ad arrivare. Il traffico si infittisce e rallenta per dar tempo ai trasportati delle auto mortifere, piene di fumo, di vedere la sagoma del morto sotto il lenzuolo. Chiusi negli abitacoli si affannano a pulire con le mani i vetri appannati Occhi assonnati lacrimosi nel fumo Sfatti. E finalmente arriva, l’autorità giudiziaria E c’è già un traffico intenso e l’aria è densa oleosa e fa tossire il commissario… e la tosse si accentua alla vista di quest’omino piccolo, occhialini rotondi con montatura in oro, borioso e di malumore per l’ora inopportuna. “Scelgono sempre le ore meno comode!… ‘sti disgraziati!”. Ha guardato il morto Poi lo sguardo è andato al portone. Le lenzuola! Ha considerato i disegni in gesso sull’asfalto. L’autobus! Ha capito tutto in un attimo ed ha concluso. “Certo che se questo stronzo… se quest’autobus fosse arrivato con un minuto di anticipo o meglio di ritardo…”. Ha firmato alcune carte… fumando lì in piedi. Il commissario tossisce ché il fumo della sigaretta dell’autorità lo insegue… come sempre. A supporto della penna d’oro dell’autorità viene utilizzata la borsa del cancelliere Un ometto modesto sempre un passo indietro. “Mi permetto di farle osservare…rispettosamente s’intende…che l’incidentato fuggiva… Era forse minacciato… ”, gli viene impedito con un gesto brusco di continuare. “È solo uno squilibrato uno che fugge così!… Beh, cosa aspettate a sgomberare?” E se ne va! Il commissario è colto da un accesso di tosse violento dal timbro quasi asmatico. Sussurra: “Coglione!”. Il carro dell’obitorio è già arrivato. Messo in un sacco nero della spazzatura… lenzuolo e tutto… e via! Via anche l’autista dell’autobus con l’auto della polizia. Via l’autobus con conducente di ricambio. Lo spettacolo è finito! Resta solo il festone delle lenzuola annodate come una decorazione. E traffico bestiale. Il commissario e due agenti si avviano verso il condominio La portinaia chiede rude che venga eliminato quello sconcio in fretta… le lenzuola penzolanti annodate al balcone. “È un condominio rispettabile questo Tutte persone a modo Rispettate e con un lavoro onesto… di prestigio… medici… ingegneri… Famiglie serene… Nessun drogato!” E il festone della fuga è marchio ingiusto! Intollerabile Il commissario ne conviene. “Protrarremo al minimo il disagio… Certamente!… Colpevole… Indegno!… Ma io voglio scoprirlo l’altarino… Ah! Se lo scoprirò… Succedono di quelle cose nei quartieri alti!… Ci indichi l’appartamento di ‘sto disgraziato!”. La porta dell’appartamento è chiusa Una porta di ottima fattura Lucida, e senza un graffio Uno dei poliziotti propone di forzarla. Il commissario. “Coglione!… una bella porta così!... Il balcone è aperto, entreremo per di là!”. Tenta di arrampicarsi alle lenzuola, il commissario… Non ce la fa!… Tossisce furiosamente. “Se non fosse per questa dannata asma…” L’insuccesso lo ha molto contrariato E tossisce ancora… Il timbro è asmatico. Fallisce miseramente anche il tentativo, a turno, degli agli altri due, per quanto più giovani del commissario… e senza asma. Si rincuora il commissario e comanda. Il tono è rude, come di chi ha riacquistato l’autorità messa inopinatamente a rischio da un’impresa impossibile alla sua età, in sovrappeso e con asma. Ce le ha tutte le scuse buone! “Telefoni ai pompieri!… Presto!” L’appartamento è un monolocale, ed è in ordine. Solo il letto è disfatto; la porta di ingresso è chiusa a chiave ed ha inserito il dispositivo di sicurezza, ma all’occhio esperto del commissario non sfugge una porticina camuffata, nascosta dietro un cassettone. “Spostate quel cassettone!”. Oltre la porticina una scaletta ripida e buia. Una ventata di aria umida e ammuffita fa tossire violentemente il commissario. “Con prudenza… CRAaK! CRAaK!, ‘sta tosse accidenti!… scendiamo con prudenza a controllare… CRAaK! CRAaK!, ‘sta tosse, accidenti!... chè qui potrebbe esserci la chiave di tutto”. È la cantina! Che puzza laggiù: carta igienica, spesso anche imbrattata… una bambola che mostra la paglia dalla pancia sventrata, guercia da un occhio e l’orbita vuota è un buco nero con un fondo di nulla… anche qualche topo in fuga… dei topi sono entrati nell’orbita e rodono… rodono… compiono un lavoro profondo… anelli di una catena sul pavimento, inerti… uno specchio infranto manda lampi della follia… “Che schifo!”, e tossisce in modo preoccupante, il commissario. Poi pensieroso, con un filo di voce: “… che schifo!... ho le spalle piene di brividi… presto, risaliamo… qui c’è la merda…”. Si riprende lentamente il commissario: “Ecco!… L’avevo sospettato!... E’ evidente!… qualcuno lo minacciava… si è barricato ed è fuggito… si complica la faccenda… Altro che rispettabili!… Questi sporcaccioni!… Dal pianerottolo le minacce?... dalla cantina?... i topi… ah, se non ci fosse stato quel maledetto autobus… proprio in quel momento… a complicare l’indagine!… Ma scoprirò lo stesso lo sporco intrigo… a costo di installarmi qui… notte e giorno… non può aver ragione quel giudice coglione”. A questo pensiero riprende a tossire. Rimettono il cassettone contro la porticina, chiudono il balcone e pongono i sigilli. Aprono la porta con la chiave che era nella toppa. Escono sul pianerottolo… chiudono a chiave e pongono i sigilli. Il processo al conducente dell’autobus viene celebrato con rito abbreviato. Ha riconosciuto la colpa e si affida alla clemenza della corte. L’accusa ha brevemente esposto i fatti. “È appurato da scrupolosi calcoli che l’autobus è transitato sulla scena del delitto con ben un minuto di anticipo rispetto all’orario previsto… chiaro quindi che se fosse transitato in orario giusto non ci sarebbe stato l’omicidio… Chiaro anche che per arrivare in anticipo sono stati superati i limiti di velocità, ma forse non c’è stata volontarietà… Forse… ma colpa sì!: Imprudenza Imperizia Negligenza… omicidio colposo!”. Scroscia un applauso dal pubblico. Prima che la difesa prenda la parola, il Presidente invita l’avvocato ad essere conciso: “… Guardi il mucchio di pratiche… etcetera!”. “Signor Presidente, mi rendo conto di approfittare del suo tempo prezioso, ma nell’interesse del mio assistito dovrò essere preciso… fino allo scrupolo. Mi perdoni e non si spazientisca! Mi occorre un minimo di tempo… Parto direttamente dal nocciolo!… Se il mio cliente fosse giunto sul posto con qualche attimo di ritardo, le conseguenze sarebbero state ben più gravi, e, invece che il costato, sarebbero stati ridotto in poltiglia gli arti inferiori con esito probabilmente ugualmente letale, ma tra grandi sofferenze… o peggio avremmo avuto un invalido in carrozzella da mantenere per una vita… e non consideriamo le spese ospedaliere!… Che se poi il ritardo fosse stato appena più lungo, ci avrebbero pensato le ruote posteriori dell’autobus piuttosto che quelle anteriori!… Tutto evidenzia una fatalità… una necessità!”. Il Presidente mena colpi terrificanti sulla cattedra col suo martello, ché dal pubblico si è levato un mormorio di disapprovazione… il pubblico esige un colpevole e una pena esemplare! Il giudice presidente non si lascia comunque influenzare ed emette il suo verdetto. Rivolgendosi all’avvocato della difesa “Apprezzo le sue considerazioni, ma ritengo ad ogni modo il suo cliente colpevole di omicidio colposo, per quanto con attenuanti generiche… In nome, etcetera etcetera… si condanna l’imputato all’ammenda massima per l’eccesso di velocità ed alla sospensione della patente per mesi due. La condanna tiene conto delle agevolazioni derivanti dal rito abbreviato… Il caso è concluso!”. Il pubblico rumoreggia… il Presidente mena colpi col martello. Crucifige! Crucifige! “Chi è senza peccato scagli la prima pietra!… Il caso è concluso!…Faccia sgomberare l’aula!”.
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Posto qui un mio breve racconto...devo averlo già pubblicato su qualche altro sito..ma non ricordo quale...spero solo di non violare il regolamento postandolo anche su dragonslair... ______________________________________________________________ Guarda le onde che in lontananza si abbattono sulla scogliera: dall'alto di quel monte può finalmente amare tutta la realtà, abbracciarla con un lungo, tenero sguardo. Non sa quanti minuti potrà ancora concedere a quella stupenda vista, forse pochi attimi prima dell'oblio. Ha solo il tempo di scegliere quale ultimo pensiero regalare al creato: abbandonare tutto con un semplice sorriso vorrebbe, ma non può, non riesce a strapparsi dalla testa la condanna. Come vivida immagine arde ancora il ricordo di quella notte, di quella piccola follia che, per quanto apparisse innocente, si dimostrò un errore fatale. Se solo non avesse accettato, se solo non avesse preso quella siringa, ora potrebbe sperare. Si alza. Non può restare lì. Si volta e si incammina. Ecco cosa lo attende: pochi passi prima del cimitero. Neanche lui sa cosa troverà oltre quel cancello arrugginito, ma, ormai rassegnato, abbassa la maniglia ed entra: solo lo stridere dei cardini arrugginiti sembra essergli di compagnia; mute giacciono le lapidi, sfiorate dal pulviscolo sollevato dal vento, e solitaria si erge la piccola cappella, ormai invasa da svariate forme di vegetali, quando, proprio da lì, vede uscire l'uomo: quanto sembra diverso da come appariva quella serata al pub! Quella notte, così almeno gli sembra di rimembrare, portava una camicia a righe e dei Jeans da lavoro; calata sul volto aveva la visiera di un berretto rosso e fumava, quasi non sembrava poterne fare a meno; ora invece è ricoperto da una lunga veste rossa che gli lambisce le ginocchia e nella mano non stringe una Winston consumata dal fuoco, ma un piccolo libro, in cui tiene un dito come segnalibro. -Ben arrivato Marco- Non risponde. -Paura?- Ancora silenzio -Non serve che tu parli, ma avresti reso le cose più facili facendolo- L'uomo si incammina, lui lo segue; l'uomo entra nella chiesa, lui lo segue; l'uomo si siede su una delle panche, lui fa lo stesso. Non ci sono ceri accesi a fianco del tabernacolo, l'unica fonte di luce è la finestrella sul lato sinistro. -La colpa è solo tua, Marco.- L'uomo si schiarisce la gola e si alza:ora gli è davanti con il volto verso di lui. -Ricordi? Ricordi quanto dicemmo quella sera? Io ti avrei dato ciò che desideravi e in cambio volevo solo una tua promessa. Ricordi?- Lui china il capo in cenno d'assenso. -Ricordi anche la promessa?- Un altro cenno di assenso accompagna quelle parole. Ma che altro può fare se non tacitamente assentire? -Marco, tra poco inizierà per te una nuova vita. Non sarai più chi eri. Alcuni dicono che una volta fatto non si è più e basta: io cosa sarei allora?Mi vedi, Marco?- -Si- -Sono reale?- -Si- -Sei pronto?- Vorrebbe dire di no; già lo sta per pronunciare, ma ecco che accade. Inizia tutto con un tremito: le gambe iniziano a tremare; il volto si contrae in una smorfia di dolore: lo copre con le mani. Vorrebbe urlare, ma è come se delle catene gli legassero le corde vocali, impedendogli di farlo. -Il tuo corpo dice di si, ragazzo- -Ma il suo spirito non è ancora sconfitto- Chi è che parla? Marco non lo sa. I suoi occhi bruciano e la sua mente sembra esplodere. -Tu?!- -Io- -Come vedi sei arrivato in ritardo- -No, non è mai troppo tardi- Marco sente una mano sfiorargli il braccio: una mano ruvida, secca. -Il punto di non ritorno è vicino. Cosa pensi di poter fare?- Marco non sa cosa sta succedendo. Sente l'uomo davanti a lui urlare: un urlo seguito da un tonfo di corpo che cade. Sente dei passi: forse l'altra persona si sta avvicinando. Adesso non sente più nulla. Sa di stare urlando, ma non ne è completamente conscio. Si alza in piedi. Prova ad aprire gli occhi, ma non ci riesce. Ecco! Sente qualcosa! Un fortissimo odore! Gli piace. Prova ad avvicinarvisi. Adesso sa di essere chino su di un corpo. Lo tocca, avvicina la bocca e morde. Lo fa di nuovo. Ripetutamente affonda i suoi denti nella carne di quell'essere. Prova un piacere immenso nel farlo ma, improvvisamente, si ferma. Ha sentito un tocco sulla spalla. Un senso di calma lo pervade. Sa di essersi seduto e sente le mani di qualcuno che gli toccano il volto, gli afferrano le dita, gli tastano gli occhi. -Marco, mi senti?- Cosa è successo? Non saprebbe dirlo. E' ancora nella piccola chiesa, ora illuminata solo da una candela. Capisce che da tempo è calata la notte. Si guarda intorno: vede panche distrutte, la finestra rotta e sente uno strano odore. Si volta: disteso sul freddo pavimento c'è il corpo dell'uomo dalla lunga veste. Non ha più la testa, molti morsi ne hanno dilaniato il corpo e, al suo fianco, ci sono i resti di un libro. -Che cosa è successo?- -Hai oltrepassato il limite e sei tornato indietro.- Marco non capisce. Ricorda solo la terribile angoscia che qualche ora prima gli attanagliava lo stomaco. -Chi era?- -Uno di loro. Uno degli oltre-passati, Marco. Tu hai accettato il suo patto e lui ti ha soggiogato.- -Oltre-passati?- -C'è chi li chiama così. Altri li chiamano i senza-speranza, altri non-morti, altri ancora anime-perdute. Tu sei stato per pochi attimi uno di loro. -Uno di loro?- - Forse un giorno capirai- Marco abbassa il volto. Ha capito di essere stato salvato da qualcosa di terribile, ma per il resto non comprende. -Come ho fatto a salvarmi?- -Ti sei fidato, Marco. Hai accettato il mio tocco- -Tu chi sei?- -Oggi sono un amico. Domani potrei essere solo una frase o un paesaggio- Marco chiude gli occhi. Gli duole la testa e non sta capendo nulla. Dopo poco alza la palpebra superiore e si accorge di essere solo. La cappella è deserta. Si alza ed esce. Dopo poche ore ritorna a casa, si stende sul letto e dorme. Tutto sembra finito,ma sogni strani lo tormentano. Sente un dolore lancinante alla spalla. Si alza. Sa di cosa ha bisogno. Apre il cassetto e la vede: eccola la siringa. Allunga la mano e la immerge nel liquido. Avvicina l'ago al braccio. Ecco fatto. Adesso è finalmente tranquillo. Chiude gli occhi. Li riapre. Sente un tremito lungo la gamba. Sente un fortissimo dolore alla testa e il suo volto si contrae in una smorfia di terrore. Urla, ma nessuno può sentirlo. Piange, ma solo il ghigno sommesso di qualcuno al fondo del suo letto gli fa compagnia. Ormai Marco sa. E non c'è più nulla da fare. Un ruvido tocco gli sfiora i capelli e un odore piacevole gli invade le narici. Un sogno? Realtà? Non sa dirlo, ma il caldo sapore sulla sua lingua sembra dargli una concreta risposta.
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Andava!…andava… comunque. Nell’incubo andava! La sua ombra lo precedeva Concreta E precedendolo di un buon tratto, la sua ombra lo attirava con forza ed era andata a sbucare in una piazza nuda estesa Chiusa, senza interruzioni percepibili al primo sguardo sulla palizzata calcinata di lapidi grattacieli. E non riconosceva più, girando lo sguardo a ritroso, nemmeno lo stretto varco di strada dal quale era sbucato. Stanco di guardarsi attorno si sedette rassegnato sulla panchina, l’unica nella grande piazza E guardava in alto in cerca d’un cielo assente. Solo una lunghissima corda, scorse Tesa sul vuoto della piazza da due opposti edifici Altissima Lontana… sul vuoto. E un funambolo lento si inoltrava sul sottilissimo percorso… senza acrobazie... triste!... e senza pubblico. Avrà una meta?… Laggiù! E cosa c’era laggiù? Forse un pubblico?... Forse un applauso? Improbabili! Ma l’aveva incuriosito questo viaggio senza senso su una corda Intrapreso né per lo spettacolo, né per un applauso. Che l’unica giustificazione fosse l’approdo in un luogo? Si levò dalla panchina e si diresse all’alto edificio alla cui sommità si agganciava il terminale della corda sospesa nel vuoto. L’ingresso all’edificio era stretto… quasi un pertugio Ma dava su una normale scalinata di condominio. Prese a salirla con impeto, la scalinata, saltellando sulle punte dei piedi Ma non si raggiungevano pianerottoli per una sosta. Dovette sedersi sulle scale ansimando, e riprese la salita con meno foga poggiando sui gradini tutta la pianta dei piedi, ora. Non si aprivano porte su quelle scale immerse in una luminescenza grigia, interrotta solo di quando in quando da brevi lampi… lampadine sul limite dell’esaurimento! Ma udiva un mormorio, un brusio ininterrotto proveniente da punti indefiniti Arrivava da ogni lato questo bisbigliare che talvolta si faceva riso sardonico fino al gemito. Poi la scala si biforcò in bivio… A destra o a sinistra?… scelse la sinistra e incontrò altre biforcazioni Ad ogni bivio prendeva a sinistra. Inopinatamente, la scalinata prese a scendere, poi risalì ed ancora discese in larghe curve Infine era un labirinto da percorrere Trascorrere. Trapassava dal passo ciabattante in salita, al trotto lungo le scale in discesa A tratti si piegava per la fatica, ed a tratti quasi strisciava, ché la rampa si infilava a scorrere in cunicoli. Era esausto ma doveva andare… come avesse sottoscritto un impegno. I piedi erano gonfi e non tolleravano le scarpe Le tolse, le scarpe, e riprese a trascorrere quel labirinto di scale che ancora saliva, scendeva, si ingrottava Procedette per inerzia! I piedi piagati. Dalle piaghe fuoriusciva abbondante il pus. La pelle grinzosa disidratata La barba e i capelli lunghi E qualcosa vi aveva colonizzato tra i capelli e la barba. Era il barbone! Sbucò infine, dopo aver salito e sceso molte scale, in un pianerottolo e non c’erano più scale per proseguire il viaggio. C’era la porta di un ascensore! Premette il pulsante di chiamata e, dopo un tempo lungo di attesa, inerte lunga angosciosa, la cabina fu presente. Anche qui un solo pulsante… Non c’erano scelte!… Lo sfiorò appena, ed in un attimo era arrivato Una luce chiarissima Trasparente Abbagliante da non potere definire i confini dello spazio… se spazio era… Non c’erano confini né di pareti, né d’altro tipo… chessò… una barriera di alberi… un non confine vago di un prato con acque limpide... magari fiorito. Era un non luogo, invece. Senza colori Il non luogo della negazione dei colori! Una colonna sosteneva un grosso cavo di acciaio che andava a perdersi nel vuoto. Cercò di far penetrare lo sguardo per scorgervi il funambolo Non vide nulla nella luce chiarissima. Che fosse già giunto? Ma c’era niente intorno… Niente! Nemmeno un’ombra. Difficile descrivere la sensazione affatto nuova nel non luogo senza ombre né colori. Anche la sua ombra era perduta. Ebbe il tempo di pensare che non si sarebbe potuta concludere che così come si stava concludendo la sua avventura avendo accettato di trascorrere nel labirinto Il labirinto che non è possibile eludere, ingannare, sfuggire… il labirinto che tutto accoglie e fonde. E si concluse infatti... in perdurante mistero!